Andare a bottega

22 Giugno 2022

Giorni fa ho discusso con una giovane performer, trentenne o quasi, sul concetto di “andare a bottega”. Lei sosteneva che l’espressione da me usata non significava niente per gli artisti della sua generazione. Niente? Proprio niente? Il tono deciso, apodittico, di quella negazione mi appariva un po’ sospetto, e al contempo mi faceva nascere la voglia di comprendere, quindi ho ritenuto utile approfondire il confronto. La giovane performer ha specificato che non si trattava di disinteresse, da parte della sua generazione, ma che proprio il significato stesso di quella locuzione le era, a lei e ai trentenni come lei, totalmente sconosciuto, come l’espressione oscura di una lingua ignota.

La giovane performer mi è parsa avere poca dimestichezza anche col concetto stesso di teatro: preferisce il termine performance, inteso come intreccio di azioni legate al presente, ma soprattutto inter-azioni con gli spettatori, questo – se ho capito bene – realizzano lei e il suo gruppo. Tutto lecito, e anche interessante. A quel punto ho solo obiettato che forse la distanza tra il mio considerare come centrale la pratica dell’andare a bottega, e il suo non considerarla affatto, non era una questione di generazioni diverse: e che da molti trentenni che conosco in giro per l’Italia, quella pratica viene sperimentata ancora come vitale. Non solo, ma, scavalcando il discorso delle nostre (la mia e la sua) generazioni, non stiamo forse ragionando di una pratica che informa da secoli la vita delle arti? Avveniva quotidianamente nelle botteghe rinascimentali e barocche, nello scambio esperienziale tra allievo e maestro, dove Leonardo bambino cresceva a fianco del Verrocchio, Michelangelo in casa del Ghirlandaio.

bottega

E il teatro? L’andare a bottega significava entrare in compagnia. E se la compagnia non c’ era, la si formava. Molière è un modello limpido, tra i tanti che si possono ricordare. Cresce con la Bejart, impara dagli italiani, imita il napoletano Tiberio Fiorilli alias Scaramuccia, e a sua volta si fa maestro, scrivendo per i suoi attori, sudando nei teatri di provincia prima di arrivare a corte, maturando incessantemente in quella disciplina che è il passare da un pubblico a un altro, da uno spazio scenico a un altro, con altra acustica, altre luci, altra relazione con gli spettatori ogni volta diversi. E sempre cercando di creare un avvenimento che diverta e attragga e faccia pensare e faccia sognare, meraviglia e pensiero critico, testa e pancia e cuore: Teatro. Questo è l’andare a bottega, è il “se faccio, capisco” di Bruno Munari, declinato al plurale, nella prossimità della relazione allievo-maestro, compagna-compagno, “se facciamo insieme, comprendiamo”, che ha le radici nei millenni, nei riti orfico-dionisiaci. Millenni?

Davanti al mio rievocare l’impatto vivo che la Tradizione ha ancora sul presente, gli occhi della interlocutrice sono rimasti inerti. Come se le interessasse solo l’oggi, meglio, la sua superficie. Come se pensasse: la modernità è il mio unico modo, niente a che fare con l’arte. Non mi interessa Molière, mi interessano le vite di oggi. Sono d’accordo, ho detto, se non c’è vita di oggi in ciò che facciamo, niente può interessarci: come scriveva Arthur Rimbaud, “il faut être absolument moderne”. Ma perché separare gli antichi dai contemporanei? I morti dai viventi? A me questo è successo, divorare Molière o Aristofane mi è servito a vivere il mio tempo. E non facevano così anche loro? Plauto si è nutrito dei greci, Molière ha saccheggiato Plauto, Brecht ha spiato Molière e Shakespeare, e così via, una catena millenaria.

“Niente è più attuale del passato”, sosteneva Marc Bloch, il grande storico ucciso dai nazisti nella resistenza francese. E come suona amara questa constatazione, in “tempi bui” come questi, dove il passato ritorna in forma di guerre e pestilenze, nelle vicende mai risolte dei giochi tra potenze e del neo-colonialismo, che possiamo comprendere solo se leggiamo il presente in controluce, attivando una profonda conoscenza della Storia. Ecco, la discussione con la giovane performer era lentamente scivolata dalla bottega rinascimentale al neo-colonialismo, ed era un bel segno, perché ogni nostro discutere attorno all’arte e al teatro, se è tale, se scava, ci porta irrimediabilmente al mondo e alle sue ferite. Si fa politico per china necessaria. A quel punto però la giovane performer ha detto qualcosa che mi ha lasciato interdetto: che la questione del neo colonialismo è questione di oggi, “se ne è cominciato a parlare nel 2018, più o meno da quell’anno ha fatto tendenza, non prima”. Non prima? E dove li mettiamo Frantz Fanon, Leopold Senghor, Cheik Anta Diop e i loro saggi risalenti più o meno agli anni Cinquanta del secolo scorso? A quel punto ho compreso che il confronto si era ahinoi arenato. E, sorridendole, ci siamo cortesemente salutati.   

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