Andrea Botto: prove tecniche di fine del mondo
In Zabriskie Point (1970), nella scena finale dell’esplosione in slow-motion di una lussuosa villa costruita in una zona desertica, Michelangelo Antonioni fa brillare la potenza distruttiva e catartica di una detonazione spettacolare. Nella chiosa del film sono state utilizzate molte camere da presa, per mostrare al rallentatore la distruzione di tutto ciò che concerne prodotti del consumismo occidentale: si tratta di reiterate deflagrazioni della stessa villa, riprese da vari punti spaziali, dove saltano in aria, oltre che l’architettura stessa, capi d’abbigliamento, tv, frigo, mobili, elettrodomestici, ombrelloni, suppellettili, perfino oggetti della cultura, libri, giornali, librerie, inglobati anch’essi tra i beni del consumismo che induce all’accumulazione seriale. Il virtuosismo della scena ben si accorda, anche attraverso la stessa spettacolarizzazione, alla metafora dell’esplosione del sistema economico capitalistico e della sua corruzione.
Forse le deflagrazioni al ralenti sono accadute veramente o forse sono solo proiezioni della fantasia di Daria, la protagonista femminile del film, che, allontanatasi in auto dalla villa del suo capo, fantastica un’esplosione catartica, mentre guarda a debita distanza. Antonioni lascia intendere che “soltanto immaginarne l’esplosione, in un rogo che trascina in una fantastica danza cosmica tutti gli oggetti prodotti dalla civiltà industriale, la libera dall’incubo”. Poi Daria risale in macchina e si dirige verso la linea dell’orizzonte, dove il cielo del tramonto è carico degli stessi toni infuocati delle esplosioni reali o fantasticate. I Pink Floyd sono gli autori del brano musicale che accompagna la serie delle deflagrazioni, adatto a evocare la voglia di evasione e di cambiamento dei giovani a metà degli anni Sessanta, in dichiarato contrasto con ciò che hanno ereditato dalle generazioni precedenti e dai vecchi potenti del capitalismo.
Evoco questa suggestione – memore dell’influenza che ebbero alcuni film a colori di Antonioni (Il deserto rosso in primis, del 1964, e anche Blow-Up, del 1966) su autori che utilizzarono il medium fotografico negli anni Ottanta, specialmente su alcuni partecipanti al progetto Viaggio in Italia, tematiche e traduzioni formali che saranno centrali per la fotografia nei decenni a seguire per quanto riguarda le rappresentazioni di paesaggi urbani e periferici o significati inerenti alla cultura di massa – per introdurre l’intervista con Andrea Botto, un artista che ha utilizzato la metafora dell’esplosione nella sua indagine rispetto al paesaggio e alla storia della fotografia. L’intervista si collega anche alla imminente pubblicazione di Paesaggio dopo paesaggio, a cura di Matteo Balduzzi, Quaderno #13 del MuFoCo, edito da Silvana Editoriale, con fotografie di Andrea Botto, Claudio Gobbi, Stefano Graziani, Giovanni Hänninen, Sabrina Ragucci, Filippo Romano, frutto della recente acquisizione delle loro opere da parte del Museo di Cinisello Balsamo.
MZ: Ripartire dalla demolizione, abbattere per ricostruire. Proviamo ad approfondire questa possibilità (o questa necessità), applicando l’asserzione al rapporto tra fotografia e paesaggio, che ha avuto molta attenzione in Italia, dai decenni scorsi fino a ora. Da un lato abbiamo visto numerosi fotografi (discepoli ed epigoni) continuare i discorsi messi in campo dai maestri di Viaggio in Italia e dall’altro artisti delle nuove generazioni che hanno rivolto la loro ricerca verso altre questioni tangenti al paesaggio. Cosa si innesca nell’atto di distruggere ciò che si è (o è stato) costruito?
AB: C’è una frase pronunciata da Luigi Ghirri nel film di Gianni Celati Strada provinciale delle anime del 1991, che ho usato in esergo al mio libro KA-BOOM The Explosion of Landscape (Éditions Bessard, 2017) e che dice così: “Il paesaggio è per noi l’incrocio tra la natura e la cultura, quindi anche il luogo della distruzione.” Mi sono interrogato molto sul suo significato all’interno della poetica ghirriana, nella quale io stesso mi sono formato. Ho ripensato alle sue ultime fotografie, quelle che mi piace definire di carattere quasi ‘meteorologico’, in cui la neve e la nebbia cancellano il paesaggio, fino alla sua sparizione. Il paesaggio potrebbe quindi essere anche il luogo della distruzione dell’immagine? La mia biografia personale mi ha portato, fin dalla fine degli anni Novanta, ad interessarmi all’osservazione dei processi di trasformazione attraverso quella che si potrebbe definire ‘distruzione creativa’. Il termine nasce circa un secolo fa dalla teoria economica che le forze creative-distruttive scatenate dal capitalismo porterebbero inevitabilmente alla sua scomparsa come sistema o, più probabilmente, che il capitalismo avrebbe necessità di distruggere e rinnovare continuamente il sistema per continuare a controllarlo. Sempre all’interno di KA-BOOM c’è un testo molto interessante del curatore e antropologo Lars Willumeit, che traccia le storie parallele della dinamite e della fotografia. Entrambe figlie della Rivoluzione Industriale, sono state usate sia per distruggere sia per costruire buona parte del mondo che viviamo. Oggi, alcune questioni tornano prepotentemente di attualità, a cominciare dal nostro rapporto con il pianeta e l’urgenza indotta dalla crisi climatica globale. Cosa e come vogliamo distruggere, ma soprattutto, perché? A questo proposito, mi viene in mente il ‘carattere distruttivo’ descritto da Benjamin, che trovo ancora di grande ispirazione.
MZ: Una decina di anni fa, quando mi sono trovato di fronte alle tue opere a soggetto esplosivo, ho pensato che tu avessi voluto sottintendere anche una metafora nella metafora, ovvero che era giunto il momento – molto delicato e complesso, simile all’uccisione psicanalitica dei padri o all’andare oltre ciò che si è appreso dai maestri – di fare esplodere la tradizione della fotografia di paesaggio. Ho interpretato male o travisato il messaggio subliminale?
AB: La tua interpretazione è corretta, ma è qualcosa che è capitato e di cui ho preso coscienza nel tempo. Ho sempre cercato di rispondere in maniera critica al passato e alla tradizione fotografica da cui provengo, confrontandomi apertamente, senza timori reverenziali ed evitando la mitomania. Solo con questa premessa credo sia possibile comprendere come le mie esplosioni siano anche un atto sovversivo non tanto nei confronti del paesaggio, ma piuttosto verso un certo tipo di fotografia. L’artista americano Allan Sekula, riferendosi ai New Topographics, aveva parlato di una “neutron bomb school of photography”, che aveva ucciso le persone lasciando in piedi la speculazione immobiliare. Era una critica forte, ma che per certi versi avevano ripreso lo stesso Ghirri e poi Roberto Salbitani e Mario Cresci verso una deriva manierista già evidente all’inizio degli anni Novanta. Certo sembra quantomeno paradossale che, nonostante la sua iper-rappresentazione attraverso le fotografie, il paesaggio sia stato e continui ad essere consumato e deturpato. C’è da chiedersi quanto abbia inciso effettivamente quella ‘scuola’, al di là del creare un nuovo stereotipo estetico. Ecco, io metto la dinamite nelle fotografie di paesaggio per minarne letteralmente la tradizione alle fondamenta e per provare a dire altro. Nella mia pratica si intrecciano immagine della demolizione e demolizione dell’immagine. Se la demolizione materiale cancella la memoria visiva di un luogo, l’immagine è l’unica testimonianza che sopravvive e rappresenta qualcosa che non c’è più. Ma, ragionandoci, credo che questi termini possano funzionare anche in maniera inversa, nel surplus di immagini che produce cancellazione dei luoghi per eccesso di visibilità e nella demolizione di immagini e immaginari come forma di ecologia visiva. Quello che possiamo fare è provare a distruggere o quantomeno scardinare certi immaginari e sono convinto che abbiamo un solo modo per farlo: le immagini vanno combattute con altre immagini.
MZ: Dentro la tua ricerca, come hai fatto evolvere nel corso del tempo le esplosioni – intese come grandi dispersioni di energia, che aprono però alla inevitabile trasformazione della materia o del paesaggio – tra fotografia che documenta l’impermanenza di un fenomeno e immagini intese come forme di azione, dentro uno spaziotempo in cui aleggiano il pericolo, la percezione della fragilità e una processualità divenente?
AB: Quello che cerco nelle immagini di esplosioni è guardare quel momento prima che tutto cambi, lasciando aperte tutte le possibilità future. Una sorta di sguardo ‘in potenza’ per mostrare le cose per quello che potrebbero o avrebbero potuto essere. La catastrofe è qualcosa che ci riporta prepotentemente e violentemente alla realtà, il punto di collasso che fa cadere il velo dell’illusione, della messa in scena. Forse è per questo che di fronte ad essa ogni immagine pare sempre inadeguata. La catastrofe è per sua natura imprevista e di solito ci sorprende nel momento meno opportuno, facendo crollare all’istante ciò che avevamo costruito. Accade di solito in un momento preciso, che diventa lo spartiacque tra un prima e un dopo. Sembra un paradosso, ma per uscire dal trauma o dalla catastrofe che ci precipitano in un presente quasi immobile, c’è bisogno dell’immaginazione, di un pensare per immagini che è per forza di cose un pensiero coniugato ‘al futuro’ e una forma di azione. In quanto oggetto materiale, ogni immagine, dopo essere nata, creata o generata, inizia una vita propria, spesso indipendente anche dalla volontà del suo autore. Non sto parlando di animismo e rifuggo ogni deriva che possa anche solo accennare all’esistenza di un pensiero magico. Mi riferisco a quella che viene definita agency dell’immagine in quanto oggetto che esiste indipendentemente dalla percezione o dalla relazione con l’uomo e che ha a che fare, ad esempio, con il nuovo realismo o il realismo speculativo della OOO, l’ontologia orientata agli oggetti di Graham Harman. Per capire le immagini o, per dirla con Mitchell, per comprendere “che cosa vogliono” da noi, dovremmo cominciare a pensare che quello delle immagini è un ambiente, un sistema di relazioni da esplorare o in cui immergersi, e non solo un paesaggio da contemplare dall’esterno. E visto che sappiamo dalla fisica quantistica che la sola osservazione di un fenomeno lo modifica, allora possiamo considerare le immagini come vere e proprie forme di azione per attivare e innescare processi di conoscenza. D’altronde, non è forse vero che immaginazione dovrebbe significare mettere l’immagine-in-azione?
La mia ricerca sulle esplosioni intercetta e amplifica tutti questi ragionamenti, permettendomi di verificarli mettendoli continuamente in questione insieme alla mia pratica. Il pericolo, l’impermanenza, la fragilità di quello che vedo, ma anche delle immagini che prendo e uso, trova immediata aderenza con un metodo di lavoro. E non riesco proprio ad immaginare, scusa il gioco di parole, come potrebbe essere diversamente.
MZ: Oltre la registrazione di un pezzo di mondo, oltre la traduzione formale di un’idea, come ti sei posto in relazione alla realtà visibile e non visibile del paesaggio?
AB: Ho accennato prima all’importanza del rapporto che ho avuto con la geologia e la scienza, soprattutto nella capacità di osservazione di fenomeni non sempre visibili in tempi brevi. C’è poi il passaggio concettuale da paesaggio ad ambiente, che abbiamo tentato di esprimere insieme a Laura Cantarella e su cui stiamo continuando a lavorare. Paesaggio è qualcosa che esiste solo se c’è un occhio umano che lo guarda, una visione contemplativa e fortemente antropocentrica. Ambiente ha un’accezione decisamente ecocentrica, esprimendo un sistema complesso di relazioni che contempla una pluralità di ‘sguardi’, umani e non umani. L’urgenza dei fenomeni legati a quello che Bruno Latour ha chiamato “nuovo regime climatico”, rende assolutamente necessario riorientare le nostre pratiche in questa direzione, trovando approcci e metodologie nuovi. Quello a cui assistiamo oggi è un ‘tempo profondo’, con l’irruzione dei tempi geologici sui tempi storici, ma nessuna narrazione sembra contemplarlo o essere pronta ad accoglierlo al proprio interno. Si parla molto del dopo, quasi mai del durante. Tutta l’umanità si trova in mare aperto su una barca che sta colando a picco, ma non esiste una riva sicura da cui osservare il naufragio, né è possibile uno sguardo da fuori. Non siamo più spettatori, ma siamo diventati attori di ciò che stiamo vivendo. L’uomo è diventato agente geologico e iniziamo a renderci conto che la catastrofe è già avvenuta. Di fronte a questo, lo scrittore Amitav Gosh denuncia l’inadeguatezza della forma letteraria del romanzo, ma dobbiamo ammettere anche l’incapacità dell’arte a parlare del disastro, perché essenzialmente non rappresentabile. Ricordi quello che Karl Heinz Stockhausen aveva detto sul 9/11? Un evento che ha lasciato noi senza parole e l’arte senza immagini.
Più che impensabile, la catastrofe totale sembra essere irrappresentabile: al solo pensiero di un tale evento, il flusso immaginale pare arrestarsi, oppure riprodurre immagini e visioni già viste, spesso dozzinali e pacchiane, come fosse il peggiore dei b-movie. Purtroppo, come sostiene Raffaele Scolari nel suo libro Disastro e sopravvivenza (Mimesis, 2020), i disastri tecno-naturali sono il corrispettivo contemporaneo del paesaggio. Laddove in epoche passate si produceva paesaggio, oggi si producono catastrofi e funziona tutto allo stesso modo, compresa la dimensione sublime o l’effetto vojeuristico/contemplativo anestetizzante. Pensare il disastro, la catastrofe. Rimettere in moto l’immaginazione, mettere l’immagine-in-azione. Assumere una postura diversa all’interno della scena. Questo è ciò che tento di fare ogni giorno, spero con qualche risultato.
MZ: Nei progetti espositivi e nel libro KA-BOOM fai agire al contempo fiction e verità delle cose: sono presenti immagini prese da manuali di esplosivistica, materiali d’archivio originali, oggetti utilizzati per innescare esplosioni, presenze scultoree, documentazioni di performance messe in azione da te o trovate nella realtà. Quale visione stai costruendo attraverso le tue serie di opere, al di là della postmodernità e della sua iperrealtà, tra ciò che è vissuto direttamente e lo spostamento nella rappresentazione?
AB: I miei progetti, siano espositivi o editoriali, sono concepiti come dispositivi che tengono insieme materiali eterogenei, che normalmente non dovrebbero convivere. Questa architettura si configura come una pratica di montaggio che, costruendo un ambiente/contesto plausibile, permette letture su più livelli e accostamenti inattesi, mettendo continuamente in questione l’osservatore e chiedendogli una partecipazione attiva. Ho l’ambizione che chi guardi una mia immagine o un mio progetto senta la voglia di tornare a riguardarlo più volte, spinto non solo dal desiderio di comprenderlo sempre più a fondo, ma anche con la sorpresa di trovarvi o scoprirvi ogni volta cose sempre nuove e diverse, anche inaspettate. Inoltre, vorrei innescare anche un altro discorso che va al di là del soggetto rappresentato. Proprio come la catastrofe, la potenza del medium artistico si misura nella sua capacità di evidenziare gli elementi di virtualità del reale, incrinandone la dittatura. Alcuni sostengono che a fare la differenza non sarebbero tanto i contenuti o i materiali impiegati, ma il ‘contenuto di verità’ che la creatività riesce ad esprimere. A questo proposito, sono davvero colpito dal fatto che molte persone mi chiedano spesso se le mie fotografie di esplosioni siano costruite, messe in scena, o addirittura se sia io stesso ad organizzarle, anche se in effetti così non è. Mi fa riflettere sulle credenze e sulle aspettative che continuiamo ad avere nei confronti delle immagini, nonostante ogni persona le manipoli ogni giorno attraverso le più banali app dei propri smartphone (o forse proprio per questo). È come se, per abitudine, non si riuscisse più ad accettare una realtà fuori dall’illusione.
MZ: Cosa hai trovato o individuato nella realtà posta sull’orlo dello straordinario? Come ti poni rispetto al ‘performativo’ e ciò che è ‘spettacolare’?
AB: Cito ancora Scolari: “Se è vero che l’opera d’arte in genere riesce quanto più si spinge sull’orlo del proprio fallimento, allora le risposte dovrebbero essere cercate proprio spostandosi in prossimità di quell’orlo.” Le scienze delle immagini lavorano sul confine tra un sistema e l’altro, tra immagine e sfondo, tra fotografia e scienze sociali, tra arte e scienza. Tracciano una distinzione tra due cose che potrebbero essere confuse. È un lavoro sul limite e di frontiera. Per capire meglio, potremmo considerare il mondo della fotografia come un (piccolo) universo in espansione, in continuo movimento, le cui zone viaggiano a velocità diverse che aumentano man mano che ci si allontana dal centro. La gran parte dello spazio è occupato da strutture solide e ben definite, da diversi sistemi solari o galassie che in parte si intersecano, si contaminano, ma che spesso non riescono a comunicare, un po’ per interesse a mantenere ognuno la propria rendita di posizione, un po’ per la mancanza di un vocabolario comune. È inutile rivolgere l’interesse verso il centro, dove tutto sembra ormai immobile. Per vedere da vicino qualche movimento è necessario spostarsi ai confini dell’universo, ai margini o nelle periferie dove le cose stanno accadendo e dove si possono cercare relazioni con le avanguardie di altri universi appartenenti ad altri ambiti disciplinari. Là è dove chiunque sia interessato a riflettere sulla natura delle immagini dovrebbe stare, tra quei visionari e utopici esploratori di nuovi mondi, su quell’orizzonte degli eventi incerto e nebuloso, dove si usano le immagini per comprendere e combattere le immagini. Mi interessa la dimensione performativa di ciò che faccio e di ciò che ho davanti. Probabilmente sono mosso dall’impossibilità di catturare l'immagine di qualcosa che non può essere ritratto. E, da questo punto di vista, mi sto sempre più domandando se le mie fotografie di esplosioni non siano in parte la presa di coscienza di un fallimento o, perfino, una collezione ossessiva di momenti sbagliati, che nella loro imperfezione trovano unicità. Potrei dire che i miei sono sempre ‘paesaggi a tempo’, come prove tecniche di fine del mondo, ogni volta diverse. Come diceva Jean Tinguely, “non puoi aspettarti che il mondo finisca come vuoi che finisca".
In copertina, Andrea Botto, Viadotto Caffaro, sull’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria a Lauria (PZ), 2015, Courtesy l'artista.