Museo del Novecento, Milano / Anna Valeria Borsari: da qualche punto incerto
Con la mostra di Anna Valeria Borsari (fino al 13 febbraio 2021) il Museo del Novecento di Milano apre un nuovo capitolo del racconto e studio dedicato agli artisti italiani più significativi e pioneristici che hanno iniziato il loro percorso a partire dalla seconda metà del secolo scorso e che hanno spesso stimolato, con il loro esempio, autori più giovani. Curata da Giorgio Zanchetti e Iolanda Ratti con Giulia Kimberly Colombo, questa mostra, dal significativo titolo Da qualche punto incerto, più che una vera e propria antologica, è una sorta di sintesi ragionata capace di offrire un preciso spaccato del percorso artistico (iniziato a partire dalla fine degli anni Sessanta) di un’artista “anomala”, capace di declinare le sue molteplici riflessioni attraverso linguaggi a loro volta molteplici: dalla scultura alla fotografia, dalla pittura all’installazione, e pure attraverso facebook (ricordo il suo recente lavoro e libro: Anna Valeria Borsari, Anna Battistini è su Facebook, Postmedia, Milano, 2019).
“Anomala” anche perché ogni lavoro di questa autrice, sempre guidata da un bisogno di introspezione e fuga dalle regole, sfugge a ogni classificazione precisa: alcune sue opere si potrebbero definire vicine alla narrative art, altre alla body art, all’arte concettuale o a quella pubblica. Ma appunto rimangono “vicine” e mai del tutto aderenti a una definizione, a un movimento o a un altro. D’altra parte la stessa Borsari scrive: “In genere per produrre sia pur piccoli mutamenti all’interno di un sistema è necessario creare, in se stessi, e nel mondo che ci circonda, ‘caselle vuote’, effettuare dislocazioni rispetto a quelle che sono le normali regole del gioco, che altrimenti continua a ripetersi invariato” (in: Anna Battistini è su Facebook).
Faccio un esempio a partire da un suo lavoro del 1976, Testimonianze, composto da 6 immagini accompagnate da alcune frasi. Nella prima è scritto: “ho giocato con la palla. La palla”, e si vede una palla; nella seconda: “ho corso in giardino. Il giardino”, e l’immagine ci mostra un giardino chiuso da una fitta siepe simile a un muro verde (ma come poteva prendere slancio la sua corsa se avveniva dentro una sorta di recinto chiuso?); nella quarta immagine compare la scritta: “mi hanno fatto una fotografia. La fotografia”, ed ecco un suo ritratto di bimba perbene con abitino dalle maniche a sbuffo; quinta immagine: “mi hanno perso sulla spiaggia. La spiaggia”, e vediamo una spiaggia talmente bianca e deserta che si perdono i confini tra spiaggia, mare e orizzonte. Come avranno fatto a perderla in un simile vuoto? L’inquietudine s’infittisce osservando l’ultimo scatto: “ora sono qui. Qui”. Ma in questo “qui”, non c’è nessuno, non si vede nulla, anzi non c’è neppure un’immagine, solo la materia della carta fotografica lasciata intonsa.
In una simile opera, dunque, ci sono tutti gli elementi che rimanderebbero alla Narrative Art: troviamo infatti una sorta di narrazione e ci sono pure le scritte che l’accompagnano; solo che tali scritte funzionano come fin troppo precise didascalie-presentazioni, in apparenza lapalissiane. I due elementi (l’immagine e lo scritto) non si con-fondono per risvegliare l’immaginazione o far riaffiorare la memoria, presentano solo qualcosa, un qualcosa che, però, a volte non c’è. Lei è “qui” ma al suo posto c’è il vuoto, un’assenza radicale. Dunque questa sua opera è forse più avvicinabile all’Arte Concettuale? La rivelazione dell’idea artistica degli autori vicini all’arte concettuale non avveniva infatti – come nel lavoro di Borsari – attraverso la materia o la sensibilità autoriale; si attuava piuttosto tramite un lavoro di documentazione tra scrittura e fotografia che si sostituiva all’oggetto opera d’arte da contemplare ammirati. Ma se si confronta Testimonianze con le opere di Joseph Kosuth, Douglas Huebler o Vincenzo Agnetti (tanto per citare alcuni tra gli autori più significativi dell’Arte Concettuale) anche qui i conti tornano fino a un certo punto. Nelle opere degli artisti sopra citati infatti il soggetto attinente al progetto era infatti spesso indifferente o volutamente arbitrario: tanto per fare un esempio, Douglas Huebler in Duration Piece (1970) documenta con 61 fotografie scattate nel tempo una fontana qualsiasi di Torino; o in Location-piece (1969) porzioni di cielo tra New York e Los Angeles che poi espone senza un ordine cronologico o geografico.
Invece, nell’opera di Anna Valeria Borsari, così come in molte altre presenti in mostra, l’intreccio “fotografia-scrittura” si rivela come un intreccio “memorie-autoritratto” dove l’autrice parte da sé, dalle proprie ferite originarie e profonde. Il suo è un partire da sé che però non si trasforma nell’espressione di una ritrovata e semplicistica identità femminile, ma in un reticente autoritratto capace di resistere a un’interpretazione univoca e di porsi come un’interrogazione. Lontano dall’esprimere solo una riflessione tutta interna alla specificità mediale, il lavoro di Borsari innesca una dialettica che annoda se stessa e l’ambiente, le tracce della memoria e quelle della vita.
Non a caso un suo video presente in mostra, Autoritratto in una stanza (1977), è stato anche ri-esposto (nel 2013) nella mostra collettiva Autoritratti. Iscrizioni del femminile nell’arte contemporanea (MAMBO, Museo d’Arte Moderna di Bologna). In questa sua opera Borsari segna con una matita le tracce del suo corpo sulle pareti della Galleria del Cavallino, lo riproduce con della terra umida, per poi uscire dalla stanza e riprendere immagini e suoni di Venezia e della sua laguna. Così, la tensione a sottrarsi come presenza autoriale si coniuga con il bisogno di “misurarsi” fisicamente con una matita e poi in modo talmente materico da divenire una sorta di calco di terra. Il tutto senza rinunciare a un’apertura verso l’esterno, alla casualità di ciò che può accadere in un luogo come Venezia.
Il suo lavoro, senza prendere una posizione schierata in termini femministi, di fatto mette in discussione il pensiero puro, il dover essere, il dover pensare in direzioni precise, per aprirsi a un fare che, a partire da un sentire intimo, scioglie i vincoli che chiudono il soggetto in se stesso, liberandolo verso gli incontri e gli accadimenti che ci si fanno incontro quando si naviga a vista nella vita. Lei stessa scrive nel 1967: “Anziché imbrigliare le cose nelle reti dei nostri ragionamenti possiamo accettarle per quello che sono fuori di noi? (…) Non voglio costruire oggetti che siano esclusivamente pensati, che diano incondizionatamente ragione alla nostra logica. (…) Voglio al contrario opere ove io stessa e il caso siamo in buona armonia, in accordo felice.” (in: Anna Battistini è su facebook).
Al posto di rimanere aggrappata alla propria chiusa individualità, Borsari intende il mettersi in gioco nel mondo come un fatto felice a cui dare ospitalità. Il suo lavoro non si regge su un oblio dell’esserci, ma su una sparizione dell’autore che “scomparendo” si dona suscitando emozioni, liberando o sollecitando narrazioni e ricordi. Emblematico di tale impostazione, basata più sulla relazione che sulla presenza autoriale, è il lavoro Foto di Carla B. (1978), in cui l’autrice risponde alle insistenti telefonate di una sconosciuta interlocutrice, paziente del marito psicanalista, protesa a comunicarle il suo malessere, e la invita ad uscire di casa e a inviarle qualche fotografia scattata da lei. “Così la percezione del ‘fuori’ di un’altra persona entrava poi nello spazio di una mia opera”, racconta. Ma questo “fuori” si presenta anche come qualcosa di intimo che permette a ciascuno di riconoscervi un’eco del proprio vissuto. E l’operazione compiuta dall’autrice ha anche il sapore di un invito, rivolto a Carla B., a uscire dal suo dolore per raccontarci una storia, per offrirle la possibilità di narrarsi in un altro modo aperto verso l’esterno.
Un’apertura verso il mondo, gli altri e le cose, che la stessa Borsari radicalizza proprio a partire dalla fine dagli anni Settanta. In un clima artistico dove dominava il ritorno alla pittura e la corsa a entrare nel sistema dell’arte attraverso il supporto delle gallerie, lei decide con coraggio di porsi al di fuori di quanto veniva usualmente riconosciuto come ambito artistico e di agire invece negli spazi pubblici. La sua è una scelta al contempo etica e artistica, capace di mettere radicalmente in discussione il rapporto arte-spettatore: il suo obbiettivo è infatti quello di arrivare agli spettatori attraverso canali non noti, dove l’opera possa presentarsi inaspettata e non inserita in uno spazio che induca a contemplarla o a definirla anticipatamente come un’opera d’arte.
Con Donna, isola e ponte, del 1982, Borsari dà la forma di un corpo femminile a un isolotto sul fiume Reno, nei pressi di Bologna. Tale opera non solo non era “firmata”, ma poteva essere vista solo fugacemente, quasi con la coda dell’occhio, esclusivamente da chi attraversava il ponte sul Reno a bordo di un treno. Simile a una strana presenza che, grazie alla velocità del treno pareva muoversi nell’acqua del fiume, tale opera era una sorta di immagine fuggitiva, un’anomalia un po’ magica come un’anamorfosi capace di far scattare inattesi interrogativi. Solo l’immagine fotografica l’ha fissata nel tempo, perché lo scorrere del tempo reale l’ha progressivamente cancellata fino a farla sparire in seguito all’ingrossarsi del fiume. In questo lavoro si intrecciano due tematiche centrali nel suo lavoro: l’accettazione della deperibilità dell’opera fino alla sua scomparsa e una autorialità talmente sottratta da far chiedere all’osservatore non solo chi abbia realizzato tale opera, ma anche se si tratta di un’opera oppure di un evento un po’ “magico” (domanda che mi sono fatta davvero in prima persona).
Anni fa (per l’esattezza nel 1999), mentre camminavo lungo Corso Garibaldi a Milano, vidi per caso che un edificio abbattuto aveva lasciato, sulla palazzina adiacente, tracce dei piani e delle tappezzerie di chi aveva abitato lì. In genere tali segni di abbattimenti e distruzioni del passato mi comunicavano solo un senso di tristezza e di perdita. Ma lì c’era qualcosa di inaspettato che sembrava ridonare famigliarità, vita e memoria a quella casa ormai distrutta: sulla parete di un piano campeggiavano, in due belle cornici ovali dorate, i ritratti dipinti di un uomo e di una donna che si guardavano. La visione di tali ritratti era così intensa che cercai di osservarli più da vicino perché riuscivano a creare una sorta intimità, di cortocircuito tra passato e presente, pubblico e privato. Mi chiesi se erano rimasti lì per un caso assurdo o fortunato, o chi mai avesse avuto l’idea di fare questo gesto-opera al contempo folle e poetico, minimo e forte. Una domanda che si fece – con gran gioia dell’autrice “misteriosa” – anche il “Corriere della Sera” in un ampio articolo dedicato a questa opera dall’autore ignoto, ovvero Spaccato urbano (in mostra c’è la fotografia, fatta dall’autrice, che testimonia questo intervento pubblico ormai non più visibile) che aveva suscitato curiosità e interesse. La dimensione dell’anonimato praticata da Borsari, non ha infatti il tono un po’ luttuoso della morte o della scomparsa dell’autore, ma quella gioiosa di chi gioca a nascondino con il pubblico nella speranza di essere scoperta, segno evidente che la sua opera ha creato un incontro e si è messa in dialogo con gli spettatori attivando una diversa qualità di attenzione.
Sempre pensate per un luogo specifico sono poi le serie di Madonne di monete e cereali, create a partire dal 1977 in varie piazze italiane (a Bologna in piazza Maggiore nel 1977; a Firenze in piazza della Signoria nel 1978; e in piazza Duomo, a Milano, nel 1979). In questo caso l’autrice fa un’operazione site-specific opposta rispetto all’abituale pratica degli artisti di strada: se il madonnaro crea la sua opera per ricevere in cambio delle monete, qui è l’artista stessa che crea con monete e chicchi di grano la sua Madonna sorridente e generosa, il tutto evitando di presentarsi come un’artista contemporanea che sta facendo una performance. Lei è “solo” una madonnara un po’ strana, che invece di chiedere soldi li offre. Come i monaci tibetani creano con cura estrema meravigliosi e geometrici mandala di sabbie colorate per poi distruggerli loro stessi, in un gesto che indica la loro accettazione dell’impermanenza delle cose, così Anna Valeria Borsari realizza con pazienza e precisione le sue Madonne accettando consapevolmente il loro essere effimere. Ma la sua sembra anche una sorta di eucarestia laica e coinvolgente: conclusa l’opera, infatti, saranno i passanti a impossessarsi felicemente delle monetine e i piccioni a nutrirsi con i semi. Ultimato l’intervento (sempre documentato fotograficamente) la sua Madonna sparisce, perché si è data metaforicamente e realmente come una offerta nei confronti di tutti gli esseri viventi.
Sempre a proposito di doni, un altro lavoro spiazzante e al contempo capace di attivare un dialogo coinvolgente con il pubblico, è l’opera Lotteria, allestita nel 2000 alla galleria Neon di Bologna: ovvero una vera e propria lotteria dove in palio l’autrice propone oggetti più o meno preziosi che hanno fatto parte del suo vissuto e della sua storia. Nel catalogo che accompagna la mostra Giorgio Zanchetti scrive che quest’opera “assume un valore propositivo e quasi catartico di ricucitura interiore, ma rappresenta anche l’ultima liturgia di un annullamento di sé nella comunione con gli altri”. Un annullamento che però è anche un generoso rilancio di frammenti di memorie i quali proseguiranno la loro vita presso nuove persone narrando altre storie. Chissà se in palio ci saranno anche state la palla e la bambola un po’ malconcia del suo lavoro Testimonianze? La sfida – vinta – di questi lavori è quello di riattivare un dialogo diverso con il pubblico, non più condizionato dal trovarsi di fronte a qualcosa che si definisce come un’opera d’arte. Fuori dalle logiche del marketing e del mercato dell’arte lei lascia libero il pubblico di partecipare o non partecipare alle sue opere, di “sentirle” oppure di ignorarle. Il tutto mettendosi in gioco in modo profondo, ma discreto, sospeso tra un sottrarsi come autrice e un donarsi come persona. Un mettersi in gioco che emerge anche nel suo ultimo lavoro esposto e concepito appositamente per questa mostra: Da remoto. Da remoto, ovvero da casa, lei scrive le sue considerazioni sulla posizione dell’artista nel mondo contemporaneo; considerazioni che appaiono sullo schermo di un computer in tempo reale. L’inizio è significativo: «La posizione dell’artista, il suo ruolo nella società, il suo punto di vista rispetto al mondo, sono molto cambiati rispetto alla seconda metà del secolo scorso, quando ho cominciato a lavorare. Se oggi avessi vent’anni non vorrei fare l’artista, ma il fisico, il chimico forse, per capire cosa c’è dietro all’apparenza delle cose…». Per fortuna, lei aveva invece vent’anni negli anni Sessanta e da allora ci ha potuto donare, fino a quest’ultima mostra, decine di opere mai ripetitive, capaci di far pensare, ma anche di coinvolgere lo spettatore.
Anna Valeria Borsari. Da qualche punto incerto.
Museo del Novecento, piazza Duomo 8, Milano
Fino al 13 febbraio
Catalogo Silvana Editoriale