Speciale
Arà / ‘Ra
Arà, chi minchia facisti?!
La fermezza è una pratica antica, e mi fa schifo ci sia ancora chi desideri vederla, toccarla o annusarla; da stupirsi! Quanto è meglio strafottere ogni cosa.
‘Ra, popolo, stiamo uniti, o restiamo umani! Il conformismo della scelta e il conseguente svuotamento della massa intesa come individuo, per esempio.
Ero e sono tra me e me. Dopo essere tornato dal mare, cercavo la minima concentrazione, la giusta che mi permettesse di scrivere questa voce. E l’ho sentita giungere da lontano, improvvisa e stupita nell’affermare: sei qui? Lei a me. Un’interiezione che, calandosi dal titolo, scende a terra e mi stampa un bell’arà!
Mi sveglio e inizio col dire che mai vorrei arà uscisse dalle mie labbra. La sua impazienza, lo stupore trascinante, il fastidio. Eppure esce, si fa quattro passi e più, di tanto in tanto.
Arà è un’ingiunzione, un monito a fare bene per non fare male ciò che si è abituati a non fare.
Insomma, se io sono fermo, qualcuno potrebbe dirmi : “Arà, muoviti!”. Ma, fra le conclusioni che invita a tirare questa interiezione e l’azione del verbo c’è una favilla, un fuoco che testimonia la scomparsa della retorica siciliana (quant’anche sofistica) a vantaggio del disappunto becero, della distruzione fatale.
[Lascito del greco, ἄρα/ῥά , credo. Significato originario: “e, allora, dunque, appunto ”. Usato nella Sicilia sud-orientale. L’evoluzione è stata illustrata prima. Dunque, l’involuzione è con me e in me, parrebbe.]
Angelo Rendo