Letizia Battaglia, Sabrina Pisu / Letizia Battaglia, una vita al grandangolo
Letizia Battaglia, di cui è appena uscita una biografia scritta a quattro mani con Sabrina Pisu, Mi prendo il mondo ovunque sia. Una vita da fotografa tra impegno civile e bellezza (Einaudi, 266 p., 19 euro), ha sempre fotografato con il grandangolo. Secondo i manuali, i grandangolari sono obiettivi da paesaggio, offrono infatti una visione più ampia di quella dell’occhio umano che invece, per convenzione più che per calcolo, viene assimilata al 50mm È quello il “normale”, l’obiettivo per far tutto, quello che non distorce e che quindi va mediamente sempre bene, preservando il realismo della visione naturale. Cartier-Bresson, si sa, fotografava quasi sempre con il 50. Ma Letizia Battaglia no, lei andava in giro con il 35mm se non addirittura con il 28. Il problema è che questa grande fotografa palermitana per molti anni ha fatto la reporter e, credo, non si sia mai molto interessata ai paesaggi. Quello che l’ha sempre affascinata, invece, sono le persone, la loro vita, il loro modo di essere e di agire e – suo malgrado, ma necessariamente visto il periodo in cui ha lavorato a Palermo – la loro morte.
Ora, quando fai la reporter ciò che devi fare è mostrare qualcosa che è accaduto, offrirne una testimonianza visiva, e siccome la fotografia non è un filmato che registra l’azione, per potere significare quel fatto sei costretta a cercare quello che sempre Cartier-Bresson chiamava un attimo fecondo. Una frazione di secondo che goda di una sorta di capacità di espansione che consenta a chi la guarda nella sua immutabile fissità di cogliere il senso di un evento ampio, articolato e complesso. A volte davvero molto ampio, molto articolato e terribilmente complesso come i fatti di mafia. Il punto è che a compiere il miracolo, a trasformare un istante in un discorso, e dunque in una storia, sono le persone. I loro corpi – il modo che hanno di appoggiarsi da morte come anche quello di tenere un pallone da vive –, l’espressione del viso, le mani e naturalmente lo sguardo. Quest’ultimo soprattutto. Sono gli sguardi a dare profondità alla piattezza delle immagini, tempo alla loro fissità, complessità al loro meccanico riportare ogni cosa ci fosse in quel momento davanti all’obiettivo. Ed eccoci al punto: se si vuole cogliere tutto questo con un grandangolo bisogna avvicinarsi. Camminare, scavalcare, scartare per poi magari ritornare sui propri passi, oltrepassare transenne, altri fotografi, poliziotti, curiosi ma anche sangue e insulti e minacce. Perché quando si arriva alla distanza giusta per il grandangolo, lo si è anche per molte altre cose. Per le mani, che possono raggiungerti, ma anche per l’odore, per i suoni più flebili come il respiro, e ovviamente per tutti quei dettagli che, a una distanza neutra e rispettosa, non si possono cogliere. Per mostrare un volto con un grandangolo bisogna entrare in quel cerchio che la prossemica chiama la “distanza personale” se non addirittura la “distanza intima”, ovvero quelle a cui siamo abituati a tenere amici e fidanzati. Distanze a cui non ci si può nemmeno avvicinare senza essere notati, e quindi senza subire una qualche reazione da parte della persona.
Io credo che il senso della fotografia di Letizia Battaglia, il rapporto fra arte e vita di quella che è una delle più importanti fotografe del mondo, stia tutto nella preferenza per questo obiettivo. Una scelta dolorosa, che non risparmia nulla al fotografo, che lo costringe a vedere tutto, a subire tutto, a incontrare le persone che vengono fotografate, a parlarci, a ragionarci e a litigarci, esplorando spazi e relazioni per trovare quell’unico punto di vista che consente di produrre un’immagine che non includa né troppo né poco, che non ammetta intrusi e non escluda nulla, un’immagine insomma che non sia riduttiva. Fotografare con il grandangolo significa non semplificare. Ecco, se si pensa a questo si capisce come un’autobiografia di una fotografa possa diventare un libro di fotografia.
Avviso agli appassionati di fotografia: attenzione, in questo libro non si parla di trucchi, non si danno informazioni su obiettivi e attrezzature, non c’è nessun segreto su come affrontare un controluce o realizzare un mosso creativo. Letizia Battaglia è una vera esperta, e l’esperto, si sa, è colui che sa quel che c’è da sapere dopo aver dimenticato tutto quello che ha imparato. Quello che si legge a proposito di alcuni dei suoi scatti più importanti, è come sia arrivata nel luogo di un omicidio, cosa abbia fatto, quale fosse il suo stato d’animo, in che modo quel fatto si inserisse in una cornice storica più ampia. D’altronde, come è noto, Letizia Battaglia, non ha fatto solo la fotografa, ha fatto anche l’assessore, il deputato regionale, si è occupata di teatro, di cultura, ha fatto volontariato insomma ha partecipato attivamente a un periodo storico fra i più densi della storia di Palermo, della Sicilia e, piaccia o no, dell’Italia intera.
Apparentemente non si parla troppo di fotografia ma in realtà non è vero, perché a ben pensare è il modo stesso di raccontare che è fotografico. Lavora per immagini, e finisce per riflettere la concezione che questa artista ha di questo mezzo espressivo almeno quanto lo fanno le sue mostre. Sono istantanee quelle che leggiamo, momenti di vita che appaiono come gli scatti di un otturatore, così, all’improvviso, fissando visioni in cui ci sono parti a fuoco e altre che non lo sono ma che proprio per questo assumono profondità. I suoi racconti, proprio come le sue fotografie, non sono fatti per essere colti in un solo respiro, non comunicano quello che hanno da dire subito, chiedono invece al lettore di esplorarli con calma, di osservarli con cura, di metterli nel giusto contesto per cogliere quei dettagli che lei stessa, quando li ha scelti come da un foglio di provini, ha amato. O forse odiato, ritenendoli comunque importanti, perché attraverso di essi si restituiva spessore a ciò che altrimenti non lo avrebbe avuto. E sono sempre i dettagli, quando invece parla delle sue fotografie, a venire fuori. Si capisce così che il suo pensiero di fotografa lavora in questo modo, cogliendo subito, d’istinto, un centro d’attenzione per poi danzargli intorno fino a quando uno scatto non abbia messo quel dettaglio in condizione di produrre il senso che merita. Un consiglio: mentre leggete provate a tenere aperto anche uno dei suoi tanti libri fotografici e a sfogliarlo, il nesso fra le due cose dovrebbe essere chiaro.
Specie se avete la fortuna di trovare gli scatti di cui racconta. Inutile dire che il fatto di mettere in scena un doppio punto di vista sulla stessa vita – il suo e quello della coautrice, Sabrina Pisu – funziona come due fotografie dello stesso evento: ci mostra quanto il punto di vista sia importante e quanto la cosiddetta realtà cambi al suo variare. Non un’autobiografia né una biografia ma un’auto-biografia. O forse un’(auto)biografia.
Quando Roland Barthes scrisse La camera chiara, spiegando cosa fosse la fotografia e quanto poco fosse semplice e immediata, contribuendo così in maniera decisiva a darle lo statuto che oggi tutti le riconosciamo (gli storici parlano di un processo di “devolgarizzazione”), disse con chiarezza di cosa non avrebbe parlato, ovvero della fotografia secondo il fotografo. Egli non era un fotografo diceva, neanche dilettante, e non sarebbe stato capace di rendere conto di quella prospettiva. Ecco, io credo che le pagine di Letizia Battaglia colmino questa lacuna. Non in senso tecnico o estetico, come ho detto, ma alla Barthes, personale, mostrando come la fotografia possa diventare un modo d’essere oltre che un’attività. Letizia Battaglia è una fotografa, non fa la fotografa, ma soprattutto, lo è diventata, non lo è sempre stata. Il racconto della sua vita è il racconto di come guardare attraverso una macchina fotografica possa cambiare profondamente la vita di una persona. Ecco, se si vede così, questa autobiografia diventa un libro di fotografia.
Manca qualcosa però a questo libro. Manca una Letizia. Quella dei corsi di fotografia che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, delle spedizioni fotografiche non legate al dovere di cronaca, del piacere di andare a vedere cosa stava succedendo in posti in cui (apparentemente) non succedeva proprio niente, delle esplorazioni in quelle zone di Palermo in cui nessun palermitano andava mai. Ovviamente sempre con il grandangolo. Era in questi casi che si capiva cosa aveva di speciale questa fotografa. Non il modo di scattare, ma qualcosa che veniva prima e dopo. Come dicevo, se volete fare un ritratto a qualcuno con un 28mm ci dovete parlare. E non, banalmente, chiedere il permesso, ma fare in modo che quel permesso arrivi (e che non arrivi altro), insieme a un certo piacere di stare davanti all’obiettivo E c’è un solo modo perché questo succeda, soprattutto quando avete a che fare con gente che gli obiettivi ha imparato a guardarli con feroce sospetto: farli sentire amati e rispettati. Prima dello scatto vengono le parole, e potete star certi che se non sono quelle giuste non ci sarà nessuno scatto.
Il mondo non è pieno di fotografie che devono essere colte come fiori, come piace credere ai fedelissimi della spontaneità. Magari modulando un obiettivo zoom per assicurarsi di cogliere solo i petali e non anche una foglia un po’ appassita (non è il passaggio dall’analogico al digitale ad aver cambiato il modo di fotografare, ma quello dalle ottiche fisse allo zoom). È l’esatto contrario: non c’è nessuna fotografia se non è il fotografo a crearla. Far mettere in posa qualcuno non significa produrre immagini meno vere, semmai il contrario: creare le condizioni a partire dalle quali la vita diventa fotografabile. Ecco allora un’idea per il prossimo libro: raccontare questa storia. Magari mostrando i provini dei rullini da cui le fotografie sono tratte, in modo che risulti evidente tanto il modo in cui esse sono state costruite quanto il processo di comparazione che ha portato alla loro selezione. In questo modo, forse, risulterebbe evidente non solo il lavoro che fa il fotografo ma anche quello che può fare chi guarda le immagini. Una competenza di cui, in un’era dominata dalle immagini, c’è un grande bisogno. Anche per dar senso a una fotografia in cui a fare da sfondo c’è una Lamborghini.