Atmosfere e psicopatologia
Non ritirare le anime dallo spazio. È l’esortazione della contemporaneità. Ovunque risuona questo monito all’espatrio della sensibilità, ad abbandonare la postazione retratta di una soggettività chiusa in se stessa per guadagnare un ambiente, un paesaggio, uno spazio sentito, un’atmosfera. È stata l’estetica ad accorgersi, tra la fine del secolo scorso e i primissimi anni 2000, che la nozione di atmosfera è in grado di dire meglio, e con maggiore presa intuitiva, quel che è in gioco nella dimensione originaria dell’esperienza in cui il soggetto si trova nella condizione di cominciare altrove, dove non è e dove non sarà. Spazi sentiti, sentimenti effusi spazialmente, affetti quasi-oggettivi, semi-cose sono le espressioni che abbiamo imparato a utilizzare per tradurre in un linguaggio nuovo quell’aurora della conoscenza a cui, nel Settecento, il secolo che vede il battesimo dell’estetica, Baumgarten si riferiva parlando di “rappresentazioni chiare e confuse”. Rappresentazioni che, affidandosi alla sensibilità e alla prima impressione, hanno la vividezza di un quadro d’insieme, ma non ancora la precisione analitica del dettaglio. Atmosfere, appunto.
Siamo stati abituati da una lunga tradizione di pensiero a considerare il sentire come una proprietà del soggetto; cosa c’è in effetti, almeno così è parso per molto tempo, di più aderente alla soggettività degli affetti, del pathos, del sentire? Eppure, prestando attenzione alle parole che utilizziamo per descrivere l’orizzonte della sensibilità, ci accorgiamo che il sentire si carica subito di mondanità. Parliamo ad esempio di sfera affettiva, di paesaggio del sentire, di spazio emozionale. Sono scelte lessicali che spostano il nostro sguardo verso l’ambientazione del pathos e così facendo cominciano a circoscrivere l’area semantica dell’atmosfera. L’atmosfera si presenta come i frottage di Max Erst, in cui una sottile pellicola strofinata è in grado di far emergere le increspature della superficie sottostante. Si modella sulle strutture percettive, arriva a sagomarsi sui dati materiali, esercita ed affida la sua plasticità alle forme del mondo.
Che atmosfera primaverile c’è in questo appartamento! Che senso di depressione mi procura passeggiare per queste strade! Che senso di gravità, pesantezza plumbea, angoscia provo quando parlo con quella persona! O viceversa che leggerezza e gaiezza emanano da quelle parole! Gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito, come si può immaginare. Resta la curiosità di capire la natura di queste espressioni e quale area dell’esperienza coinvolgano. Fanno tutte riferimento a un sentire diffuso, che bussa alla nostra porta anziché essere la manifestazione di un pregresso stato affettivo, un sentire cioè che non incontriamo dentro di noi, ma nello spazio intorno, e che pure registriamo potentemente sul corpo vissuto, poiché ha a che fare col modo in cui ci sentiamo nell’ambiente in cui ci troviamo.
Atmosfera (da atmos=vapore, esalazione, e sphaîra= globo, sfera) indica un ambito evanescente, imprendibile che, pure, ha una sua personalità, un suo carattere inemendabile, sebbene allo stato nascente. La nozione di atmosfera, che per molti versi è radicata nella tradizione perché connessa a categorie molto frequentate soprattutto dalla riflessione estetica, come quelle di grazia, Stimmung, aura, fisionomia, ambiance, ha dalla sua parte il vantaggio di una focalizzazione concettuale insolita e insieme quello di spostare l’accento, di deviare il centro dell’attenzione.
Grazie ai lavori della Neue Ästhetik, penso soprattutto alle ricerche neofenomenologiche di Gernot Böhme introdotte in Italia con grande dedizione e rigore filosofico da Tonino Griffero, la nozione di atmosfera ha trovato un terreno fecondo di applicazione proprio nel campo dell’estetica. Un recente lavoro collettivo, dal titolo Psicopatologia e atmosfere. Prima del soggetto e del mondo (a cura di G. Francesetti e T. Griffero, Giovanni Fioriti Editore, 2022), prova con grande efficacia a utilizzare il concetto di atmosfera per avvicinare il campo della psicopatologia. Siamo nel contesto della psicopatologia fenomenologica che, sulla scia dei lavori fondativi di Jaspers e Tellenbach, torna a cimentarsi, dopo anni di silenzio, con un termine così polivoco come quello di “atmosfera”.
Qualcosa preme nell’aria. L’attesa – pochi secondi probabilmente – prima che Anna cominci a parlare si carica di una pressione inattesa, come se fossimo di colpo precipitati in un liquido denso, un oceano di metri cubi preme su di noi, lo sento sul mio petto in particolare. La vista non è chiara, non provo a muovermi ma so che se ci provassi i movimenti sarebbero rallentati dalla vischiosità del mezzo. Non ha forma e non voglio starci un attimo di più.
Quello che abbiamo letto è un breve estratto di una sorta di vignetta clinica, riportata da Gianni Francesetti nel suo bel contributo.
Una domanda domina su tutte? Provo a riassumerla un po’ provocatoriamente raccogliendo una suggestione di Griffero: è ancora una psiche quella così caratterizzata? Se lo psichico si colora di caratteri ambientali, contestuali, relazionali, allora forse è proprio giunto il momento di mettere tra parentesi o, meglio, di decostruire, tutte quelle abitudini di pensiero, dure a morire, che lo legavano al segreto di un foro intimo, a quella mitica interiorità che aleggia ancora non appena si nominano le discipline psi. La filosofia ha cominciato da un po’ di tempo e a vari livelli a prendere confidenza con questo espatrio del sentire, fino a raggiungere i territori del postumano, ma è come se lo strattone prodotto da questo esilio, certamente perturbante, generasse un bisogno di compensazione, di esorcismo e si cercasse un medicamento nei luoghi in cui la psiche intima e famigliare sembrerebbe abitare. Mi capita sovente a lezione di nominare la psicoanalisi e di ricevere in cambio una sfilza di parole che denunciano questo fraintendimento: viaggio nell’intimità, affondo nei luoghi riposti della nostra soggettività, ricerca del vero sé. Si è venuta a creare quindi una profonda spaccatura tra il discorso comune, quello, intendo, non specialistico, arroccato nel soggetto, e il discorso della psicopatologia, della psicoanalisi e della filosofia sempre più estroversi.
Ciò che colpisce immediatamente nel breve estratto clinico sopra riportato è l’autorevolezza o, direi meglio, la sovranità di quel sentore di gravità, pesantezza, vischiosità. Una sovranità che, a dispetto del contenuto idiosincratico, si carica di bellezza. La sua bellezza consiste nel provenire da un altrove, nell’abitare uno spazio non direttamente innervato né dal terapeuta né dal paziente, nell’affacciarsi come un oggetto bizzarro, alieno, sacro, impadroneggiabile, inemendabile. Lo studio si popola di presenze affettive, quasi-cose, dicevamo, che sono estranee e perturbanti sia per il paziente sia per l’analista. C’è un terzo che aleggia, è il caso di dir così t. rattandosi di atmosfere, e che diventa il vero protagonista. Qualcosa bussa alla porta e chiede di essere sentito, riconosciuto, condiviso e lo fa a partire da una sua irriducibile sovranità.
Forse è a questo che si riferisce la psicoanalisi, quando parla di fatto clinico. Ed è un fatto che si presenta sempre, qualsiasi ne sia il contenuto, con il carattere della bellezza, come un “frutto che si guarda senza tendere la mano”, come diceva Simone Weil per definire la grazia. Propriamente bello è ciò con cui non possiamo fare l’amore (qui è Derrida a parlare), ciò che resta a distanza da noi, non consumabile, e che pure orienta la scena. Ho sempre avvertito – non trovando grande riscontro, per la verità – la profonda assonanza tra l’esperienza analitica e quella estetica. La bellezza è a suo agio in questi due luoghi, abitati da qualcosa che, pur riguardandoci, sembra far a meno di noi.
I saggi raccolti in questo volume ci spingono a ripensare radicalmente l’empatia, un concetto caro alla psicopatologia di stampo fenomenologico. Condividere un’atmosfera è per certi versi un processo empatico, eppure non ha nulla a che vedere con l’assimilazione, la familiarizzazione. Empatizzare qui significa incontrare l’altro, proprio nel punto in cui è impossibile intercettarlo. Questo è il paradosso che ha evidenziato Blanchot occupandosi di Jaspers. L’empatia perde il suo carattere fusionale, analogico, e si apre a una esperienza irriducibile nel nome dell’interruzione del rapporto. L’empatia si realizza nell’istante in cui arriva a toccare l’assolutamente altro, non dove sente il medesimo. A questa esperienza sono soggetti sia il paziente sia lo psicoanalista: la cupezza, la gravità, la vischiosità entrano imperiosamente nella scena analitica. È da qui che occorre partire, sebbene non ci si possa fermare qui. Si tratterà infatti di guadagnare una certa distanza da questo vissuto, imparare a maneggiarlo, a farne tesoro nel corso della terapia, a riproporlo al momento giusto. Ma il punto di partenza è sempre questa attonita meraviglia nei confronti di uno spazio sensibile tonalizzato e indipendente dall’intenzionalità soggettiva. Uno spazio sensibile esperito, non proiettivo.
Una psicopatologia che si lascia guidare dall’atmosferico assume così una precisa fisionomia. Secondo tale paradigma, il terapeuta non è nella posizione di esperto che agisce direttamente sul funzionamento del paziente per aiutarlo a stare meglio (paradigma medico o monopersonale), non è nemmeno il paradigma della co-creazione, secondo il quale terapeuta e paziente operano insieme per produrre un cambiamento. Qui abbiamo a che fare, piuttosto, come riassume bene Francesetti, col paradigma di campo, secondo il quale “il terapeuta è a disposizione delle forze trasformative in gioco, che trascendono sia lui che il paziente”. Esattamente come accade di fronte al sogno, il cui statuto ontologico “può illuminarci sulla costituzione della realtà e sulla costituzione del delirio, nel senso che non solo il sogno, ma neppure la realtà e il delirio sono esclusivamente frutto dell’attività della coscienza riflessiva” (Di Petta, Tittarelli). Di fronte a queste formazioni, terapeuta e paziente si trovano come due bambini di fronte alla vetrina di un negozio in un paese straniero, dove l’insegna non ci dice nulla di cosa il negozio venda. Una mano impersonale, esecutrice di un “man”, di un “si”, ha disposto quegli oggetti secondo una combinatoria capace di agire atmosfericamente su chi osserva.
Siamo partiti dall’estetica, perché il primo orizzonte di applicazione del concetto di atmosfera è stato proprio quello della filosofia dell’arte e dell’esperienza sensibile, per tornarvi dopo aver seguito sinteticamente il viaggio nel territorio della psicopatologia. Cosa significa questo? Si tratterebbe di estetizzare la clinica? Sì e no. Tutto dipende da cosa si intende per esperienza estetica. Certo è che una psicopatologia atmosferica acutizza la capacità di avvertire l’estraneità, di lasciarsene sorprendere e, a dispetto di tante corse al manuale diagnostico o al reperimento di strutture prefabbricate, ci pare il miglior modo di assecondare, sentire e guidare l’eterogenesi del vivente.