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Scarabocchi / Graffiti a Roma: da Pompei alla Metro B

9 Aprile 2022

Da dove viene la parola graffiti?

Il dizionario Treccani la pone come derivato del verbo ‘graffiare.’ Storicamente è associata alle incisioni come quelle conservate sui muri di Pompei. Dunque, prima che comparissero le famose scritte anni ’80 sulla metropolitana di New York, i graffiti erano già apparsi in altre forme in Italia, molti secoli prima.

Al giorno d’oggi, la parola graffiti richiama le opere a bomboletta spray, figlie del movimento americano. Ma chiunque abbia visitato New York negli ultimi anni può constatare che di scritte, sulla metropolitana, non ne è rimasta traccia. 

A Roma, invece? Roma di graffiti sulla metro ne ha ancora. Vi dirò di più: è una delle uniche città al mondo in cui i graffiti ancora circolano, schizzando dinamici di stazione in stazione come quando il fenomeno era ai suoi albori.

Direte: ma allora c’è un movimento anche in Italia. Ebbene sì. Andiamolo a scoprire.

 

Le origini dei graffiti a Roma

 

Quando spuntarono i primi nomi a vernice sugli esterni delle subway newyorkesi, la parola ‘hip hop’ echeggiava vuota per le strade di Roma. La città era troppo occupata a riprendersi dal trauma degli Anni di Piombo. Il graffitaro romano Kiv TNT la ricorda buia e sporca, con rade macchine che pattugliavano circospette i suoi viali notturni. Pochi pedoni avventurosi camminavano a testa bassa tra barriere antisfondamento e posti di blocco – figurarsi se gli veniva in mente di scrivere il nome su un muro. Ma correva per le strade un soffio di speranza: sarebbe iniziata una nuova stagione, e rispetto a quella passata, non poteva che essere migliore. 

 

La prima volta che i graffiti fecero la loro comparsa oltreoceano fu proprio nella Capitale. Claudio Bruni, proprietario della Galleria La Medusa, aveva apprezzato i disegni sulla metropolitana in un viaggio a New York. Bruni – primo al mondo a considerare questa forma di espressività degna di una galleria d’arte – invitò due artisti newyorkesi a esporre i propri lavori a Roma. Era l’anno 1979.

Qualche anno dopo, un giovane americano di nome Keith Haring visitò la Città Eterna come tappa di un tour dell’Italia. Dipinse una nuvola dei suoi caratteri eponimi sul muro laterale del Palazzo delle Esposizioni, e una sulle barriere antirumore di Ponte Nenni, dove la Metro A attraversa il Tevere. La street art in quel periodo non era nota ai più, men che meno era valorizzata: non c’è da stupirsi dunque se, nel 1992, i graffiti di Haring furono rimossi in preparazione di una visita dell’allora presidente russo, padre della glasnost, Mikhail Gorbachov. Come sappiamo, Haring sarebbe presto divenuto uno dei padri celebri della street art. Troppo poco, si vede, per meritarsi uno spazio sui muri di Roma.

 

 

Gli anni ’80 avanzavano e i graffiti si andavano diffondendo attraverso l’Europa. Nacquero i primi collettivi hip hop e breakdance nella Capitale, ispirati da film come Flash Dance (1983) e Beat Street (1984). Qualcuno, studiando le foto nelle fanzine di skateboard, cominciò a notare degli sprazzi di colore sui muri. Altri studiarono a fondo le prime riviste autoprodotte di graffiti importate da Londra e Amsterdam. Ogni frammento era buono per capire ciò che a loro appariva tanto esotico quanto ignoto.

Alcuni di questi gruppi – o meglio, crew, come avevano cominciato a chiamarsi – si cimentarono a produrre i primi ‘pezzi’ sugli argini del Tevere. La parola è una traduzione letterale dell’inglese ‘piece’ – a sua volta un’abbreviazione di ‘masterpiece’ – e indica un graffito completo ed elaborato. Anche a livello linguistico, perciò, gli artisti romani traducevano i graffiti originali. Ma cos’è la traduzione, se non contaminazione creativa? Loro non ci pensavano, l’orologio correva troppo. Già mancava spazio sui muri del Lungotevere, trasformatosi in un terreno di esercitazione per pittori autoproclamati.

Il 19 settembre del 1992, Cromo, Giaime, Crash Kid, Spike, Soho, Damage, e Debone furono i primi italiani a pitturare una carrozza della ferrovia Roma-Lido. La prima metropolitana ad essere dipinta in Italia. 

 

Presto apparvero crew in ogni quartiere della città. I muri si colmarono di lettere grassocce, gocciolanti, tremolanti, vive – ma l’ambizione più alta era vedere il proprio nome circolare di stazione in stazione. Ogni pezzo sulla metro era il tassello più alto di una competizione; il gergo era lo stile. Giungevano nel mentre le prime copie del libro fotografico Spray Can Art di Henry Chalfant, e i graffitari romani prendevano le lettere americane e le modificavano, le storpiavano, creavano un linguaggio nuovo. Un linguaggio loro. 

 

 

Sorge spontanea la domanda. E cosa ne pensavano le autorità, i media, di questo nuovo fenomeno esploso dal nulla? 

Lo Stato all’inizio non seppe proprio come comportarsi. La copertura giornalistica da principio non fu ostile; in un articolo uscito su La Repubblica nel 1992, i writer sono descritti non come vandali, ma come giovani che esprimono la loro rabbia attraverso l’arte. Con gli Anni di Piombo alle spalle, qualche adolescente che pitturava un muro sembrava essere l’ultimo dei problemi. Purtroppo, o per fortuna, questa attitudine non sarebbe durata. 

 

La Golden Era

 

Giunsero così gli anni ‘95 e ’96, spesso tramandati come l’Età dell’Oro dei graffiti nella Capitale. Dozzine di writers piovvero su Roma da paesi come Germania, Francia, Inghilterra – e perfino dagli Stati Uniti. Gli esterni della metro romana divennero fulcro di una battaglia di stili, dove ogni writer portava il suo approccio distintivo. I tedeschi favorivano lettere precise dipinte con bombolette di alta qualità come le Belton, gli inglesi prediligevano lettere grosse e impattanti in argento. I writer si influenzavano a vicenda. Proprio in quel periodo furono prodotti alcuni dei pezzi più artistici che circolarono poi negli anni. Da Colosseo a Piazza di Spagna, da Circo Massimo a Ottaviano, bastava scendere le scalette della metro per imbattersi in una giungla di lettere e nomi nelle più variegate esplosioni di colore.

Ma nonostante la loro spontanea inventiva, i graffitari stavano comunicando principalmente fra di loro. Il mondo dei graffiti era a circuito chiuso, le lettere intricate oscure ai non-iniziati. L’impenetrabilità era calcolata. Occupare la superficie della metro con disegni non decifrabili andava inteso in chiave politica; era una rivincita dalla parte dei ragazzi marginalizzati. L’obiettivo era non essere capiti. L’obiettivo era spingere il pubblico al margine.

 

Lo Stato contrattacca 

 

Gli anni ‘90 erano agli sgoccioli e il fenomeno graffiti era fuori controllo. La metro arrancava carica di strati su strati di vernice, interni ed esterni ricoperti, porte e finestre, senza soluzione di continuità. La crew più presente era la TRV, i cui membri rigettavano ogni canone stilistico per i loro pezzi: la traccia di contorno definita, i riflessi bianchi, la linea esterna chiamata ‘overline’. Il loro stile era grezzo; prediligevano bombolette dei ferramenta, il cui tratto impreciso ambiva a conferire espressività. Roma è una città dove la storia schiaccia i suoi abitanti da secoli, dove il passato è onnipresente al punto da renderlo irrilevante. Era forse proprio questo che la TRV crew voleva esprimere: un rigetto della storia dei graffiti.

 


Se da principio l’istinto di ribellione aveva strappato il sorriso a qualche pendolare, ora la stragrande maggioranza vedeva i graffiti come un marchio di illegalità fine a sé stesso. Le scritte comunicavano un senso di sporcizia e trasandatezza pari ai cassonetti strabordanti, ai lampioni difettosi, alle fogne otturate e tutto ciò che spesso associa la Capitale alla parola degrado. Ma soprattutto, davano l’impressione che la situazione fosse sfuggita di mano allo Stato.

Le autorità iniziarono a combattere i graffiti. Recinti più alti con tanto di filo spinato furono eretti intorno ai depositi della metro; guardie giurate iniziarono a pattugliarne i perimetri. Fu lanciata una campagna che stereotipava i graffitari come criminali aggressivi. Chi imbratta Roma ha Roma contro, si leggeva sui manifesti, accanto a foto di uno scarabocchio illeggibile su un busto romano. L’obiettivo? Concentrare l’opinione pubblica interamente contro i writer. Una tattica che riuscì non bene, benissimo.

 

Nell’anno 2000, Roma avrebbe ospitato il Grande Giubileo. Migliaia di fedeli avrebbero invaso le sue strade, e l’immagine che voleva trasmettere il Comune era di pulizia, di ordine. Che ruolo avevano in tutto ciò i graffiti? Il solito: inceppare gli ingranaggi, mettere i bastoni tra le ruote. 

Quell’anno, la città sponsorizzò ciò che negli anni prese il nome di ‘Grande Pulizia.’ Ogni singolo vagone della metro fu ripulito da cima a fondo. Neanche a dirlo, quando il Giubileo ebbe inizio, le metro di Roma erano immacolate. 

Con il nuovo secolo molti writer smisero di dipingere, o spostarono il loro interesse verso muri legali, spazi dove i graffiti sono permessi dalle autorità locali. Questi muri divennero fonte di controversie; i graffitari puristi sostenevano che, dipingendo legalmente, un aspetto primario della subcultura andasse perduto. I graffiti sono nati per strada e sui treni, dicevano. Se ricollocati su pareti autorizzate, come in gallerie d’arte, viene diluita la loro vitalità.

 

The King of Blue 

 

Un gruppo circoscritto di writer romani ha perpetuato la tradizione dei graffiti sulla metropolitana fino ai giorni nostri. Tra questi un nome di spicco è senz’altro Poison, che debuttò negli ultimi anni ’90 e ha proseguito a tracciare pezzi sulla Metro B di Roma fino a tempi recenti. Sono più di 700 i lavori che ha accumulato sulla superficie della metro, procurandosi una nomea anche a livello internazionale. Non dobbiamo stupirci dunque se si faccia chiamare ‘King of Blue’ – letteralmente, Re della Blu, un altro nome per la Linea B della metro.

 

Poison – il nome di battesimo è ignoto – nacque in un paese 30 chilometri a sud di Roma. I suoi primi pezzi furono su muri della sua zona, su qualche autobus regionale dell’azienda Co.tral. In un’intervista, racconta come fu spinto verso la città quando suo padre gli tolse il motorino in seguito a un litigio. Rimase isolato nel paesino dove era cresciuto. L’unica soluzione era raggiungere la periferia di Roma, dove la linea di trasporti cittadina gli avrebbe consentito di muoversi più facilmente. Ma giunto nei pressi della Capitale, Poison fu colto da un’attrazione misteriosa per uno di questi mezzi: la metropolitana. E fu lì che iniziò il crescendo inarrestabile fino alla corona dei graffitari romani.

Cosa spinse Poison a mettere tanto impegno nei graffiti, al punto di farla diventare una vera e propria ossessione? Chissà, magari ciò che mancava nella campagna fuori Raccordo era uno scopo, un biglietto per scappare dall’emarginazione. Le lettere che dipingeva – quelle sì che erano vive, una parte di lui che respirava di stazione in stazione, non solo in periferia ma anche sotto a Piazza del Popolo, sotto il Colosseo. 

 

Per anni, Poison dedicò quasi ogni giorno alla sua metro. Ma ciò che lo differenzia dagli altri graffitari sulla scena non è semplice dedizione, o il numero di pezzi dipinti. Vi ricordate l’impulso originale dei graffiti, di occupare spazio visuale con scritte tatticamente indecifrabili? Poison fu il primo in Italia a distanziarsene. Usava invece il tempo limitato a sua disposizione tra turni di guardia per tracciare lettere semplici e pulite. Non copriva le finestre per non dare fastidio ai pendolari, costretti a viaggiare in carrozze buie come caverne. Fu poi il primo nella storia italiana dei graffiti a voler comunicare a tutti, anche al grande pubblico. 

 

Nel 2002 apparse un wholecar – pezzo che ricopre l’intera superficie di un vagone – raffigurante la skyline di New York al tramonto. Spiccano al centro le Torri Gemelle, rase al suolo l’anno precedente. Per la prima volta, i graffiti venivano impiegati per esprimere solidarietà; in questo caso verso le vittime dell’attentato. Ma la simbologia del lavoro non si esaurisce qui. Da un’attenta analisi traspare che Poison stesse sfidando il concetto stesso di monumento. Le Torri Gemelle erano infatti un simbolo non solo della cultura americana, ma del trionfo del liberalismo su scala mondiale. Eppure si erano dimostrate effimere, proprio come i graffiti.

 

 

Un altro wholecar di Poison raffigura il testo ‘Blue Brothers’, con ai lati del vagone i due personaggi iconici del gruppo blues. Il graffito è un gioco di parole, ancora una volta riferito alla Linea Blu della metro. Affiancato al wholecar precedente, tradisce una fissazione per la cultura pop americana. Inoltre, chiunque abbia visto The Blues Brothers (1980) non può che farsi scappare un sorriso alla comparsa dei due malandrini Joliet e Elwood. È dunque facile pensare che Poison volesse legarsi a loro – a dei criminali, sì, ma giocherelloni, amati dal pubblico – con la sua identità di graffitaro. 

 

 

Il più famoso wholecar di Poison è però senza dubbio ‘Caput Mundi’. L’espressione in latino è scritta a caratteri cubitali gialli ai lati del vagone, mentre al centro è raffigurato un soldato romano con tanto di elmetto e cresta. Il soldato ha un’espressione di rabbia a denti stretti, e alza una mano col pollice in giù. Nato nell’antica Roma, il gesto è associato al pubblico che determina le sorti di un gladiatore. Il significato originale è fonte di dibattito tra gli storici, ma il dipinto Pollice Verso (1872) di Jean-Léon Gérôme ha diffuso la sua interpretazione come segno di morte.

Cosa voleva esprimere dunque, Poison, mettendo un gladiatore al centro, che indica col pollice in giù con le parole ‘Caput Mundi’ al margine?

 

Riflettiamo sul significato dell’espressione caput mundi. Si riferisce a un’ossessione comune, durante l’Impero Romano, di essere al centro del mondo. L’Impero Romano, a sua volta, è associato alla storia monumentale di Roma, al suo passato ufficiale e glorioso. Immaginiamo per un attimo che Poison si voglia identificare con il soldato raffigurato; è possibile che, da graffitaro marginalizzato, abbia voluto rappresentare la cultura dominante di Roma Caput Mundi, e fargli il pollice in giù? Può darsi che abbia voluto mettere in secondo piano la storia dominante, dando spazio a sé stesso?

 

 

Poco importa, perché Poison e le sue aspirazioni monumentali non erano destinate a durare. Tempo due settimane, la sua opera già transitava sfregiata da una sequenza di scarabocchi. 

Erano state proprio le guardie giurate del deposito di Magliana a ricoprirgli il pezzo. Dopo anni di inseguimenti per i depositi, di caccia tra gatto e topo, avevano antagonizzato il criminale Poison a un livello quasi personale. Ma per sferzare il colpo finale, si erano abbassate alla stessa lingua del loro avversario, riaffermando così un concetto base dei graffiti: la loro effimerità. Avevano schiacciato le sue ambizioni di monumentalità; l’avevano riportato con i piedi a terra.  

 

 

Roma: Capitale della Street Art?

 

Non c’era però tempo di rimpiangere l’opera defunta di Poison, perché già si stava aprendo una nuova stagione per l’arte underground romana. Presto le strade si sarebbero riempite di una nuova esplosione di colore. Di cosa sto parlando? Ma si – della street art! 

Nata da un’evoluzione in chiave figurativa dei graffiti, e con la capacità di essere ‘capita’ da un pubblico più vasto, questa forma d’arte è diventata onnipresente negli ultimi anni. Quartieri come Ostiense e Tiburtina si stanno trasformando in veri e propri fulcri per l’arte di strada. Su Google appaiono offerte per ‘Street Art Tours’ di Roma. Svariate riviste internazionali dedicano spazio ad artisti italiani. 

Anche se, molta di quella che vediamo oggi, proprio street art non è. La street art degli albori, nonostante fosse figurativa, salvaguardava le tattiche del movimento graffitaro. Dato che l’occupazione dello spazio visivo pubblico non aveva più la potenza di una volta (era visto come inquinamento visivo, niente più), la street art proponeva di esprimere il messaggio politico dei graffiti in maniera più esplicita e inclusiva. Ma era pur sempre un veicolo per comunicare dissenso, uno stato di marginalità.

 

Quello che spesso vediamo oggi sono invece progetti favoriti dalle autorità locali per abbellire la città. Sarebbe dunque il caso parlare di arte urbana, non di street art. E anche qui, le controversie abbondano. Infatti proprio l’arte urbana di recente è associata a progetti ‘dall’alto’ che ambiscono a riqualificare quartieri percepiti come degradati, facilitando la gentrificazione, che a sua volta favorisce un aumento del prezzo delle case, spesso costringendo cittadini più svantaggiati a dislocarsi. L’abbiamo visto tutti: strade che da falegnami e ferramenta si popolano di birrerie artigianali, negozietti vintage e spesso, arte urbana. Ma possibile che proprio i graffiti, con il loro cuore vibrante di protesta, di espressione dell’emarginato, si siano trasformati in qualcosa che schiaccia le comunità emarginate? 

Un urban artist romano che contrasta questa tendenza è senz’altro Diavù, con il suo progetto PopStairs. Su scale in varie zone di Roma sono dipinti volti di attrici in qualche modo legate alla zona. Ingrid Berman, che recitò in Europa 51 (1952), è dipinta in via Famignano. Michèle Mercier di Il Giovedì (1963) è dipinta in via Ronciglione. Elena Sofia Ricci, che recitò in In nome del popolo sovrano (1990), è dipinta sulle scale Ugo Bassi. Infine, Anna Magnani è rappresentata in Campo de' Fiori (1943) e Mamma Roma (1962), entrambe in via Andrea Doria.

 

Sono dipinti che puntano a esprimere l’identità dei luoghi. Non vanno visti come anonimi interventi dall’alto. La superficie dove si inseriscono non è sottratta ad altri artisti più marginalizzati – sfido chiunque a pitturare delle scale – e assicura la fugacità delle opere. Infatti, a forza di camminare sui gradini, l’arte si sbiadisce, alla stessa maniera di un graffito. Il messaggio che comunica è di una città non statica e austera, ma in perpetuo flusso, in cambiamento. Una città popolata da tante voci che cambiano nel tempo, che si affermano e sbiadiscono – non imposte sullo spazio visivo a discapito di altri. 

L’opera è anche un ‘monumento alla femminilità,’ come ha affermato lo stesso Diaviù. Vagando per Roma, si nota la scarsità dei monumenti con donne come protagoniste. Le PopStairs sono un primo passo per riequilibrare il milieu monumentale della città. Ed ecco, ancora una volta, sfruttato il potere comunicativo dell’arte in strada per portare la marginalità al centro, proprio come un wholecar di Poison.

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