Calderón di Pasolini secondo Fabio Condemi

18 Novembre 2022

Parte da quelle “bandiere che penzolano come stracci”, bandiere rosse di lotta, il Calderón di Pier Paolo Pasolini. È la fine del primo discorso dello speaker che apre l’opera; interverrà a spiegare, a riflettere, con punte di ironia e sarcasmo, altre due volte tra i sedici episodi, distribuiti in tre luoghi e in tre ambienti sociali diversi. Quegli “stracci” sono le bandiere repubblicane della Guerra civile spagnola, ma anche quelle della Resistenza italiana, dimenticate da chi – sempre lo speaker – guarda solo a quello che è adesso e a quello che sarà e dimentica il passato. Sembriamo noi oggi, quegli smemorati; noi che, rispetto a quegli anni sessanta di fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, in più abbiamo cancellato anche l’idea di avvenire precipitando verso la catastrofe ecologica; noi che ci esauriamo nel presente, se non nell’attimo, assoluto.

Calderón mostra, immediatamente, un primo sostrato: è un rifacimento di La vita è sogno di Calderón de la Barca, testo barocco che narra il travisamento della realtà operata da un sovrano che vuole tenere il figlio lontano dalla possibilità di scalzarlo dal potere, costringendolo prigioniero in una torre. A un certo punto lo libererà per metterlo alla prova, poi, dopo il fallimento crudele del suo governo, lo farà richiudere nuovamente, facendogli credere di aver sognato. Il rifacimento pasoliniano, ambientato nella Spagna governata dal caudillo Francisco Franco, uscito vincitore dalla Guerra civile, mette in scena una società fascista e borghese, fascista in quanto borghese, interessata solo al particulare, incurante delle tragedie del mondo.

Fotografa quel 1967-1968 in tre ambienti differenti: in una famiglia aristocratica, tra le prostitute di una baraccopoli, intorno a una grande tavola, vero centro dei rituali di una famiglia piccolo-borghese. Lo spettacolo di Fabio Condemi, prodotto da Emilia Romagna Teatro (Ert) che ha debuttato il 2 novembre, giorno anniversario dell’assassinio di Pasolini, li giustappone spazialmente, in successione, bene mettendo in evidenza i differenti strumenti espressivi cui Pasolini ricorre: il sogno, il teatro politico, l’incesto che spesso è violazione di tabù politici o sociali, il conflitto tra realtà e visione onirica, con risvegli che negano violentemente le sensazioni di benessere accumulate durate i ‘viaggi’ notturni.

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Rosaura, la protagonista, apre gli occhi su un mondo che non riconosce, ancora rapita da un mondo sognato che le apre orizzonti che la vita normale non sa darle: e poi, a poco a poco, deve confrontarsi con una brutalità fatta di assennati consigli, di rimozioni, di imposizioni, di rivelazioni sconvolgenti che mettono il freno, scoperchiando traumi ereditati dal passato, ai voli del desiderio erotico.

È anche una storia di amori impossibili, se intendiamo per amore libertà dell’anima, in quel lager che è la famiglia dell’Europa in epoca di boom economico e di neocapitalismo tecnologico, metafora di altri lager, di imbalsamazioni come il quadro di Velasquez che viene più volte citato, Las Meninas, un esibirsi sotto lo sguardo vigile dei reali che spiano occultati e rivelati da uno specchio improvvisamente illuminato.

Condemi la cristallizza in scena, quella famiglia, immobilizzata in un tableau vivant contenuto in una quadrettatura di fili neri, da cui i personaggi cercano di evadere come mosche catturate da una ragnatela.

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Nel primo episodio, nella famiglia aristocratica, Rosaura dialoga con la damigella Stella, ma Condemi ce la mostra anche dormiente, nel lettuccio con abat-jour e comodino d’antan, mentre voci esterne in lontananza ci confermano di trovarci in un paesaggio psichico. “Io voglio tornare dove ero”, afferma la ragazza, dichiarandosi estranea alla ricchezza, all’ambiente di agi e privilegi in cui vive, mentre un ritratto di Francisco Franco occhieggia da un angolo della stanza. Una stanza in stile minimale modern, molto tech anni sessanta, con leggere strutture che inquadreranno gli interni ‘alti’, mentre il bordello della seconda parte sarà una specie di rozza gabbia fatta di poveri legni e reti di letti.

I tre ambienti – ideati da Condemi, 32 anni, premio Ubu 2021 per la migliore regia, formatosi al Centro teatrale Santacristina sulla scia di Luca Ronconi, realizzati, insieme alla drammaturgia dell’immagine, da Fabio Cherstich – invadono parti diverse della scena, esplorando quella caverna oscura che diventa il palcoscenico, metafora della psiche. A volte lo spazio viene riquadrato e chiuso o rivelato da mobili sipari neri, che come diaframmi di obiettivi fotografici dilatano o restringono l’inquadratura, facendoci concentrare su dettagli o consentendoci di spaziare nel quadro.

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Tre sono le Rosaure, una per ogni parte, in successione Matilde Bernardi, Carolina Ellero, Giulia Salvarani. Tutte giovani. E qui bisogna sospendere il racconto per parlare dell’operazione fatta da Ert. Lo spettacolo è il primo del progetto “Come devi immaginarmi”, dedicato a Pasolini. L’idea è che lo scrittore, regista, poeta, sia noto più per le vicende biografiche e per le sue prese di posizione, invero via via semplificate negli anni, piuttosto che conosciuto a fondo per le opere. E comunque il suo nome, rispetto a molti altri finiti nel dimenticatoio, accende qualche luce anche nelle generazioni più recenti. Allora il direttore di Ert, il regista Valter Malosti, ha pensato di far riallestire a registi e registe per lo più giovani una delle parti meno praticate del corpus pasoliniano, i sette testi teatrali scritti di furia, durante una malattia, tra 1966 e 1967, e poi rimeditati negli anni successivi. 

Calderón nasce in collaborazione col Lac di Lugano e con molti partner del progetto europeo Prospero. Le prossime tappe, di qui alla fine della stagione, vedranno Giorgina Pi affrontare Pilade, il parigino Stanislas Nordey, tra i maggiori registi e pedagoghi europei e direttore del Teatro nazionale di Strasburgo, rileggere Bestia da stile all’interno del Corso di alta formazione di Ert, Federica Rosellini e Gabriele Portoghese condurre una loro personale ricerca su Orgia, che prosegue idealmente il lavoro presso il Centro teatrale Santacristina dell’estate 2021. Porcile vedrà l’incontro artistico tra Michela Lucenti e il suo Balletto Civile con Nanni Garella e i suoi preziosi attori pazienti psichiatrici di Arte e Salute. Chiuderà il programma Affabulazione di Marco Lorenzi, convocando gli archetipi della famiglia di oggi attorno alle ombre delle vicende di Edipo re

Il teatro di Pasolini, ritenuto ostico, molte volte cerebrale e ideologico, con quella scelta di puntare tutto sulla parola, sulla parola che interroga la polis e le sue contraddizioni, è molto radicato negli anni in cui fu concepito. L’operazione evidentemente invita giovani artisti a esplorare se, con queste premesse, quelle sette tragedie, non esenti da spunti o addirittura ispirazioni anche umoristiche, possano parlare alle generazioni venute dopo, che non hanno vissuto le convulsioni di fine Novecento.

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Le tre giovani Rosaure, con qualche differenza nella caratura recitativa, mi sembrano comunque incarnare in diversi gradi l’idea di gioventù meravigliosa, vitale, ingenua, smarrita, abusata, traviata che si ritrova in Pasolini. Loro, con Nico Guerzoni che interpreta il giovane Pablo, sensibile omosessuale adolescente, costretto dagli amici ad andare dalla prostituta Rosaura, e poi il giovane rivoluzionario Enrique, ci catturano anche con gli sbalzi recitativi, in un viaggio nell’idea di giovinezza esposta a mille rischi.

Intorno le donne e gli uomini di potere. Diversi, per motivi diversi statici e enigmatici, sono i più anziani: Donna Lupe, una Valentina Banci simile a sfinge, custodisce un segreto inconfessabile (primo episodio); Sigismondo (un dolente, volutamente dimesso Emanuele Valenti), di cui la prima Rosaura si innamora, scopriamo esserne il padre che da giovane rivoluzionario si unì a donna Lupe nel periodo pieno di speranze della Repubblica, poi sconfitto, derelitto, costretto all’esilio mentre lei si accasava con un potente; Basilio, il ‘re’ nell’originale di Calderón de la Barca, che cambia la realtà imprigionando e dando l’illusione di libertà, sperimentando cinicamente sulla pelle dei più giovani, è quello che detiene, gestisce il potere.

La rabbia contro i vincitori, contro i corruttori, emerge in molti momenti, ma soprattutto nel monologo finale della Rosaura dislessica dell’ultima parte, con le parole in subbuglio a indicare un mondo fuori sesto. All’arrivo di Enrique, il giovane rivoluzionario che piomba nella casa borghese chiedendo di essere accolto e salvato dalla polizia, cade di nuovo in un sogno e nel sogno vede il lager nazista (metafora di altri lager) e l’arrivo di bandiere rosse, di cori di operai che liberano i prigionieri, in un racconto di rara emozione. 

Vibrano corde sessantottine, anche retoriche se volete, a seguire uno sconsolato brano in cui Pasolini per bocca di Basilio ribadisce che i giovani rivoluzionari sondano i limiti stessi del potere borghese, per poi ritornare nei ranghi familiari, come nella controversa poesia Il Pci ai giovani, che solidarizzava coi poliziotti figli di proletari dopo gli scontri di Valle Giulia a Roma nel 1968.

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C’è aria di Brecht, qui, nell’ironico speaker, un falsamente dimesso ma insinuante, perfetto Marco Cavalcoli; di Brecht riletto dal Barthes della rivista “Théâtre Populaire”, che scoprì nello straniamento la forza di evidenziare i segni e, connettendoli e frantumandoli, di farli significare in modo imprevisto. C’è Platone e c’è Freud. C’è la maschera che copre la persona, da rivelare e nascondere. C’è Ronconi, nell’intelligente allestimento di Condemi, con la precisa spazializzazione ma non con la recitazione, che nel giovane regista è fluente, a volte appassionata: il maestro, cui Condemi si ispira, aveva nel famoso allestimento del 1978 per il Laboratorio di Prato rallentato le voci, rese piatte le dizioni, per evidenziare, ancora una volta per straniare. C’è Velasquez, naturalmente, e un discorso sugli specchi del potere. C’è il dimesso Sigismondo, icona del sogno di cambiamento risoltosi in sconfitta. 

Si sentono sul fondo Le ceneri di Gramsci, la vita e la Storia, e Petrolio, allora in fase di scrittura, con Leucos (Caterina Meschini) e Melainos (Omar Mandè), servitori di Basilio, nunzi, angeli e diavoli, due parti di un unico essere. E l’infinito romanzo spunta in altri passaggi. C’è il monologo finale di Basilio, Michele Di Mauro, una perfetta, possente, imperturbabile e inquietante incarnazione dello spirito della borghesia. Mentre la tela nera lo nasconde piano alla vista, si ascolta solo la sua voce profonda, carica di risonanze, che smonta ancora una volta la visione liberatrice dell’ultima Rosaura ripetendo: è un sogno, attenta a non confonderlo con la realtà. C’è molta politica e molto realismo, in questo testo, in conflitto stridente col desiderio e col mondo onirico.

Pasolini, con questo portarci in un sogno dentro un sogno dentro un sogno, scuote le fondamenta del realismo e della realtà stessa, rimanendo insieme profondamente realista e politico, aprendo porte psichiche in modo devastante e rivelatore. E Condemi, con quei rifiuti di credere nella realtà come scintille che si aprono con dolore e felicità nel buio della caverna-palco, ci fa capire che questo poeta dal passo antico può incantare, far ragionare, appassionare ancora oggi, ed essere compagno nei nostri smarrimenti. 

Peccato che questo Calderón, con le Rosaure che interpretano anche altri personaggi e con il contributo di Elena Rivoltini come donna Astrea, sia stato rappresentato solo per cinque recite, applauditissime. È la follia della corsa alla produzione cui sono costretti i nostri teatri dalla legislazione. Speriamo di rivederlo in scena presto, a lungo.

Repliche il 22 e il 23 novembre al Lac di Lugano

Le fotografie sono di Luca Del Pia.

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