Cento lettere d’amore: come dirti addio
Il libro di Cristina Marconi, Come dirti addio (Neri Pozza Bloom, 2022) raccoglie cento lettere d’amore scritte in epoche diverse, da Saffo a Leonard Cohen, intorno al tema del distacco e dell’addio. La sua originalità (idea fondante del libro) è che le lettere citate sono sia lettere di finzione che lettere reali: ognuna di esse è introdotta da una premessa esplicativa. Letteratura e vita, qui, non sono né lontane né opposte ma al contrario rappresentano, nella loro totalità, il nucleo generante del libro. Leggendo le diverse pagine si ha la precisa impressione che ogni addio formulato, romanzesco o reale, sia sempre reale: la plausibilità dell’emozione, anche la più dolorosa, si svela nel magico potere della parola, capace di restituire piena verità ai sentimenti assoluti.
La parola “addio” deriva dalla locuzione “A Dio” e sottintende “dopo di me ti raccomando a Dio”: è, dunque, un congedo definitivo, e presuppone o una morte o una conclusione. Il tema dell’Abschied (“addio” in tedesco) pervade le sinfonie mahleriane e i lieder schubertiani come una musica finale: si apre, nell’anima, una ferita che nessuna realtà potrebbe colmare se non attraverso quella musica.
Scorrendo le pagine del libro incontriamo, come in un caleidoscopio, biglietti, lettere, appelli, dichiarazioni, che comprovano il distacco, lo esorcizzano, lo razionalizzano. Grazie alla scrittura, l’addio descritto dai personaggi di un romanzo persuade come l’addio testimoniato da lettere vere di artisti, attori, scienziati, scrittori: anzi, la capacità di immaginazione anticipa e spesso accresce lo strazio della realtà futura. L’ultima lettera di Virginia Woolf, scritta giovedì 18 marzo 1941, svela al marito Leonard il suicidio imminente:
«Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. e sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe potuto essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici finché non è arrivata questa terribile malattia. Non riesco più a combatterla, so che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco neanche a scrivere come si deve. Non riesco a leggere… Sei stato del tutto paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – lo sanno tutti. Se qualcuno avrebbe potuto salvarmi saresti stato tu...».
Se il “romanzo” della vita di Virginia passa anche attraverso la sua fine volontaria, ben diverso è il discorso che riguarda l’ironico e noncurante Stendhal. Il 14 giugno 1824 Stendhal scrive così a Clémentine Curial: «Non puoi immaginarti le idee cupe che il tuo silenzio mi dà. Pensavo che ieri notte, facendo le valigie avresti trovato il tempo di scrivermi tre righe da far buttare nella cassetta delle lettere da L… Non avendo visto niente ieri, speravo questa mattina... Fantasticando alla mia scrivania, con gli scuri chiusi, il mio cupo dolore si è divertito a scrivere la seguente lettera che forse tu mi scriverai fra poco; perché cosa ti sarebbe costato scrivermi un messaggio, in fondo? Ecco quindi la lettera che avrò il dolore di leggere: “...Addio, mio caro amico dobbiamo essere entrambi ragionevoli. Accettate l’amicizia, la tenera amicizia che vi offro, e non mancate di venirmi a trovare quando tornerò a Parigi. Addio, amico mio”». Questa lettera vera di Stendhal contiene dentro di sé, come in una wunderkammer, la lettera ipotetica dell’interlocutrice: quindi, anche nella “verità” dei rapporti affettivi, si insedia il “vizio” della fantasia e della scrittura, e si crea come un jeu letterario, anche se alle soglie dell’abisso e della perdita.
Questa antologia di addii è un libro composito come un romanzo. I destini di esseri reali e di personaggi immaginati, giunti alla conclusione di una storia d’amore, costruiscono un’unica (e sempre) diversa lettera d’addio, uno spartito declinato in melodie e ritmi sempre simili e sempre originali. Quale dei due addii è più autentico? Quello accaduto nella “realtà del mondo” o quello accaduto nella “realtà della finzione”? Difficile affermarlo. Il libro ci svela che tutto è reale e che tutto è finzione: non esiste una differenza sostanziale nei ritmi della comédie humaine. Le parole sanno raccontare i sentimenti assoluti, e questo è tutto. Dalla sequenza di addii in cui siamo coinvolti, pagina dopo pagina, restiamo turbati, condividendo con quella coppia nostalgie, rimpianti, desideri, ma è altrettanto vero che, nel corso del libro, ci nutre la meravigliosa possibilità che ha la parola di dirsi fino al suo ultimo limite: il silenzio. Di dire, azzardiamo il termine, l’inesprimibile. Niente, se non l’angoscia del distacco imminente, aiuta a trovare le parole più convincenti per quanto è inesprimibile.
Colpisce, in queste cento lettere, una liturgia che rende simili tutti i commiati: il registro fermo e perentorio della voce che sottolinea il distacco. Osip Mandel'štam scrisse che la poesia è una “scienza dei commiati”: ogni addio, infatti, contiene un lirismo struggente e irrimediabile, fin dai tempi della poesia provenzale. Non ci sarà un ritorno dell’amato o dell’amata. Il distacco procura ferite, spalanca solitudini, crea vuoti. Ma non a colmare dei vuoti è chiamata la parola bensì a rappresentarli, nel biglietto o nella lettera, in una sequenza verbale che sarà misura esatta di quella fine.
Nel 2016 Leonard Coen scrive a Marianne Ihlen, la sua musa norvegese, ormai in punto di morte: «Carissima Marianne, sono solo pochi passi dietro di te, vicino da stringerti la mano. Questo mio vecchio corpo, così come il tuo, ha ormai rinunciato a combattere e, da un momento all’altro, sto aspettando che mi arrivi l’avviso di sfratto... non ho mai dimenticato il tuo amore e la tua bellezza. Ma questo tu lo sai, non devo aggiungere altro. Fai buon viaggio, amica mia, ci vediamo tra poco in fondo al viale… con amore e gratitudine. Leonard». Queste parole, pur contenute in un biglietto reale scritto da Coen, appaiono come il testo di una sua canzone postuma, mescolando così vero e falso in un cocktail autentico.
Commenta la curatrice, Cristina Marconi: «...i fantasmi, quando c’è una separazione di mezzo, non sono mai troppo lontani: una pratica antica come scomparire nel nulla è stata ribattezzata ghosting – si evapora, ci si allontana, non si risponde più, si finge addirittura di non riconoscere –, etichetta sofisticata per qualcosa di simile a una tortura per chi la subisce e, si sospetta, per chi la pratica… Gli scrittori riuniti in questa raccolta ci suggeriscono che bisogna sempre sapere dove abbiamo seppellito le cose, dove andare a piangere all’occorrenza: proprio a questo serve la lettera d’addio».
Nelle Relazioni pericolose, di Pierre Choderlos De Laclos, il Marchese di Valmont, nel 1792, scrive così a Madame de Tourvel: «Oggi una donna che amo perdutamente esige che io ti sacrifichi. Non è colpa mia. Capisco bene che ti sto offrendo una bella occasione di gridare al tradimento: ma se la Natura non ha concesso agli uomini nient’altro che la costanza, mentre alle donne donava l’ostinazione, non è colpa mia. Fìdati, scegli un altro Amante come io ho fatto con un’altra Amata. È un consiglio buono, molto buono: se lo trovi cattivo, non è colpa mia. Addio, Angelo mio, ti ho presa con piacere, ti lascio senza rimpianto: può darsi che torni da te. Così va il mondo. Non è colpa mia». Quarant’anni prima, nel 1750, non come trama romanzesca ma all’interno di una relazione reale, Henriette scrive all’amato Casanova: «Non dimentichiamoci mai, e richiamiamo spesso alla mente i momenti felici del nostro amore, per rinnovarlo nelle nostre anime che per quanto separate ne godranno ancora con vivacità, come se i nostri cuori palpitassero l’uno accanto all’altro… so che nessuno al mondo ti conosce meglio di me. Non avrò mai più amanti in vita mia; ma mi auguro che tu non penserai mai ad imitarmi. Desidero che tu mi ami ancora, e che il tuo buon genio ti faccia trovare un’altra Enrichetta. Addio».
Non solo tragedie, lacrime, furori, ma anche stratagemmi amorosi, inganni, confessioni, rancori, svelamenti. All’amato Yann Andréa, nel 1980, Marguerite Duras scrive: «Dunque, Yann, è finita, Ti amo ancora. Farò di tutto per dimenticarti. Spero di riuscirci. Ti ho amato alla follia. Ho creduto che mi amassi. L’ho creduto. Il solo elemento positivo, spero, che mi farà staccare del tutto da te è questo, questo fatto che ho costruito la storia d’amore da sola. Credo che anche tu mi ami, ma non d’amore, credo che tu non possa contenere l’amore, esce da te, sgorga da te come da un contenitore bucato. Quelli che hanno vissuto con te non possono saperlo... Ti amo, Yann. È terribile. Ma preferisco ancora stare qui ad amarti che a non amarti. Vorrei che tu sapessi cos’è. Quale estate, quale illusione, com’era meraviglioso, non poteva continuare, non era possibile, solo gli errori possono raggiungere questa pienezza. Non so cosa fare della vita che mi resta da vivere, pochissimi anni...».
E noi che possiamo fare, involontari e volontari voyeurs, spettatori/lettori di biglietti, missive, suppliche, lettere, messaggi? Parteggiare, appassionarci, giudicare, commuoverci? No. Possiamo ascoltare tutte le frasi in devoto silenzio, come si ascolta una musica antica che si ripeterà nei secoli in tutte le lingue e di cui le parole ci permetteranno sempre di godere. Scrive la curatrice: «Molte lettere aprono uno spiraglio su storie letterarie e umane meravigliose, che la trasversalità dell’antologia permetterà magari di riscoprire. Infine, non tutte le lettere raccolte sono seguite dalla saracinesca di una morte o di una rottura definitiva: in molti casi l’addio è un cambio di passo e il momento che si fissa è quello in cui ci si dice che “non saremmo mai più stati”. Quel momento finale e fecondo in cui si dice addio e, come una pianta ben potata, ci si prepara a rinascere».
Oppure, se rinascere è impossibile, si può pensare a una lontananza senza disperazione, come quella descritta da Garcia Lorca nella sua lettera del 1936, scritta all’amico Juan Ramirez de Lucas prima di essere arrestato dai franchisti e giustiziato: «Devi tornare a ridere, Juan. Anche a me sono successe cose molto spiacevoli, per non dire terribili, ma le ho schivate con grazia. Non farti prendere dalla tristezza. Hai tante cose e il mondo, anche se ci vedesse, è bello. Sai quanto bene ti voglio ed è per questo che ti consiglio prudenza e buone maniere. Smettila di disperarti. La disperazione è dei deboli e tu devi sempre ricordarti che sei un vero uomo. Parlami dei tuoi progetti».
La lettera d’addio ha sempre il tono dell’urgenza assoluta: si vive come segnale ultimo fra chi ama ancora e chi ha smesso di amare: è il sigillo definitivo a una solitudine. Ma il libro di Cristina Marconi ha un titolo davvero suggestivo: “Come dirti addio”. La frase sottolinea proprio il come con il quale esprimere il proprio addio. Il tono della voce, nell’ultima scrittura amorosa, è fondamentale. E poi, ogni scrittura di congedo potrebbe non essere l’ultima. Ogni addio non esclude mai il possibile ritorno. E una certezza resta: che, anche soli, si continuerà ad amare chi ci amava. «Ti amo come il primo giorno – e tu lo sai, e io l’ho sempre saputo, anche prima di questo incontro. Il cammino che mi avevi indicato è più lungo e difficile di quanto pensassi. Richiede tutta una lunga vita. La solitudine di questo cammino è volontaria ed è l’unica possibilità di vita che mi è concessa... Avrei perso il mio diritto alla vita, se perdessi il mio amore per te» (da Hannah Arendt a Martin Heidegger, 1928).
Se è vero che nessun addio è “giusto”, che non esistono in amore strumenti razionali e consolatori di un dolore, è altrettanto vero che la parola, vergata su un biglietto, articolata in una lettera, affidata all’sms di uno smartphone, è quella confidenza segreta e irripetibile con cui dovremo fare sempre i conti per ricordare un amore che non ha avuto il destino di durare. “Come dirti addio” resta una domanda senza un’unica risposta, ma ricca di innumerevoli risposte, incompiute, affannate, dolorose. Questo libro ce le mostra come una sinfonia concertante – affettuosa, dolente, spietata – le cui note non smettono di echeggiare generando altre note, senza mai dimenticare il guizzo ironico e rabbioso di chi, alla fine, esce dalla gabbia amorosa. Come scrive Alja a Viktor Sklovskij nel favoloso Zoo o lettere non d’amore (1923). «Scrivi di te, e quando scrivi di me mi fai la predica. Le lettere d’amore non si scrivono per il proprio piacere, così come un vero amante non pensa per se stesso, nell’amore. Con diversi pretesti tu scrivi sempre la stessa cosa. Smettila di scrivere di come, come, come mi ami, perché al terzo “come” inizio a pensare ad altro. Alja».