Classici ad Arles 2024
È il 1970 quando il fotografo Lucien Clergue, lo scrittore Michel Tournier e lo storico Jean-Maurice Rouquette fondano i Rencontres d’Arles, il festival annuale di fotografia che si svolge nella cittadina provenzale. Un luogo unico, Arles, parte della Gallia Narbonese, lungo il fiume Rodano. La presenza romana è evidente ancora oggi con l’arena, tra le più grandi della Gallia, il teatro e gli Alyscamps, la necropoli. Ma Arles fu anche il rifugio del pittore olandese Vincent Van Gogh, dal febbraio del 1888 al maggio del 1889, alla ricerca della luce provenzale e del clima mite del sud. Lì realizza circa 300 tra disegni e dipinti, sia nell’ambito urbano, sia della campagna circostante come la piana della Crau. Non solo Van Gogh, ma anche l’amico Gauguin lo raggiunge per dipingere insieme la campagna provenzale. Questi sono elementi che delineano una identità di Arles legata alle immagini che trova una sua evoluzione con la fondazione del festival. L’obiettivo è dare voce ai fotografi considerati negli anni settanta artisti minori. Dopo cinquant’anni non sembra che i fotografi siano considerati artisti. Fin dall’inizio una delle caratteristiche dei Rencontres è la scelta di luoghi informali in cui allestire le mostre di fotografia, dalle chiese sconsacrate ai depositi ferroviari della SNCF. Un modo diverso di mettere in relazione le ricerche dei fotografi con gli spazi architettonici della città e il pubblico. Il festival è anche l’occasione per aprire cortili e negozi alle installazioni di fotografie in spazi inediti, al pari della presenza di librerie divenute un classico per il turismo fotografico, come Actes Sud.
Nel 1998 l’edizione intitolata Un nouveau paysage humain, curata da Giovanna Calvenzi, per la prima volta amplia lo sguardo sulla fotografia italiana. Tuttavia, nel corso del tempo, c’è stato un dissolvimento della nostra partecipazione, dovuta alla debolezza di gallerie e istituzioni. D’altronde scorrendo i libri nelle librerie di Arles, oltre ai cataloghi degli autori in mostra, la maggioranza sono fotografi francesi, resistono Gabriele Basilico e Luigi Ghirri ma la fotografia italiana non è pervenuta. È la dimostrazione che non riusciamo a oltrepassare i confini, che non esiste una produzione editoriale di qualità e ben distribuita, che gli autori italiani internazionali sono molto pochi e che non esistono critici e curatori di fotografia capaci di instaurare relazioni con musei e istituzioni per promuovere gli autori, tutto viene delegato alla capacità del singolo fotografo nell’autopromozione. In questo modo continua a non funzionare il sistema della fotografia italiana, dove le gallerie sono troppo deboli di fronte a colossi come la Fraenkel Gallery di San Francisco e le istituzioni sono poche e con risorse insufficienti. Non è un caso che il più importante festival di fotografia internazionale sia in Francia, nel paese in cui la fotografia è stata inventata, sostenuta e valorizzata sia dallo stato che dai privati. L’edizione 2024 dei Rencontres intitolata Beneath the surface, curata da Christoph Wiesner, già direttore di Paris Photo, cerca di riflettere sulle narrazioni in cui “fotografi, artisti e curatori rivelano le loro visioni e storie [...] le narrazioni conducono a percorsi divergenti e molteplici, tutti derivanti dalle fratture di una superficie porosa: si intrecciano, si sovrappongono e si accavallano”. Tuttavia sono tre le mostre che rimarranno nella nostra memoria visiva: Encounters di Mary Ellen Mark, Neither Give nor throw away di Sophie Calle e Lee Friedlander: Framed by Joel Coen, negli spazi della LUMA Foundation.
Per la prima volta viene presentata una mostra antologica sulla fotografa americana Mary Ellen Mark. Nata a Philadelphia nel 1940 la sua vita cambia profondamente nel 1963 quando inizia a frequentare la Annenberg School for Communication della University of Pennsylvania, dove impara a fotografare. La prima uscita nei sobborghi della sua città con la macchina fotografica, il vedere donne con bambini e cani, persone sedute, ovvero persone ordinarie, determina la necessità in lei di usare la fotografia come strumento di connessione con quelle persone e quelle situazioni, che poi avrebbe raccontato in immagini tanto belle quanto dure.
La mostra prodotta da C/O Berlin Foundation e da Mary Ellen Mark Foundation, curata da Sophie Greiff e Melissa Harris, è strutturata in sezioni tematiche tra cui spiccano l’America rurale, i ragazzi di strada, i suprematisti bianchi, la serie sui gemelli, le sex workers ed i circensi in India.
Nel 1990, cinquant’anni dopo Let us now praise famous men, la narrazione dell’Alabama rurale affidata allo scrittore James Agee e al fotografo Walker Evans, la rivista Fortune commissiona a Mark un’indagine sull’America rurale che registra la povertà indistinta dal Mississipi al Texas. Un’America invisibile ai media, ma che tuttavia esiste ancora oggi, fatta di povertà, diritti negati e fragilità, che Mark racconta nella durezza dei suoi scatti, così come le situazioni si presentano, senza filtri. D’altronde lo scopo di queste fotografie è testimoniare uno stato di fatto che possa smuovere le coscienze e renderle consapevoli del fatto che il sogno americano per questa gente non è mai iniziato e la fotografia, con il suo grande potere evocativo, aiuta a cambiare punto di vista su quello che ci circonda.
L’attualità delle fotografie di Mary Ellen Mark è ancora più evidente nella serie sui suprematisti bianchi realizzata in occasione del Congresso delle Nazioni Ariane nel 1986, a Hayden Lake in Idaho, per conto del Sunday Times Magazine dal titolo The Fuhrer Ghost. Impressionante come non sia cambiata la situazione, soprattutto se si pensa allo slogan trumpiano del Make America Great Again e ai suoi sostenitori bianchi, negli stati del sud come il Texas e la Florida, che enfatizzano un suprematismo ariano di matrice hitleriana che non corrisponde alla realtà. Mark compone un atlante di personaggi variegati: donne vestite da Ku Klux Klan, tatuaggi di svastiche, uomini che imbracciano fucili in improvvisati check point con cartelli espliciti “Whites only Welcome Aryan Warrior”, insomma tutta la retorica della propaganda nazista. L’attenzione ai fenomeni sociali è la cifra linguistica dell’opera di Mark, la cui ricerca finalmente viene presentata in maniera approfondita grazie al lavoro delle curatrici.
Un discorso diverso lo merita un’altra grande donna, l’artista francese Sophie Calle che ha fatto dell’uso della parola e dell’immagine la sua riconoscibilità. In questa occasione si confronta con la storia, nel sottosuolo del criptoportico romano. Il titolo della installazione è Neither give nor throw away (Finir en beauté) e nasce da un evento. Prima della sua mostra A toi de faire, ma mignonne, al museo Picasso a Parigi, una tempesta ha danneggiato la serie The blind che doveva presentare proprio in quella mostra. Così “i restauratori – scrive la Calle – per evitare ogni rischio di contaminazione hanno determinato che fosse meglio distruggere i lavori”. Quando è capitato di esporre il lavoro ad Arles l’umidità del criptoportico poteva accelerare la distruzione delle opere e così Calle ha deciso di installare le fotografie rovinate per dissolverle completamente con un processo naturale. “Ho notato che il marciume aveva scelto con cura le sue vittime – continua Calle – oltre a The Blind, aveva colpito solo quelle opere che parlavano di morte o perdita, come se la loro impermeabilità fosse già compromessa: mazzi di fiori secchi; fotografie di tombe; la fotografia del mio materasso su cui un uomo si era dato fuoco; dipinti dell'ultima parola di mia madre. A queste opere moribonde, che stavano subendo una seconda morte, ho aggiunto anche oggetti della mia vita di cui non avevo più bisogno, ma che non riuscivo né a donare né a gettare via”. Tuttavia l’installazione site specific, nell’ombra del criptoportico, con le fotografie incorniciate con i segni della muffa e collocate a terra, illuminate con l’effetto luminoso a occhio di bue, appaiono deboli nell’insieme, soprattutto le immagini, che nel loro essere concettuali, non riescono a fissarsi nella nostra memoria come quelle potenti di Mary Ellen Mark.
Il terzo protagonista dei Rencontres è il fotografo americano Lee Friedlander, uno dei grandi maestri della fotografia americana insieme a William Eggleston e Robert Adams. Framed by Joel Coen, curata da Matthieu Humery, è la mostra al LUMA. Una fondazione creata a Zurigo da Maya Hoffman nel 2004 per sostenere la produzione artistica contemporanea. Nel 2013 apre la sede di Arles con la torre progettata da Frank O. Gehry. Un’area dove un tempo c’erano i depositi ferroviari della SNCF, sede di alcune edizioni dei Rencontres, viene recuperata per ospitare atelier e progetti di arte contemporanea.
Lee Friedlander Framed by Joel Coen è un interessante esperimento che il regista di Fargo e Non è un paese per vecchi, ha attuato durante la pandemia in California con la complicità del gallerista Jeffrey Fraenkel che cura l’opera del fotografo americano.
Friedlander è uno dei più prolifici fotografi, nato ad Aberdeen nel 1934, ha attraversato l’America raccontandone le contraddizioni con grande ironia. Amante della musica jazz al quale dedica la prima parte della sua attività, prosegue viaggiando in gran parte degli stati federali per raccontare The American Monument, i deserti del sudovest in The desert seen, i parchi progettati da Frederick Law Olmsted su commissione di Phyllis Lambert, mecenate fondatrice del CCA di Montréal, e ancora America by car, dove ritrae il suo paese dal finestrino dell’automobile. L’incontro con Joel Coen e la moglie Frances McDormand avviene nella casa che Lee Friedlander condivide con la moglie Maria, una donna di origine ligure a cui lui dedica Staglieno, una serie di fotografie sul famoso cimitero monumentale genovese.
“Ero presente quando questi due si sono incontrati per la prima volta – scrive McDormand nella postfazione del libro – e ho osservato una familiarità che deriva dalle loro vite di visioni singolari ed eccentriche [...] Nessuno dei due si definirebbe naturalmente un artista. Eppure, hanno affinato le loro abilità attraverso decenni di pratica, e per noi che non possiamo vedere come loro, non c'è altro modo per descrivere ciò che fanno se non come arte”. L’approfondimento di Coen dentro al lavoro di Friedlander apre a una visione nuova della sua ricerca, perché un regista ha un modo diverso di vedere le immagini, anche se parliamo sempre di sequenza tra una scena e l’altra. Questo fa Coen, guarda, comprende l’ironia di Friedlander, il suo modo di mettere insieme i frammenti che costituiscono l’insieme. Comprende che i pali della luce sono un elemento centrale nella composizione delle fotografie e quindi decide di assemblare le sequenze per famiglie di oggetti. Guardando i libri di Friedlander Coen afferma che “si trattava di riconoscere schemi, schemi che so essere istintivi ma che sono presenti in tutto ciò che fa [...] vedo che i pali sono leggermente diagonali e noto l'affinità tra il palo diagonale e il design degli interni delle auto. Poi vedo come usa le ombre diagonali come i pali. Ora vedo come usa gli schermi televisivi come finestre. Ora vedo come usa la luce per definire le stesse aree”. Partendo da questi presupposti il regista crea una sequenza di settanta fotografie che dialogano tra loro in cui i rimandi tra una immagine e l’altra raccontano l’approccio di Friedlander alla fotografia, una fotografia silenziosa che non urla ma sussurra.
Copertina: Lee Friedlander, San Diego, California. 1997 (printed 2000s), 20 x 16 inches. © Lee Friedlander, courtesy Fraenkel Gallery,