Maldonado, intellettuale politecnico
Tomás Maldonado è una figura complessa. Artista, designer, filosofo, ha insegnato a Ulm, Princeton e infine al Politecnico di Milano. Dal 1977 al 1981 ha diretto Casabella, dopo l’onda Mendini che aveva scombussolato le carte della borghesia architettonica milanese pubblicando le copertine irreverenti dei giovani architetti radicali, troppo per una rivista che ha sempre sostenuto le ragioni dell’establishment dell’architettura. Maldonado si interessa inizialmente alla pittura e fonda nel 1945 a Buenos Aires, insieme a Lidy Prati, Alfredo Hlito, Raúl Lozza, Enio Lommi, Manuel Espinoza e Juan Melé, l’Asociación Arte Concreto-Invención che si ispira alle visioni neoplastiche del movimento De Stijl ed in particolare di Theo van Doesburg e Piet Mondrian. Nel 1954 Maldonado lascia l’Argentina per stabilirsi nella Germania postbellica. Insegna alla Hochschule für Gestaltung di Ulm, la scuola di design fondata nel 1953 da Max Bill, Inge Aicher-Scholl e Otl Aicher, con lo scopo di integrare il progetto nella cultura industriale e di dare forma a una cultura materiale contemporanea. Negli anni del dopoguerra il processo si svolgeva sotto il segno della crisi dei valori e delle risorse, il che indusse la Scuola di Ulm a ripensare il significato della creazione della forma nel mondo contemporaneo e a democratizzare l'accesso al design.
“Negli anni quaranta – afferma Maldonado nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 2009 – ho partecipato alle avanguardie sudamericane: eravamo convinti che attraverso l'arte si potesse cambiare il mondo. Poi è venuta l'esigenza di applicare questa tensione utopica agli altri campi, come il design, e ho fondato la rivista Nueva Visiòn che cercava la trasversalità delle esperienze. Questo passaggio mi ha portato a insegnare disegno industriale a Ulm e con la stessa passionalità, forse ingenuità e candore, ho poi sviluppato in Italia la parte teorica”. In Italia sviluppa le collaborazioni con Ettore Sottsass Jr, la Olivetti e cura l’immagine della Rinascente, insegna all’Università di Bologna insieme a Umberto Eco. Proprio con Eco nel 1974 instaura una polemica nel testo Appunti sull’iconicità, all’interno di Avanguardia e razionalità (Einaudi) come ricorda l’allievo e amico Giovanni Anceschi, artista, membro del Gruppo T (insieme a Davide Boriani, Gabriele De Vecchi e Gianni Colombo) nel suo libro Tomás Maldonado Intellettuale politecnico (Il Verri):
“È intorno alla scena di Galileo che guarda nel cannocchiale e disegna e annota i moti retrogradi dei satelliti di Giove, che si è svolta la polemica fra Maldonado ed Eco, con Maldonado che attribuisce un profondo valore epistemico alla raffigurazione, mentre Eco difende la propria posizione – diciamo così – convenzionalista […]”. La critica di Maldonado è supportata da un apparato di 192 tavole in cui sono presenti immagini di El Lissitzky, siluette settecentesche e eliografie di Nicephore Niepce, prospettive di Mantegna, Dürer, Paolo Uccello, Piero Della Francesca e le prime immagini computerizzate. La risposta di Eco avviene attraverso un saggio dal titolo Chi ha paura del cannocchiale, pubblicato nel 1975 nel numero 32 della rivista Op. cit.:
“Francamente non so a cosa alluda Maldonado – scrive Eco – quando parla dell’immagine offerta dallo strumento: dell’immagine virtuale che si forma sull’oculare e che potrebbe essere fotografata in assenza di occhio umano? dell’immagine retinica corrispondente? dell’immagine mentale prodotta dall’immagine retinica? Per tutti questi fenomeni si potrebbe porre una serie di questioni di “semiotica della percezione”, ma ora non vorrei farlo. Il fatto è che, in quest’ambito, lo strumento non è veicolo di significazione, è pura protesi”.
-
-
La protesi sostiene Anceschi è la sua mossa difensiva e come affermare che la semiologia è tecnologia. Tuttavia il tema della iconicità è centrale nel progetto di design e in tutte le altre arti visive come la fotografia. Lo ricorda Luigi Ghirri nel 1979 quando organizza la mostra collettiva Iconicittà (Ballardini, Barbieri, Basilico, Cresci, Chiaramonte, Del Monaco, Fava, Fossati, Gasparini, Guidi, Jodice, Mattioli, Pozzi, Salbitanti, Ventura, Vimercati, Wolf) a Ferrara, dove il fotografo emiliano, sofisticato attivista della cultura visiva, sottolinea la parentela con l’iconicità ma riferendosi alla città e come recita il sottotitolo Una visione sul reale. I fotografi dissacrano il significato di iconicità, lo de-strutturano attraverso il loro sguardo per eleggere icone i segni della quotidianità, le case anonime, le strade delle periferie, i manifesti che richiamano le opere di Mimmo Rotella e la Pop Art.
La polemica ricorre nell’opera di Maldonado come evidenzia ancora Anceschi nel suo libro, una volta è Eco, poi Denise Scott-Brown e Bob Venturi autori del testo “iconico” Learning from Las Vegas. Nella polemica che fa con Bob Venturi c’è un elemento che possiamo condividere, l’avversione per la narrazione di Las Vegas come un fenomeno fatto dal popolo e non per il popolo, di fatto anche la Pop Art non fa altro che dare residenza a fenomeni in atto enfatizzandoli nella logica del consumo, da Warhol a Ruscha, ma che hanno formato la nostra abitudine a consumare. Già Superstudio e Archizoom lo avevano teorizzato nel 1966 con la mostra Superarchitettura: “La superarchitettura è l’architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al consumo, del supermarket, del superman, della benzina super”.
Polemizzare, dibattere, criticare serve a Maldonado per precisare la sua posizione culturale, occorre però stabilire quanto la polemica sia necessaria e funzionale ad una evoluzione del pensiero critico. La controcritica che viene fatta a Maldonado è di enfatizzare il ruolo della tecnologia, di qui la definizione positiva di intellettuale politecnico che gli conferisce Anceschi nella sua visione soggettiva del maestro. L’eccessiva fiducia nella tecnologia, o per dirla alla Vinca Masini nella utopia tecnologica ha caratterizzato il decennio sessanta-settanta del Novecento, da Yona Friedman agli Archigram fino ai fiorentini radicali 9999, per poi accorgersi che la tecnologia da sola ha fallito. È vero che Maldonado ha un approccio che risente dell’esperienza del Bauhaus ma non ci convince pienamente il suo pensiero critico, soprattutto quando attacca anche lo storico dell’architettura inglese Reyner P. Banham, mentore del New Brutalism, fondato dagli architetti Alison e Peter Smithson, sostenitore della nascente Pop Art in Inghilterra con il contributo fondamentale di Richard Hamilton ed Eduardo Paolozzi. La contesa con Banham avviene quando lo storico anglosassone scrive Industrial design e arte popolare (Civiltà delle Macchine, 1955) a proposito delle automobili: “l’arte popolare dell’automobilismo in una società meccanizzata è una manifestazione culturale come lo sono il cinema, le riviste in rotocalco, la science-fiction, le comic strips, la radio, la televisione, la musica da ballo e lo sport; la Buick con il suo scintillante virtuosismo tecnico, la sua raffinata eleganza e la sua mancanza di riserbo risponde mirabilmente alla definizione di Pop Art data da Leslie A. Fiedler”. Ovviamente questo assioma provoca la risposta di Maldonado: “Sarei d’accordo con Banham, su questo punto, solo a condizione che i dinosauri a quattro ruote che escono da Detroit fossero arte popolare autentica, cioè arte del popolo. Ma non sono convinto che le fantasie aerodinamiche del vicepresidente V. Exner – responsabile del disegno delle vetture Chrysler – rispondano spontaneamente alle esigenze estetiche dell’uomo della strada”. Ma quali sono le esigenze estetiche dell’uomo della strada Maldonado non lo scrive. La sfida è riuscire a interpretare le esigenze estetiche della massa e trasformarle nel prodotto che naturalmente diventa oggetto di consumo, ma non si può criticare il consumismo senza contrapporre un controdesign, come avevano tentato i radicals ad esempio con la Global Tools, ispirata all’arts&craft di William Morris. Analizzando l’opera di Maldonado si denota una grande capacità tecnico-creativa, sia nelle grafiche usate per il sistema dei segni del primo calcolatore elettronico Elea 9003, disegnato da Sottsass Jr per Olivetti, sia negli arredi e nell’immagine coordinata per Rinascente-Upim, ma l’ambito preferito di azione in cui l’intellettuale politecnico agisce rimane la saggistica e l’insegnamento, confermato ancora dalla testimonianza dell’amico Anceschi: “l’attività non solo di didatta e di grande revisore dei metodi di insegnamento, ma soprattutto direttamente di pedagogo [...] o forse bisognerebbe avere il coraggio, sfidando la retorica, di dire Maestro – ma, come lui stesso ha avuto modo di affermare, soprattutto di un maestro informale, cioè di un conversatore che ha fatto della conversazione, e della capacità di ascoltare oltre che di dire, una delle arti liberali”. In questo contesto si inserisce la direzione della Casabella nel post Mendini, dove fin dall’editoriale di esordio si comprende il taglio che la rivista assumerà fino al 1981: “la rivista intende riflettere il grave dissesto strutturale del Paese e farsi portavoce dei suoi problemi, dei suoi bisogni e delle attuali esigenze innovative […] sarà volta soprattutto ad elaborare strumenti di interpretazione ed ipotesi di soluzione alle molteplici questioni concrete che tale dissesto ha sollevato nell’area specifica dell’attività progettuale”.
La trasversalità dell’opera maldonadiana appare come elemento unificante della sua azione militante per tenere insieme teoria e pratica, lo ribadisce anche al critico Hans Ulrich Obrist: “Ogni volta che sono stato impegnato in un determinato campo di attività, mi sono sempre chiesto quali siano le possibili convergenze di questo campo con altri vicini o lontani. Il che mi ha portato spesso, nella mia riflessione, ad andare oltre l’attività che stavo svolgendo”.