Cosa manca ai premi letterari?
Esistono parecchi elenchi dei premi letterari italiani, una moltitudine in apparenza dotata di ogni specie e variante: ma non è così. Al di là delle discussioni che ogni anno accompagnano l’assegnazione di quello attualmente più rilevante (anche per le copie che riesce a far vendere), lo “Strega”, e al di là delle qualità che ciascuno può vantare, è vero che in Italia non si individua un equivalente del “Goncourt” francese o del “Pulitzer” statunitense. Perché?
Bisogna ripartire dalle origini e capire bene come sono nati almeno i principali premi nostrani, per cercare poi di comprenderne l’evoluzione. Il primo è il “Bagutta”, ideato nel novembre 1927 (non 1926, come spesso si legge) in una trattoria milanese da Riccardo Bacchelli, Orio Vergani e nove altri intellettuali (piuttosto eterogenei ma, in vari casi, collaboratori della rivista “La fiera letteraria”). All’inizio, lo scopo era quello di fare una sorta di dono collettivo a un amico scrittore, sia per valorizzarlo, sia per fargli avere un sostegno economico: fu così che nel gennaio del 1928 venne premiato il milanese Giovanni Battista Angioletti per Il giorno del giudizio, pubblicato in volume più volte lo stesso anno. Nessuna particolare pretesa di ufficialità e nemmeno un’esplicita contrapposizione con le Accademie ufficiali, come era avvenuto a Parigi per impulso di Émile Goncourt: le analogie (per esempio le riunioni molto animate e l’assegnazione in contesti conviviali) erano di sicuro inferiori alle differenze, ma in ogni caso il “Bagutta” andò a costituire l’occasione, il 14 gennaio di ogni anno, per una sintesi delle uscite dell’anno precedente e per un’onorificenza alla carriera, meno per una proposta rivolta ai lettori generici.
Diverso il caso del “Viareggio”, ideato nel 1929 da Leonida Rèpaci, proprio sul modello milanese, ma subito caratterizzato da una vocazione pubblica più accentuata, che divenne poi, nel periodo in cui il premio venne gestito dall’establishment fascista nel corso degli anni Trenta, un’occasione per la mondanità. Dopo il 1945, Rèpaci riprese il controllo della situazione e pensò di collocare la sua creatura sotto due tipi di protezioni: da un lato quella culturale della sinistra, cui Leonida apparteneva, ma dall’altro anche quella di intellettuali fuori degli schemi, disposti a riunirsi in luoghi vari della Versilia e non ostili agli incontri mondani alla Capannina o al caffè “Quarto platano” al Forte (se ne conservano riprese video nei notiziari “Incam” dell’epoca). Negli anni Cinquanta e Sessanta, questo premio riuscì a istituire un connubio fra le esigenze della nuova borghesia interessata alla cultura, dell’accademia meno paludata e dell’editoria non interessata solo alle vendite, cosicché in più di una circostanza riuscì a imporre all’attenzione romanzi in linea con queste caratteristiche, da Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, che vinse come opera prima nel 1948 (non senza l’appoggio esterno di Moravia) a Metello di Pratolini (1955: accesissime le polemiche), da Il giardino dei Finzi Contini (1962) di Bassani a Il male oscuro (1964) di Berto.
Di parecchio più giovane (nacque nel 1947), il premio “Strega” si caratterizzò ben presto per la sua vocazione a far vincere opere che aspiravano a raggiungere un pubblico molto consistente: venivano individuate dagli “Amici della domenica”, di norma 400 lettori che cominciarono a orientarsi verso pochi editori di riferimento (Mondadori, Rizzoli, Garzanti…), così da premiare, a rotazione, i campioni di ciascuna scuderia, purché in buoni rapporti con l’ambiente culturale romano. Poterono accadere, di tanto in tanto, eccezioni, ma solo per casi speciali: il più celebre resta quello del Gattopardo nel 1959, quando si volle sancire, con un’assegnazione postuma, un successo di pubblico già assai ampio, e poi cresciuto verticalmente.
Ultimo in ordine di nascita, fra i premi maggiori, il “Campiello”, espressione di una cultura legata al Veneto industriale e cattolico, ha cercato dal 1962 di coniugare le ragioni della critica, con giurie autorevoli per la selezione delle cinquine finaliste, con quelle del pubblico dei lettori non specialisti, che decretano il vincitore, spesso sovvertendo i valori in teoria stabiliti dagli specialisti - fra l’altro, con scelte che in vari casi hanno dato esiti positivi a livello di vendite, come è accaduto da ultimo con I miei stupidi intenti, opera prima del giovane Bernardo Zannoni, vincitore a sorpresa nel 2022.
Dovremmo menzionare molti altri premi di portata nazionale, distribuiti un po’ in tutte le regioni italiane, magari più orientati verso le scelte della giuria o più verso quelle del pubblico o degli addetti ai lavori (compresi i librai, con il “Bancarella”). Ma qui basta evidenziare due dati indiscutibili. Il primo è che nessun premio letterario italiano è improntato a una vocazione selettiva indipendente (nei limiti dell’umanamente possibile) da vincoli di amicizia o di contiguità, in modo da arrivare a sancire un livello letterario molto elevato, come avviene appunto per il “Goncourt” e forse ancor di più per il “Pulitzer”: questi riconoscimenti, ridotti a livello economico (ben più ricco è il “Cervantes” in Spagna, che però è in sostanza un premio alla carriera), sono però di indiscutibile prestigio, tale da non indurre mai a considerare del tutto immeritati gli esiti, fatta salva com’è ovvio la possibilità di scelte diverse (e a volte di polemiche, magari motivate).
Il secondo è che, a oggi, solo un premio riesce a ottenere di sicuro riscontri effettivi tra i lettori generici, quantificati dalle vendite prima e dopo l’assegnazione, ed è lo “Strega”. Tutti gli altri, che spesso riuscivano a far vendere in passato decine se non centinaia di migliaia di copie, come nel caso del “Viareggio”, adesso consentono al massimo una forma di sostegno, e in rari casi contribuiscono a individuare qualche voce nuova, come capita in particolare con il “Campiello”.
Su questi aspetti è forse inutile insistere. Ma a questo punto, lasciando da parte gli aneddoti e le analisi contingenti, come quelle delle dietrologie sulle varie scelte dei finalisti, poniamoci alcune domande più sostanziali. Per esempio, in che misura i premi letterari italiani hanno indicato in tempi rapidi valori non pre-stabiliti o linee di tendenza significative? La risposta richiederebbe un esame minuzioso di tutti i vincitori e i finalisti almeno dei premi principali sopra indicati dal 1946-47 a oggi, ma sinteticamente si può riassumere: di rado. Vittorie come quelle del Gattopardo o del Nome della rosa arrivano quando il successo è già in atto, e semmai lo consolidano; la vittoria di Primo Levi con La tregua alla prima edizione del “Campiello” (1963) indicava la nuova sensibilità verso i grandi temi etici e civili, dopo che Se questo è un uomo era stato a lungo tenuto in scarsa considerazione, però in quello stesso anno nessun premio fu assegnato a Fratelli d’Italia di Arbasino, che arrivò finalista al “Campiello” nel 1994 (ma vinse Sostiene Pereira di Tabucchi) solo con la terza versione, per la quale gli venne comunque assegnato il “Bagutta”. Una parabola forse non troppo diversa da quella, proprio arbasiniana, per arrivare a essere un ‘venerato maestro’.
Si può poi osservare che sono parecchie le opere non eccelse di autori affermati che ricevono un premio ‘perché è arrivato il turno’. È capitato a Gadda o a Landolfi o a Manganelli o a Malerba o a Pontiggia, solo per citare alcuni dei casi macroscopici. E sono anche numerosi i casi di libri vittoriosi che sono stati dimenticati (a volte a torto), come, a guardare per esempio le liste del “Viareggio” tra anni Settanta e Ottanta, Amati enigmi di Clotilde Marghieri (1974), o Le porte di ferro di Stefano Terra (1980), peraltro in fase di rivalutazione; ma questo è accaduto pure al “Campiello”. Meno, forse, nell’albo dello “Strega”, che ha quasi sempre puntato su nomi ‘consolidati’ per il vincitore, a scapito degli altri finalisti, che a volte erano davvero comparse: il culmine fu raggiunto nel 1986, l’anno della vittoria postuma di Maria Bellonci con Rinascimento privato, quando i pochi voti residui andarono per la maggior parte a Francesco Grisi con A futura memoria e a Massimo D’Avack con Si sa dov’è il cuore. In generale, comunque, per la popolarità di un libro contava soprattutto la combinazione di vittoria e carriera pregressa, mentre l’entrare nella short list non ha dato spesso vantaggi, o almeno non tanti quanti le battaglie all’ultimo voto, come quella fra Tiziano Scarpa e Antonio Scurati nel 2009.
Il sistema dei premi letterari italiani, per il settore della narrativa, sembra insomma aver garantito molti fini evidenti, a cominciare da quella di favorire un nesso fra produzione editoriale, già predisposta al suo interno per le ‘opere da concorso’, e gusti del pubblico, magari con il consueto apparato di mediatori (recensori, librai-consiglieri, gruppi di lettura delle biblioteche ecc.). Nel corso del Novecento, l’aspetto dell’autorevolezza del riconoscimento è diventato secondario, anche perché alcuni dei premi più antichi sono andati incontro a numerose traversie. Sarebbe ormai impossibile sopperire in modo adeguato a questo aspetto, perché per garantirlo occorrono i fattori della lunga durata e della selezione super partes (almeno nella maggioranza dei casi), come è avvenuto, sempre dal 1945-46 in avanti, con il “Goncourt” e il “Pulitzer” - in maniera più discutibile nel caso di altri premi internazionali, e di certo discutibilissima in quello del “Nobel”.
Inoltre, la canonizzazione degli autori e delle autrici, sempre meno semplice, ha tenuto pochissimo conto, nelle recenti storie letterarie italiane, delle vittorie ai premi principali: per concentrarci sugli ultimi anni, si può notare che scrittori sostenuti da un ottimo consenso critico (però divisivi e di lettura non semplice), come Vitaliano Trevisan o Antonio Moresco o Michele Mari, non hanno ricevuto se non menzioni secondarie nei primi di cui sopra, mentre a volte hanno vinto in altri con giurie ristrette e qualificate.
Alcuni cambiamenti sono comunque in corso, grosso modo dall’inizio del Duemila. Intanto, la battaglia specifica del premio più ambito è ormai vinta dallo “Strega”, che ha modificato in parte alcuni suoi caratteri, aumentando il numero di votanti o instaurando vari livelli di selezione, per garantire una maggiore visibilità almeno a una dozzina di opere (alcune delle quali pubblicate da ‘piccoli’ editori), così da premiare anche testi piuttosto complessi e a volte lontani dalle tipologie narrative più diffuse: basti pensare ai casi di Albinati, Siti, Trevi o Desiati. È senz’altro vero però che la ‘media’ delle scritture che entrano in queste selezioni risponde a criteri ben riconoscibili sia per contenuti che per stile, come è stato notato soprattutto da Gianluigi Simonetti nel suo Caccia allo Strega (2023).
Ma, al di là di esiti imprevisti alla vigilia, per esempio il successo, proprio nel 2023, dell’outsider Ada D’Adamo con Come d’aria, un aspetto significativo è che la risposta del pubblico non è uniforme. Le opere vincitrici dello “Strega” raggiungono sempre ottime vendite, ma possono fermarsi a poche migliaia di copie se risultano prive di una storia forte e racchiusa in uno sviluppo coinvolgente. Queste caratteristiche adatte si rilevano per esempio nelle opere di due scrittori parecchio giovani al momento della gara che li ha incoronati: La solitudine dei numeri primi, con cui Paolo Giordano ha vinto nel 2008, e Otto montagne di Paolo Cognetti, vincitore nel 2017. Da questo punto di vista, le scelte risultano ancora più chiare al “Campiello”, dato che hanno potuto prevalere, grazie alla giuria popolare, le relativamente poco conosciute Michela Murgia con Accabadora nel 2010 o Donatella Di Pietrantonio con L’arminuta nel 2017, romanzi poi fortunatissimi.
Opere come queste attestano con sufficiente precisione i perimetri entro cui il lettore medio-forte italiano è disposto a muoversi, se si spinge al di fuori dei confini dei generi dominanti, a cominciare dal poliziesco. Testi di notevole qualità ma più impegnativi riescono a trovare spazio solo in altri ambiti, per esempio quello di varie classifiche indipendenti che sono state proposte a partire da fine XX-inizio XXI secolo. Tuttavia, persino opere notevoli e individuate proprio per questa via, come Il tempo materiale di Giorgio Vasta nel 2008, non sono in grado di far coagulare un pubblico corrispondente a quello che segue con impegno autori stranieri non bestseller ma di culto, per esempio Jonathan Littell o William T. Vollmann o Hanya Yanagihara ecc. Singoli casi, a volte da studiare a sé (come, di recente, Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, peraltro rimasto escluso dai premi maggiori nel 2023), non cambiano il quadro d’insieme: in Italia non esiste una platea di lettori forti sufficiente a sostenere opere un po’ o molto al di sopra delle medie. I dati delle vendite, che si fermano a qualche centinaio di copie per opere di autori validi e magari anche attivi nei mass-media, non ammettono altre interpretazioni.
Le succinte analisi precedenti andrebbero integrate con altre molto più sistematiche, in particolare sul versante della sociologia dell’autore e dei lettori, come proposto nel saggio di Sylvie Ducas La litterature à quel(s) prix? (Paris, La Découverte, 2013) in rapporto al sistema dei premi letterari francesi. Di sicuro essi contribuiscono a inserire gli scrittori in circuiti mediatici, in ruoli che vanno ben oltre la dimensione specifica della scrittura. Inoltre, mentre un premio in contrapposizione ai circoli accademici ufficiali poteva contribuire a consacrare Proust, dopo che persino il mondo editoriale parigino lo aveva a lungo trattato con cautela, attualmente un premio assegnato persino a scrittori che sostengono posizioni minoritarie (magari latamente politiche o d’impegno) è del tutto accettabile senza scandalo e non apporta alcun valore aggiunto. In ogni caso, è sempre più evidente che il ruolo del singolo critico-votante non ha più un peso speciale, nemmeno là dove il prestigio del premio dipende anche da un gruppo di giurati autorevoli, magari ascoltati in altre sedi e in grado di individuare opere effettivamente di valore: si possono creare sinergie fra critici e gruppi specifici di lettori, ma l’analisi minuziosa di testi recenti, così come di capolavori antichi, è adesso un territorio interessante per una minoranza quanto mai esigua.
Come ho già scritto in altri interventi, in Italia qualcosa potrebbe cambiare se si intervenisse sul modo in cui viene proposta la lettura di testi letterari nelle scuole medie inferiori (dove si potrebbe davvero osare molto di più) e superiori, quando ormai peraltro i gusti e i modelli dei giovanissimi sono ormai impermeabili ai valori della critica, e risentono molto di quelli della comunità virtuale (booktoker ecc.). La forte divaricazione fra i canoni scolastici, anche per la letteratura del secondo Novecento, e quelli impliciti nelle letture adolescenziali, improntate al fantasy in tante accezioni, non si risolve pensando a nuovi premi, che per esempio rendano palesi alcuni successi social, come quelli di Erin Doom: operazioni simili sono già state fatte negli anni Novanta, quando erano in atto le prime forti fratture tra canone ufficiale e canoni alternativi, ma è l’intero circuito pubblicazione > lettura/critica > premio > ampliamento del successo a essere ormai poco produttivo.
A livello di vendite, il settore dei libri ‘da premio’, di qualunque tipo, è di sicuro ridotto rispetto a quello dei libri ‘da presa immediata’. Basta guardare con costanza le classifiche di vendita, persino senza entrare nei dettagli più fini: molto spesso, dei primi dieci posti due o tre sono occupati da testi nati nei mass-media, manga e graphic novel, mentre altri sono appannaggio degli scrittori ‘di genere’ in attività a turno. Un paio di caselle possono essere occupate da saggisti di successo o da personaggi televisivi - in quest’ultimo caso, molto meno rispetto a un decennio fa. Opere di alta qualità ma impegnative e non patetiche, persino se entrate in una rosa importante (p.e. Davide Orecchio con Storia aperta, Gilda Policastro con La parte di Malvasia, Andrea Canobbio con La traversata notturna ecc.), rischiano di essere del tutto accantonate.
A livello critico, ben poco si può proporre senza un nuovo patto con gli insegnanti delle scuole ma adesso pure dei trienni universitari. Sarebbe indispensabile creare in quegli ambienti delle offerte di lettura differenziate, favorendo per esempio la discussione di opere significative. Per di più, mediatori culturali di nuova formazione potrebbero offrire nei mass-media e in particolare online un contributo meno settoriale e più aperto a progetti di valorizzazione delle letture non scontate, magari per riesaminare gli esiti dei premi attualmente più accreditati. In effetti, forse un ‘premio dei premi’, alla fine di ogni annata oppure ogni due o tre, potrebbe (condizionale utopico?) fornire qualche elemento di riflessione ulteriore, per eventuali (ri)letture, quelle che sembrano sempre più deficitarie nel sistema di rapidissima obsolescenza dei prodotti culturali. E in questa riconsiderazione, dovrebbero essere segnalati anche gli outsider, ovvero i testi che non sono pensati per vincere premi ma possono intercettare nuclei di senso e proporre soluzioni stilistiche di lunga durata. Resilienti, non-soccombenti, ritornanti: di sicuro, opere che non svolgono il ruolo di nobili intrattenitrici.