Esami di maturità / Dai campi a scuola e ritorno
A volte succede. E nel petto avverti la freschezza che hai sempre associato al sentimento della riconoscenza. A volte anche l’habitat più corroso dalla polvere e dalla noia, il mondo della scuola, ti può sorprendere, come non credevi più che ti potesse capitare. Come, di rado, può ancora accadere durante un viaggio, fra le pagine di un libro oppure nello sguardo di chi ti vuole bene.
Insomma, chiamato ancora una volta a presiedere una commissione di maturità nella ricca città del Nord che qualche lettore di Doppiozero ricorderà; mi ritrovo in pieno centro città ma in mezzo a sette ettari di verde: un Istituto Tecnico Agrario. Ci sarò passato accanto centinaia di volte senza immaginarne l’esistenza. Quelli per me erano gli spazi del vecchio Ospedale Psichiatrico, un luogo di dolore, dove da giovane avevo tentato insieme all’amico Ferrario i primi esperimenti di reportages col videotape… Ma da trent’anni, all’ombra di quegli aceri secolari, funziona una scuola degna di lode.
Immaginate campi di grano e frutteti rigogliosi, filari di vite sperimentale, orti ordinatissimi irrigati e coltivati da studenti e professori, grandi serre destinate alla floricoltura, un capannone per la messa a dimora delle stelle di natale, un recinto per daini, un pollaio che produce uova fresche di giornata, un punto vendita aperto agli abitanti del quartiere, un meraviglioso giardino curato dai pensionati del circondario, una vecchia cascina padronale lombarda con porticato a volte mattonate, perfettamente ristrutturata per ospitare biblioteca e laboratori, un andirivieni costante di studenti agricoltori impegnati nella cura delle piante anche a lezioni ormai terminate da settimane.
In questa cornice, i candidati al diploma: per lo più provenienti dalla cintura extraurbana, quasi tutti già al lavoro presso le aziende agro/zootecniche familiari. Trascrivo il dialogo fra una studentessa e un commissario interno, rubato il giorno della prima prova scritta: Profe, sono stanchissima, stamattina mi sono alzata alle cinque – Ma dove abiti, scusa? – A Sotto il Monte – Ma sono solo pochi chilometri! – Eh già, ma se non lo faccio io chi le munge le capre?
E così, nei giorni seguenti, capisco che quasi tutti gli studenti, durante l’intero corso di studi, hanno condiviso la fatica dei genitori nei campi e nelle stalle e mi viene da pensare all’inconcludente Alternanza Scuola Lavoro, diventata obbligatoria per tutti gli istituti superiori come un ex-premier volle e illustrò nella primavera del 2015. E ripenso anche alla pigrizia che aleggia attorno ai ritratti degli adolescenti più o meno sdraiati di oggi. So bene che quello stereotipo contiene un fondo di verità, basta frequentare scuole più prestigiose e licei blasonati per trovarvi conferme, ma che bello scoprire altre dimensioni della realtà studentesca a quattro passi dal centro della tua vecchia e amata città.
Peraltro, anche lo specifico curricolare dell’indirizzo di studi fa riflettere: Genio rurale, Produzioni vegetali, Gestione dell’ambiente e del territorio, Trasformazione dei prodotti, Produzioni animali... I colleghi mi raccontano di esperimenti condotti negli anni di macinature di farine di mais, di tentativi di caseificazione, poi abbandonati perché i vicini si lamentavano del cattivo odore, di vinificazione dopo le prime timide vendemmie di qualche anno fa. Ascolto incredulo, mi faccio ripetere, voglio i riscontri nelle prove d’esame. Consulto i lavori proposti per l’inizio dei colloqui, le deprecate tesine, ecco qualche titolo: Agricoltura e coltivazioni idroponiche, Valorizzazione cascina Cherio, Gli alpeggi patrimonio di biodiversità, Vasche di laminazione torrente Lesina, Un protagonista di ieri e di oggi: il gelo, L’uomo e il suo trattore Steyr 4110… Altro che ricerche su disagio giovanile, alienazione, dissolvimento dell’io e devianza. Qua si respira concretezza, qua si respira.
Poi, fra correzioni e colloqui, qualcosa scricchiolerà e si faranno strada diversi dubbi: l’apprendimento della lingua inglese pare davvero rudimentale, la padronanza della lingua madre e dei contenuti di Storia e Letteratura lascia parecchio a desiderare, d’accordo. Ma quei lampi di affetto, quando ti raccontano delle prestazioni dei trattori del papà o del latte prodotto dalle bruno alpine acquistate dal nonno, ci chiedono– e ottengono – indulgenza.
E poi, come avrei potuto non sentirmi a casa in un istituto intitolato al grande e vecchio scrittore dei boschi,delle stagioni e delle montagne, al maestro che ogni tanto torno a salutare nel piccolo cimitero di Asiago?