Giovani italiani a Londra / Brexit. Le lacrime dei figli
Ci eravamo lasciati su WhatsApp poco dopo la mezzanotte con qualche speranza in seguito ai primi sciagurati exit polls. Ma poi avevo dormito poco e male, l’inquietudine in agguato tutta la notte: come fidarsi delle proiezioni inglesi? Infine, stamattina, m’è toccato fare i conti con le lacrime di mia figlia, con il pianto rabbioso di un’intera generazione di giovani italiani espatriati.
Ho due figlie che vivono a Londra da anni, la prima insegue il sogno di diventare chef, la vera grande passione della sua vita, lavora in un ristorante prestigioso anche per sessanta ore alla settimana e si mantiene con orgoglio e spirito di indipendenza. La seconda studia musiche popolari orientali alla SOAS, grazie al prestito d’onore concesso dal welfare inglese agli studenti UE. Nel frattempo, con venti ore alla settimana nei pub e nei ristoranti, contribuisce al bilancio familiare. Fanno parte di un numeroso e variegato universo di giovani italiani, spagnoli, francesi che negli anni hanno intrecciato legami profondi di amicizia e condivisione della faticosa vita londinese, fra di loro e con i coetanei gallesi, irlandesi, scozzesi e inglesi di famiglie medie. Sono tutti lì a Londra per studiare e per lavorare, trovando lì quello che a casa non c’è più o che, se in parte resiste, è riservato ad altri. Li ho conosciuti bene in questi anni: sono ragazzi fantastici, hanno imparato presto a vivere in una metropoli difficile, non hanno paura di niente e spesso emergono con successo nello studio e nei mille mestieri che affrontano e poi cambiano e poi magari riprendono. Nei pub e nei ristoranti, sulle bancarelle di Borough Market e nelle caffetterie del centro, nelle agenzie turistiche e nelle ditte di traslochi, fra i reparti lussuosi di Harrods e nei negozietti di Camden Town, come stagisti nelle gallerie fotografiche o creative sitter per le famiglie dei quartieri alti. Accettano turni di lavoro anche massacranti perché a Londra gli affitti sono pazzeschi, ma tengono duro perché si accorgono che ce la possono fare, a costruire quello che nelle nazioni di provenienza è solo un sogno: vivere fuori casa, mantenersi, sfidare la rassegnazione dei coetanei, progettare e potersi permettere viaggi in altre capitali, non dipendere dalla mamma e dal papà.
A Londra sono centinaia di migliaia e prima di arrivarci hanno tutti studiato: il tasso di scolarizzazione è altissimo, hanno partecipato ai progetti Erasmus, hanno vissuto in famiglie straniere grazie agli scambi Comenius, l’inglese l’avevano imparato prima ancora di trasferirsi a Londra e lo parlano con una sicurezza disarmante, sono iperconnessi, utenti esperti dei mezzi pubblici e privati grazie alle applicazioni sui cellulari che padroneggiano con facilità. Sono i figli migliori della vecchia Europa. E adesso scoprono di essere indesiderati.
C’è un posto a Londra, alla SOAS (School of Oriental and African Studies) cui si può accedere come visitatori, se presentati da uno studente iscritto: è il bar, interamente autogestito dall’associazione degli studenti. Un locale coloratissimo, vero punto d’incontro di ragazzi provenienti dai cinque continenti. Sembra una taverna studentesca degli anni ’70, le pareti sono tappezzate di slogan, inserzioni, annunci, proclami, la musica e gli arredi vintage rimandano alle memorie psichedeliche di anni lontani, i prezzi di cibo e bevande sono calmierati, l’atmosfera rilassata e accogliente. A posti così si fa in fretta ad affezionarsi. Ricordo con quanto orgoglio mi ci aveva accompagnato mia figlia, la prima volta. Come se m’invitasse a casa sua. E adesso?
Il mio timore, oggi, è che le lacrime rabbiose cui prima accennavo possano trasformarsi in qualcos’altro, come succede quando ti rendi conto che il dolore e la delusione non passeranno facilmente e che non si è trattato di uno sbaglio. Come succede, insomma, quando ti accorgi di un tradimento imperdonabile.
Speravo che ai nostri figli fosse risparmiata l’esperienza ben conosciuta da molti genitori, quella di sentirsi sconfitti e in minoranza. La cosa grave, la cosa più grave, è che oggi non si tratta più di patetiche ragioni politiche o ideologiche: quello che potrebbe fare più male sarà scoprirsi minoranza per ragioni demografiche. Perché sono stati i vecchi a decidere la Brexit, sono stati i genitori e i nonni degli amici gallesi e inglesi delle mie figlie a votare Leave. Vecchi come noi, come i nostri anziani vicini di casa, impauriti da tutto e da tutti, pessimisti e spaventati dal futuro e nostalgici di paesi e giardini che non esistono più e che di sicuro non assomiglieranno mai più a quelli di una volta.
Non facciamoci illusioni: se si fosse votato in Italia (o in Francia o in Spagna), secondo voi, come sarebbe andata?