Della remissione e dell’impeto
È visibilmente emozionata Licia Lanera davanti agli spettatori del suo debutto all’Arena del Sole di Bologna con Love Me, due scene da Antonio Tarantino, nuova produzione di Ert. Al suo fianco sta, immobile, statuario, Suleiman Osuman: “un rifugiato politico e non un attore” lo dichiara l’attrice barese. Sembra il “negro” che guarda il nostro colonialismo o neocolonialismo, la nostra “cultura bianca”, direbbe Jean Genet. Il capro espiatorio, o il testimone del nostro olocausto.
Forse l’attrice l’imbarazzo lo recita: d’altra parte fingere è il suo mestiere. Licia Lanera è nota per essere donna di scena debordante, sopra le righe, appassionata, dotata di una comunicativa trascinante e travolgente, perfino (volutamente) sguaiata e feroce. Qui gioca tutto su una remissione quasi imbarazzata e pudica. Che ruolo avrà Osuman? Sarà “il corpo del reato”, in dialettica col corpo dell’attore, annuncia. Sembra voler rimandare il momento dell’inizio.
Finalmente si incolla, a vista, due baffetti e dice: proviamo a tenere vivi i morti; Tarantino cerchiamo di farlo friggere con i nostri corpi. E comincia, con una recitazione tutta a sottrarre, giocando lentamente con le parole, flemmatica come un travet. Uno che sta in auto con la fidanzata e al semaforo vede apparire la minaccia di un gruppo di neri, che vogliono pulire i vetri dell’auto, che gli sembrano voler dire: “Dài stronzetto caccia uno sporco mezzo dollaro / Che ti ripulisco l'anima / Ti detergo la tua merdosa coscienza”. Lui, pauroso, ha un moto di ribellione, abbassa il finestrino e prende per il bavero uno di quei “bestioni enormi”, molto più alto e grosso di lui: quello si affloscia sull’auto e inizia a piangere.
Dimenticavo: all’inizio, e poi avanti nel testo, la voce narrante descrive il luogo, New York o Sarajevo o Kabul, “una città degradata violenta scalcinata / Una merda di città (…)”.
Teniamo vivi i morti, aveva detto. Con quello strascicato, largo parlare dalla cadenza alquanto piemontese, con quei baffetti mi pare, a un certo punto, di vedere l’autore, Antonio Tarantino, (1938-2020), pittore, scrittore di teatro, vincitore del premio Riccione, un grande irregolare, frequentatore dei bar di San Salvario a Torino, amante nei suoi testi dell’accumulo, del kitsch, scarnificatore di stereotipi, indagatore paradossale della storia e della politica spesso rivestite dei lustrini del varietà. Lanera lo interpreta dandoci un ritratto docile, familiare, dei nostri pregiudizi quotidiani, delle paure che ci agitano, della chiusura all’altro.
Nel racconto gli occhi del lavavetri si riempiono di pianto, e sembra quasi di vederli quegli occhi, mentre dietro alla macchina ferma iniziano a infuriare i clacson, finché non scende da un’auto “Uno tutto bardato alla Enfribogart / Con su l'impermeabile bianco con cintura e spalline / Un Enfribogart soltanto un po' più grosso / Un Enfribogart quasi come un Perrimeson / Mi vien vicino e mi fa / ‘Ma lei da dove cazzo arriva? / Si può sapere da dove arriva uno come lei? / Ma non lo sa che non ci si ferma ai semafori? / Che per nessuna ragione al mondo ci si deve fermare ai semafori? / Ma che vuol per caso fermare New York o Sarajevo? / Ma è scemo lei? / Vuol forse bloccare il mondo /A un semaforo?’”. Con finale a sorpresa.
Ma intanto Licia, l’attrice, ha dato il meglio di sé in una recitazione sempre trattenuta che scava il nostro terribile presente, i nostri pregiudizi. Si mantiene sotto le righe, quando avrebbe potuto giocare sulle variazioni, creando una sismografia agitata delle situazioni. Così facendo, rallentando, non concedendosi picchi drammatici e melodrammatici, ci mette in evidenza, come davanti a uno zoom. Non si concede neppure sbalzi troppo ridicoli o grotteschi, e sarebbe una fantastica attrice comica, simile, con quei baffetti, anche un po’ all’Alberto Sordi di Un borghese piccolo piccolo. E qui, nella prima parte della serata, un inedito di Tarantino intitolato La scena, sta la remissione, come misura, scelta per evidenziare, per ingrandire i contrasti.
L’impeto verrà nella seconda sezione dello spettacolo, nel secondo testo, Medea. Come nel lavoro in cui è solo regista, Con la carabina di Pauline Peyrade, con Danilo Giuva e Ermelinda Nasuto, finalista al premio Ubu per la migliore regia e come migliore testo straniero. Là, intorno a un tavolo con sopra una ruota panoramica di luna park giocattolo coloratissima, si mostra un rapporto tra un uomo e una ragazza dipanarsi in un’apparente normalità, per rivelarsi uno stupro di lei giovanissima e diventare alla fine una violenta vendetta contro l’uomo. L’impeto, contro l’ingiustizia. Di Medea dirò tra poco, dopo un piccolo viaggio in altri due spettacoli visti in questi affollati giorni di stagione teatrale autunnale.
Altra remissione quella di Galileo Galilei, che si arrende all’Inquisizione e abiura. Ripercorre il caso dello scienziato, riportandolo ai temi del rapporto tra scienza, tecnologia, natura e esistenza umana, uno spettacolo firmato da due registi e due drammaturghi, con ampi stralci da opere dello stesso Galilei nel prologo. Processo Galileo, con la direzione di Carmelo Rifici e Andrea De Rosa, produzione Lac di Lugano, Ert e Teatro Piemonte Europa, visto allo Storchi di Modena, si ispira nell’impianto di Daniele Spanò a Brecht, con pedane disseminate nello spazio scenico, lavagne pendenti per dimostrazioni e calcoli, plafoniere a led che rendono chiara l’azione (con ombreggiature, sempre a cura di Pasquale Mari, che avanzano a mano a mano che si punta il dito contro le derive della scienza).
I testi della seconda e terza parte sono affidati a due drammaturghi di forte spessore, rispettivamente Angela Demattè e Fabrizio Sinisi. E qui il caso dello scienziato, interpretato con rigore analitico da Luca Lazzareschi (con il controcanto di Milvia Marigliano e di quattro giovani interpreti) acquista impeto, diventa un trascinante viaggio nel conflitto tra scienza, natura e uomo, con la coscienza dolorante, calata nella vicenda biografica di una figlia che assiste alla morte della madre, che gli esiti estremi della ricerca, la virtualità come il lavoro sull’atomo, ci hanno dato qualcosa, ma hanno anche tolto molto a una vita incapace ormai di guardare la terra, l’alternarsi delle stagioni, la vita comune, la morte.
Non ci sono però unilateralità in queste nuove scritture e neppure tesi preconfezionate. L’ultima parte fa saltare i nessi temporali e diventa un invito alla riflessione con i mezzi della poesia. Un rivoluzionario racconta con furia percussiva le lotte sviluppatesi nei secoli contro le macchine che opprimono l’uomo, cadendo ripetutamente in uno specchio di terra, come un grave galileiano; una ragazza enumera le infinite costellazioni che lo sguardo galileiano ha rivelato, creando un senso di vertigine; una donna ricorda l’apparizione di una nuova stella annunciata dallo scienziato e come le sue osservazioni abbiano rovesciato ogni antica certezza.
Il finale trascina nei problemi della scienza con la scrittura ritmica, insieme cantante e sincopata, melodiosa e incrinata da continue, interne fratture, di Fabrizio Sinisi, una delle migliori penne per la scena. Per esempio, in questi versi (la sua migliore scrittura è in versi), affidati al carisma (dubbioso) di Galileo-Lazzareschi: “Davanti ai nostri occhi non succede niente. / Gli eventi sono nascosti / giù, nel profondo, / al di là dell’apparenza: è lì / che accadono gli eventi / ma voi non li vedete / se voi non imparate a intender la lingua. / L’elettrone, come un demone o un dio, / appare e scompare, / ovunque, in ogni luogo, / lampeggia nelle cose / circondato dal vuoto / come un’apparizione: (…)”.
Sembrerebbe tutto in remissione, nonostante il titolo, Libidine Violenta di Enzo Moscato, visto al Metastasio di Prato, un riadattamento da Recidiva del 1995. Moscato sta per quasi tutto lo spettacolo immobile in alto su una poltrona scrittorio, circondato da fogli appesi, che dilagano anche nella parte bassa della scena. Sotto quella specie di trono appaiono coloratissimi personaggi ispirati al fantasmagorico camp di Copi (Raul Damonte, 1939-1987), lo scrittore e disegnatore franco-argentino che ha raccontato in commedia la sua prossima morte per Aids in Una visita inopportuna. Ciarlano, cantano, telefonano, escono da un frigo, totem alla Copi. La loro energia, i loro impeti, sembrano però piuttosto indirizzarsi verso un’entropia, una stasi incombente, la crisi dello scrittore che sovrasta, sovrano, che vede ridursi le sue immaginazioni a carta straccia, in un bianco funebre che punteggia i colori fin troppo scoppiettanti della scena, che si chiuderà intorno a una vasca da bagno, con il suicido-omicidio del pupazzo dell’autore, pronti tutti a ricominciare ancora di nuovo la sarabanda dell’esaurimento di una fantasia che gira su sé stessa.
La Medea di Tarantino rivissuta da Licia Lanera sta in una stanza scura, circondata da tre pannelli che riveleranno due specchi. Non ha figli, non ha marito, non ha parenti dichiara, a differenza del personaggio del mito e di Euripide. Quindi i figli non può averli uccisi. Capiamo anche che sta in una cella, prigioniera, guardata sempre da Suleiman, seduto su una scassata poltrona. Luci rosse prendono il posto, all’inizio della pièce, di quelle diffuse di La scena. Vincent Longuemare disegna zone di buio, riflessi simili a occhi che scrutano l’attrice e lo spettatore quando i pannelli diventano specchi. “Sono mica scema di fare una tragedia: / Per un padre o un marito” dice, ripete, varia. Non sono straniera – non ho bisogno del permesso di soggiorno, continua, sempre trattenuta, in remissione, si sente, di una tempesta che urge sotto la crosta di parole controllate, autoassolutorie, che negano il reato.
Quando gira il secondo specchio, non lo porta subito perfettamente perpendicolare al piano scenico, così che sembra sospesa in aria, sollevata dal pavimento, instabile, volante. “Povere madri / Altro che poveri figli” la sentiamo dire ancora, e “Che una magari / Fa due figli / E quando son grandi / La riempiono di botte / Perché vogliono i soldi: / Per il telefonino / Per il motorino / Che se di mezzo c'è / La dose / Allora quelli staccano / Anche i tubi di piombo / Dell'impianto dell'acqua / Smontano la casa / E si vendono pure il boiler (…)”.
La furia cresce, piano prima, mentre in lontananza si sentono voci di bambini (il sonoro, incombente a distanza è di Tommaso Qzerty Danisi). Il potere governa tutto, ci dice Tarantino, e per gli stranieri, per le straniere, sono “cazzi acidi”, “A una nuova del posto / Può capitare di tutto: / Di solito un magnaccia / Che ti sfonda davanti e di dietro / Ti riempie di botte / E ti manda a battere / Altro che guerra / Che per le donne / È sempre guerra (…)”. La vita, buttata addosso dagli dèi, è uno straccio avvelenato, come la veste incantata di Medea che in Euripide uccide la nuova moglie di Giasone che l’aveva abbandonata. La rabbia ormai è al culmine e la remissione di tutta la pièce, la misura precaria, ribollente di infernali umori, esplode contro lo specchio. Il muro della prigione che rimanda l’immagine dell’omicida, dell’infanticida reclusa, finisce in frantumi, spaccato con una mazza. Una bomba, e una richiesta di pace finale: “Nessuno più mi ama: né padre, né marito, né fratello, o figli. / Ma senza l’amore non si può vivere. Che guaio”. Suleiman è in piedi, alto, con gli occhi di chi ascolta, di chi accoglie: lei gli salta addosso, “I love you”, e torna indietro, salta di nuovo, “I love you”, e ancora ripete la scena varie volte, fino al buio
Love Me si replica all’Arena del Sole di Bologna, sala Thierry Salmon, fino all’11 dicembre.
Le foto di Love Me sono di Manuela Giusto.