Speciale
Dimmi a che cosa giochi e ti dirò chi sei
Marco Scardigli e Maurizio Stangalino, uno scrittore e uno psichiatra infantile, si sono interrogati su un tema sempre di grave attualità: giocare è una cosa seria? Il libro si intitola così senza il punto interrogativo e suona come un grido gentile in difesa del gioco libero e di fantasia e, soprattutto, è un invito a giocare. È la magia di questo libro: coinvolge nei giochi degli autori come se si fossi lì: dietro il divano, sotto un tavolo, o meglio in una base spaziale! Un libro che è un “tappeto volante” e che, al tempo stesso, aiuta a riflettere sul senso del giocare, spaziando dalla letteratura per ragazzi ai classici per adulti, dalla fisica all’arte, dalla filosofia alla psicologia. Come nel gioco di fantasia avvengono magie.
Per poter trasfigurare il mondo abbiamo bisogno di attingere a quella che gli autori chiamano “la miniera di immagini”, la stessa a cui ha attinto Bastian, il protagonista della Storia Infinita – un luogo dove si trovano tutti i sogni dimenticati e le immagini che popolano la profondità della nostra mente – per far rivivere Fantasia.
In ciascuno di noi, come nella Storia Infinita, esiste questa “miniera di immagini”, che diventeranno quella che gli autori chiamano “la scatola di montaggio”, che ci porteremo per sempre nella vita.
Tutti i giochi dell’infanzia hanno in comune questa “scatola di montaggio”, sono giochi che hanno come principale elemento la fantasia. Hirsh-Pasek in Giocattoli da ripensare scrive: “Io dico sempre che i migliori giocattoli sono al 90 per cento bambino e al 10 per cento giocattolo (…) Se il giocattolo è il 90 per cento e il bambino il 10, allora è un problema”. I giochi dell’infanzia di cui ci narrano gli autori erano al 90 per cento bambino. Oggi i giochi realistici, educativi e digitali non sono più così: sono al 10 per cento bambino!
Il racconto dei giochi della loro infanzia che gli autori ci regalano ci rende anche tristemente consapevoli del fatto che oggi i bambini non sanno più giocare, non sanno più cosa sia il gioco di fantasia, dove un bastone può diventare un cavallo, e molte altre cose. Sono rapiti dentro i dispositivi digitali senza i quali dicono di annoiarsi – ipnotizzati – guardano video e tutorial per fare qualsiasi cosa. Come scrive Mariangela Gualtieri in Sermone ai cuccioli della mia specie, oggi i nostri bambini sono rotti, scarichi, vuoti, vecchi, sazi, spaventati e soli. Bisogna non solo che gli adulti ritrovino il bambino dentro di loro, ma anche permettere ai bambini di essere bambini. Quando una trentina d’anni fa ho iniziato la mia pratica clinica, la differenza evidente tra bambini e adulti era che i primi sapevano giocare, disegnare mentre gli adulti non ne erano più capaci. Oggi questa differenza non c’è più. Dobbiamo preoccuparci? Saremo ancora capaci di attingere alla “miniera delle immagini”, come Bastian, per immaginare il mondo?
Il libro respira dell’infanzia degli autori, condivisa giocando, e leggendoli mi tornavano alla mente i miei giochi da bambina, da cui non potevo essere distolta, nemmeno per mangiare. Il gioco è una cosa seria. Quello che emerge da questo libro, e fa riflettere, è che i giochi che facciamo da piccoli contribuiscono a costruire l’essere umano che saremo da adulti. In altre parole: “dimmi a che cosa giochi, e ti dirò chi sei” o ancora di più: “dimmi che gioco fai e ti dirò chi diventerai”!
Davvero giochi diversi producono umani diversi? “Cambiando i giochi, cambierà necessariamente l’adulto futuro: come? In che misura?”, si chiedono gli autori.
L’esperienza del giocare ci porta in un mondo “a cavalcioni” tra il mondo concreto e quello della fantasia, quello che Winnicott ha chiamato spazio transizionale. Il ruolo della fantasia è fondamentale per stare in equilibrio tra questi due mondi. Il bambino di Huizinga, citato dagli autori, è consapevole di essere un bambino ma nello stesso tempo, nel gioco, è una locomotiva, e quando dice al padre “non devi baciare la locomotiva, se no i vagoni credono che non sia una cosa seria”, cerca di far capire al padre, con parole sue, che esistono “due mondi posti in un equilibrio che si colloca un gradino più su della magia”. Lo stesso succede quando un bambino ti prepara una tortina fatta di terra, decorata con erbe e fiori, e te la offre da mangiare. Se fai finta di mangiarla, dicendo che è squisita, il piccolo è tutto contento; se invece non “fai come se”, ma la metti in bocca, il bambino ti ferma gridando un po’scandalizzato perché così rovini il gioco. Perché non stai al gioco del “facciamo che”! Non stai a “cavalcioni” tra due mondi come ti sta chiedendo di fare, insieme a lui.
La capacità di coltivare quel territorio indeterminato tra realtà e fantasia è la madre di tutti i futuri parti mentali. Immaginare è altrettanto fondamentale dello sviluppo di quelle competenze che ci permetteranno di lavorare e partecipare alla vita sociale, ma per immaginare dobbiamo mantenere vivo il bambino che siamo stati.
Lo spazio dietro il divano, la tana – un luogo in cui ci sentiamo al sicuro – è uno “spazio-me”, importante, in cui alleniamo la nostra immaginazione, che nel corso della vita prenderà forme diverse. Se, come ha detto Einstein, la vera culla dell’arte e della scienza è il mistero, il gioco ci apre a questa dimensione: l’invisibile. Reale non è solo ciò che vediamo.
La cosa straordinaria del gioco infatti è quello scatto mentale – generato dall’immaginazione – che permette di intuire una possibilità: quando vedo per esempio nella massa di mattoncini del lego, o nel mucchio di soldatini o di oggetti diversi tra loro, una possibilità di gioco che prima non c’era. Se si riesce a trovare una forma, e a dare un significato al caos, allora la soddisfazione è grande. Un po' come quando collegando alcuni puntini distanti tra loro, in un mare di puntini, emerge una figura.
Questa meraviglia del gioco è possibile solo all’interno della narrazione di una storia, che può cambiare ogni volta. Quando poi due bambini giocano insieme, la narrazione non è più in testa a un solo bambino, ma diventa una fantasia condivisa, e lo spunto creativo cresce e si modifica nel rapporto tra due amici: uno propone e l’altro suggerisce uno sviluppo. È il potere del “facciamo che”. Facciamo che i cattivi non sono proprio cattivi. Facciamo che il comandante delle guardie è uno bravo. Facciamo che sei tu il capo delle guardie. Così il gioco si trasforma, e nessuno dei due bambini sa prima dove li avrebbe portati la magia del facciamo che. Sono due fantasie che collaborano e si nutrono reciprocamente e il risultato è imprevedibile. Gli autori mettono tutto questo in relazione alla metodologia del brainstorming nel mondo del lavoro, che in fondo, dicono, non è altro che un’applicazione del facciamo che applicato all’età adulta.
Ma quando le menti di due bambini in qualche modo si allineano e compartecipano alla stessa fantasia, avviene qualcosa che sarà molto importante per la vita adulta. Si chiama empatia: cioè “la capacità di sintonizzarsi sugli stati interni di un’altra persona”. Le neuroscienze ci hanno spiegato che questo avviene per una popolazione di neuroni chiamate i neuroni specchio. Giocare rinforza la capacità di entrare in sintonia con gli altri, e con gli autori, possiamo dire che è una sorta di ginnastica sociale. L’empatia non è una competenza ereditata, è dunque necessario favorire le esperienze che la coltivano, come il gioco e la lettura, e tutto quello che favorisce l’immaginazione. Il codice digitale la penalizza, perché espone a un linguaggio percettivo che è più povero di significato, in quanto immediato e puntuale, rispetto al linguaggio concettuale.
Ma torniamo alla magia della porta che si chiude, e del mondo che si apre dietro quella porta. Per giocare, dicono gli autori, bisogna chiudere una porta, perché per giocare ci vuole calma concentrazione e riservatezza. Gli autori sottolineano che “la porta è un confine che apre e chiude i passaggi: banalmente tra una stanza e l’altra o fra dentro e fuori; ma anche fra stati della mente o fra mondi… soglie oltre le quali c’è il mistero, il dramma, il sogno”.
Come non ricordare a questo proposito i bambini delle avventure di Narnia che vanno in un mondo fantastico superando la porta di un armadio, oppure Alice che varca una porticina minuscola nella tana del coniglio per accedere al Paese delle Meraviglie. I latini dicevano giustamente porta itineris dicitur longissima esse: la porta è la parte più lunga del viaggio. Il passaggio è il punto decisivo, e forse il più difficile, anche nella vita, non solo nel gioco. Ma senza l’attraversamento della porta – della soglia – non accade niente. “La porta, dunque, è un simbolo eloquente: tanto nella letteratura, quanto nell’arte, quanto nel gioco del bambino. Varcare una porta significa non solo entrare in un’altra realtà… ma anche cambiare se stessi.” Da una parte della porta c’è un bambino che ha mangiato, è stato a scuola, è stato nella vita reale, chiusa la porta si trasforma in un astronauta, in un pompiere, in una fata: “fuori resta il mondo reale dentro si apre il mondo dell’immaginazione”. Quello che è straordinario, e che si ripete ogni volta, è che non appena modifico la stanza nella mente anche la stanza fuori si trasforma. “Io sto nella stanza e la stanza sta dentro di me: questo paradosso magico è il grande teatro della mente”.
I giochi sono vivi per un bambino, perché ci mette dentro parti di sé. C’è chi ha usato i soldatini schierati per difendersi e affrontare il buio della notte, chi le bambole o i peluche, e spesso l’oggetto con qualche imperfezione – una cicatrice, una mano rotta, un occhio chiuso – diventava quello speciale. Del resto, ci ricordano gli autori, la letteratura parla di giocattoli che “prendono vita”: dallo Schiaccianoci al Soldatino di piombo, fino a Toy Story.
Leggendoli si comprende lo scambio prezioso che si crea tra bambino e giocattolo: Robin e l’orsetto Winny-Pooh, Calvin e la tigre Hobbes. Gli autori citano anche Canetti in Auto da fé, quando chiama i suoi amici libri in aiuto, per dire che in fondo si tratta dello stesso gioco. Ma perché sono così importanti questi compagni di gioco da rimanere scolpiti nella memoria? Perché ci hanno aiutato nelle difficoltà, e hanno condiviso momenti importanti con noi. Ma soprattutto il pupazzo – dando vita al nostro mondo interiore – consente al bambino di “agire invece di subire”. Il pupazzo, l’oggetto transizionale, come oggetto-me che sta con noi, e ci accompagna nel mondo.
Ma perché tutto questo avvenga c’è bisogno della noia. Nei ricordi d’infanzia dicono gli autori “c’è una presenza grigia, se il gioco è stato il cavaliere, la noia è stata la scudiera fedele e indesiderata “. Noi adulti combattiamo la noia in tutti i modi riempiendo il tempo di cose da fare, ma c’è una ricchezza nascosta nel tempo vuoto: la possibilità di costruire qualcosa ricorrendo alla fantasia. Lo stesso vale per un bambino che si sta annoiando. Bisogna sapere usare la noia, non lasciarsi dominare, ma nemmeno eliminarla. Molte fiabe e avventure iniziano con il protagonista che cerca di sfuggire alla noia e si avvia così un processo di immaginazione: Alice, per esempio, si annoia in un caldo pomeriggio. Anche Winnicott concorda sulla necessità inevitabile di attraversare i momenti di pause – che chiama doldrums – momenti di bonaccia, di mare senza vento.
In un tempo in cui — come ci insegna Calvino nelle Lezioni americane — si sta di fatto verificando la perdita di “(...) una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme (...) di pensare per immagini”, il giocare permette di coltivare questa capacità, perché giocare è un’immagine in azione. I bambini davanti a uno schermo – che fa da baby sitter – vengono travolti da immagini spazzatura propinate dai social, e fanno giochi e passatempi pensati per riempire il vuoto – per combattere la noia – che sono ripetitivi, ma soprattutto mentalmente poco impegnativi. Agli autori viene in mente un parallelo alimentare rispetto a queste attività: sono come una riserva infinita di cibo spazzatura che alimenta senza nutrire, e soprattutto toglie lo stimolo di sfamarsi in modo più intelligente.
Un altro aspetto importante del gioco di fantasia, di cui parlano gli autori, sono i piccoli intoppi, quello che non funziona, perché è proprio quello che nel gioco non è perfetto a stimolare l’immaginazione, e a permettere alla fantasia di trasformare la realtà quando è sgradevole. E questo, sottolineano gli autori, è molto importante per la vita adulta: “il buon tempo passato giocando lo renderà sicuro di sé e della propria immaginazione e capace di sopportare piccoli incidenti e imperfezioni”. Quindi il gioco ci rende capaci di affrontare le cose quando non vanno come pensavamo o speravamo. Giocando possiamo contribuire alla ri-creazione del mondo psichico, e se questa possibilità viene a mancare, la fantasia viene sostituita con l’azione impulsiva ed espulsiva. Non è un caso che il passaggio a comportamenti delinquenziali corrisponda per molti alla rinuncia ai giochi e allo sport. Chi ha comportamenti devianti ha sostituito alla fantasia l’azione: agisce per non pensare. Imparare a giocare ha dunque un grande valore politico e sociale, perché attraverso il gioco è possibile ritirare i propri agiti proiettivi.
Giocando ci si prepara alla vita. In questo contesto il Gioco della Sabbia, ideato da Dora Kalff, è esemplare perché è uno spazio aperto alla fantasia che cura attraverso l’esperienza del gioco. Il paziente non solo oggettiva e riflette sui suoi conflitti, ma esplora una soluzione creativa, è libero di creare sotto lo sguardo dell’analista.
Sembra dunque fondamentale trovare un modo di giocare che insegni a sognare, e da cui poter attingere energie che alimentino e diano senso all’esistenza. Se non si riesce a guardare in modo creativo alla vita ci si troverà costretti a cercare continuamente all’esterno la propria gratificazione e realizzazione personale nella dipendenza anestetica dal lavoro, dai consumi e da tutto quello che ci farà credere di riempire questo vuoto. Winnicott, in Gioco e Realtà, scrive che “è nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità (…) Di essere pienamente vivo”. Il gioco infatti coinvolge corpo, mente e sentire, e per questo è terapeutico, e per questo forse – come ha detto il filosofo Schiller – l’uomo è tale solo quando gioca.
Il gioco infatti – come play – è una delle manifestazioni dell’immaginazione capace anche di superare la scissione mente-corpo, su cui si fonda invece il game, i giochi digitali. Il gioco – come play – è ibrido, è abitare la soglia: tiene insieme realtà e fantasia, mondo interno ed esterno. Sta, per riprendere l’immagine usata, “a cavalcioni”. Il gioco aiuta a ritrovare la capacità di stare al mondo in modo fluido, l’agilità, perché ci chiede di cambiare il nostro sguardo, di guardare in altro modo, di sguardare. Il gioco lascia emergere e riconfigura; è paradosso e metafora, e consente di superare le leggi della necessità. Osserva Cristina Campo: “La caparbia, inesausta lezione delle fiabe è dunque la vittoria sulla legge di necessità, il passaggio costante a un nuovo ordine di rapporti”. Il gioco commuove: muove insieme. In analisi a volte accade che il paziente abbia compreso tutto dopo la risposta intelligente dell’analista, ma non sia cambiato niente, perché genera cambiamento solo quello che commuove. Come recita il Vangelo apocrifo di Tommaso: “Colui che cerca non smetta di cercare finché non avrà trovato, e quando avrà trovato sarà turbato, e quando sarà turbato si meraviglierà, e regnerà sul tutto”. In altre parole, non chi ha compreso tutto guarirà, ma chi si è commosso. Giochiamo!
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