Coop 70. Valori in scatola / Due forchettate di pasta
È il 26 luglio 1860. Camillo Benso conte di Cavour così scrive in una lettera un po’ in codice e un po’ in ironia: “Nous seconderons pour ce qui regarde le continent, puisque les macaroni ne sont encore cuits, mais quant aux oranges, qui sont déjà sur notre table, nous sommes bien décidés à les manger”. Il conte che sta cercando di portare avanti l’operazione “Unità d’Italia”, comunica in francese che non è ancora arrivato il momento di tentare l’annessione di Napoli (les macaroni), capitale del Regno delle due Sicilie, ma che i tempi sono invece più che maturi per l’impresa garibaldina in Sicilia (les oranges).
Come si vede, uno degli artefici dell’unità politica della penisola ragionava (in francese!) in termini alimentari più che pittoreschi. Analizzato meglio, il suo ragionamento lascia trasparire una visione precisa del Bel Paese d’allora: una Italia in frammenti, anche dal punto di vista alimentare. Chi riporta la citazione è Alfredo Panzini, autore, un secolo dopo, nel 1963, di un Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni. La citazione completa corrisponde alla voce “Maccheroni”: “I maccheroni sono comunissimi a Napoli e costituiscono, con le verdure, l’alimento preferito dal popolo, così che spesso il nome suona come equivalente di napoletano”.
Ancora cento anni dopo Cavour, il termine maccheroni sembrava più gergale che italiano, ma era segno di “modernità” annetterlo ufficialmente nella lingua. Dalla lettera di Cavour in poi si compirà quell’opera di modernizzazione della penisola che dal punto di vista politico vedrà sorgere lo stato unitario e dal punto di vista culturale corrisponderà ad una lenta costruzione di punti di riferimento comuni per il mosaico frammentato che era stata la penisola fino a quel momento. Un puzzle da ricostruire o forse da inventare a partire da nuove basi unificanti.
Parte di questo lavoro di ricomposizione e di invenzione dell’Italia e dell’italianità sarà l’invenzione di un cibo comune a tutti gli italiani. Infatti, e questo Cavour lo sapeva, l’Italia tutta non mangiava pasta nel 1860 e sarà solo dopo qualche decennio che la pasta (insieme alla pizza, anche se con caratteristiche simboliche diverse) diventerà il logo, l’immagine coordinata, la bandiera e lo stereotipo in base al quale riconoscere gli italiani.
La pasta prima degli italiani
Ma prima che ciò accada il quadro è abbastanza diverso. Qual era la situazione alimentare italiana nella seconda metà dell’800?
Trent’anni dopo la lettera di Cavour un’Inchiesta agraria riferiva ai membri del nuovo Parlamento nazionale quali fossero le condizioni di alcune province rurali. A fine dell’Ottocento la pasta non vi risultava essere uno dei cibi più diffusi. Negli stessi anni nel circondario di Gaeta, zona non particolarmente depressa, si legge nella stessa Inchiesta, “raramente sono usate le paste e molto più raramente la carne”. Nella provincia di Trapani ne viene registrato il consumo solo nei giorni di festa.
Cosa mangiavano a quel tempo gli italiani, che non dimentichiamolo erano per lo più italiani “di campagna”?
Cose ben diverse da zona a zona e perfino al Sud cose diverse dalla pasta. “Polente, zuppe, minestre del paiuolo, lente e lunghe, hanno costituito da sempre l’alimento dei contadini, l’eterna polenta bianchiccia o cinerina di cereali inferiori (come quella bigia di grano saraceno) che soltanto nel corso del XVIII secolo verrà a poco a poco soppiantata dalla polenta gialla di formentone”.
Il tutto era accompagnato dal pane, l’elemento primario, essenziale, fondamentale fatto con tutte le farine possibili, e in periodi di magra e di carestia fatto con succedanei che finivano per essere erbe, radici, foglie. Solo nel Sud e nemmeno dappertutto si trovava la farina di grano.
Nel 1877, Sidney Sonnino, inviato a redigere una inchiesta agraria sulle condizioni dei contadini del Sud, dichiara: “Il villano in Sicilia mangia pane di farina di grano, e salvo i casi di miseria, si nutre a sufficienza, mentre il contadino lombardo mangia quasi esclusivamente granoturco e soffre di fame fisiologica, anche quando abbia il corpo pieno”.
Emilio Sereni ricorda che la frammentazione era un fatto abbastanza antico se, alla fine del ‘600, il Fasano nel suo Tasso napoletano, elencava gli epiteti con cui venivano chiamati in base alle abitudini alimentari i vari popoli d’Italia, “mangiarape” i lombardi, “mazza marroni” gli abitanti dell’Appennino tosco–emiliano, “mangiafagioli” i cremonesi, “pane unto” gli abruzzesi, “cacafagioli” i fiorentini, “cacafoglie” o “mangiafoglie” i napoletani.
Massimo Montanari, nella sua storia dell’alimentazione in Europa, ricorda che fino al ‘600 la carne e le verdure erano uno dei cibi principali, anche se in quantità e qualità diverse, alla tavola dei ricchi e a quella dei poveri. Una svolta significativa si ha nel ‘600, quando l’Europa diventa più povera di carne, per la distruzione delle foreste e per l’affollamento demografico.
A questo punto le carni vengono sostituite dai cereali. Anche a Napoli si determina una situazione analoga.
Sono solo i siciliani nel XVI secolo a meritare l’epiteto “mangiamaccheroni”, e tale epiteto è indicativo di una situazione inconsueta e diversa dalla norma. A Napoli (dove sembra si sia cominciato ad importare pasta dalla Sicilia solo verso la fine del ‘400) un bando del 1509 proibiva la fabbricazione di “taralli, susamelli, ceppule, Maccarune, Trii vermicelli ne altra cosa de pasta excepto in caso di necessità de malati” nei periodi in cui “la farina saglie (di prezzo) per guerra, carestia e o per indisposizione della stagione”.
Il Basile nel suo Cunto de’ li cunti (Ecloga IV), che viene pubblicato postumo nel 1636 dice che
tre so le cose che la casa strudeno,
zeppole, pane caudo e maccarune
riferendosi a questi tre cibi come un genere voluttuario che poteva mandare in rovina una casa.
I napoletani mangiavano molta carne, ortaggi e cavolo. Ed erano denominati “mangiafoglie” a dispetto di Cavour, ma a sollazzo di Benedetto Croce che recuperò in una commedia del 1569 un succulento alterco tra un soldato siciliano, Fiacavento ed un gentiluomo napoletano, Cola Francisco che si insultano pesantemente dandosi rispettivamente del mangiamaccheroni e del mangiafoglie.
Insomma la pasta in Italia c’era, ma non era un cibo così diffuso e così a buon mercato. Era considerato una stranezza o un lusso. Massimo Montanari, nel volume sopradetto, introduce una distinzione che ci tornerà essenziale da questo momento in poi: quella tra pasta fresca e pasta secca. La prima, un semplice impasto di farina con acqua o uova, confezionato per uso domestico e da consumare subito, la seconda una pasta essiccata subito dopo la sua fabbricazione al fine di renderla conservabile nel tempo. “Il primo, dice ancora Montanari, è un uso alimentare antico, diffuso presso molte popolazioni dell’area mediterranea e di altre regioni del mondo (Cina). Assai più recente è l’origine della pasta secca, la cui invenzione si suole attribuire agli arabi, che avrebbero escogitato la tecnica dell’essicazione onde potersi rifornire di scorte alimentari durante gli spostamenti nel deserto”.
Qualcuno ha fatto osservare che la nozione o il termine stesso di pasta sembra essere assente dal mondo arabo (anche oggi per dire pasta si dice makkaroni). Ma è probabile che questa invenzione sia dovuta piuttosto agli arabi che si trovavano in Sicilia, se la presenza di pasta secca è testimoniata dal geografo Edrisi nel XII secolo. Una vera e propria piccola industria di pasta secca, di ittrija viene da lui localizzata nei pressi di Palermo, a Trabia. Edrisi dice : “Si fabbrica tanta pasta che se ne esporta da tutte le parti, nella Calabria e in altri paesi musulmani e cristiani; e se ne spediscono moltissimi carichi di navi”.
Ma già due secoli prima un lessicografo siriaco, Bar Alì, usa il termine itriya; “L’itriya è un manufatto di semola, che vien preparato come il tessuto del fabbricante di stuoie, e che viene poi seccato e cotto”.
Franco La Cecla, in La pasta e la pizza, Il Mulino 2002.
* * * *
Pasta, pomodori, olio. Tre prodotti chiave, tre icone della gastronomia italiana. Tre compagni di viaggio che troviamo spesso assieme, abbracciati e rimescolati in un piatto che rappresenta nel modo più semplice e profondo la nostra identità alimentare. Ma questi compagni non si conoscono da sempre. Per la verità, neppure da molto. Le loro storie sono intricate, si sono svolte in luoghi lontani e in tempi diversi, e hanno finito per incontrarsi dopo lunghe peripezie, frutto di scelte e di casualità. In questo incontro non c’è nulla di ovvio, nulla di scontato.
La presenza più antica è quella dell’olio, vero simbolo – assieme al pane e al vino – della civiltà mediterranea.
È attorno a questa triade che il mondo greco, e poi quello romano, disegnarono la propria identità culturale, fondata sull’idea dell’uomo «creatore», che non si limita a mangiare e bere quanto trova in natura, ma costruisce, inventa il suo cibo e la sua bevanda: in natura, pane e vino non esistono. Quanto alla terza invenzione, l’olio, dovremo precisare che gli antichi lo usarono, sì, per condire minestre e verdure, ma soprattutto lo pensarono come unguento del corpo, come cosmetico. «Cospargersi d’olio fuori, di vino dentro» erano, secondo i medici antichi, due segreti essenziali per la conservazione della salute.
Anche Greci e Romani sapevano impastare la farina con l’acqua e realizzare qualcosa di simile a ciò che oggi chiamiamo pasta. Ma nella loro cucina la pasta non c’era: fra le centinaia di ricette attribuite ad Apicio (il solo libro di cucina di età romana che ci sia arrivato integro) nessuna ha la pasta come protagonista, anche se ogni tanto compare, magari a pezzetti o sbriciolata, un ingrediente fra i tanti. Bisogna aspettare il Medioevo perché una vera «cultura della pasta» si affermi in Europa e, col tempo, soprattutto in Italia. Dapprima sono i ricettari di provenienza araba o ebraica a farle posto a tavola. Da quelle regioni medio-orientali si diffuse la pratica di seccare la pasta, che favoriva, oltre alla lunga conservazione, la commercializzazione del prodotto. Dalla Sicilia del XII secolo arriva la prima notizia di un’industria di pasta che esporta e vende in tutto il Mediterraneo, sia nelle regioni cristiane, sia in quelle islamiche. Da allora, la vocazione industriale del prodotto si affianca al suo uso domestico, mentre cominciano ad apparire, nei libri di cucina tre-quattrocenteschi, ricette di esperienza del quotidiano
maccheroni, vermicelli e compagnia. Poco più tardi, i ricettari rinascimentali dedicheranno alle «vivande di pasta» appositi capitoli: la pasta si è ormai conquistato uno spazio autonomo, è diventata un «genere» gastronomico. Nella prima metà del Seicento questo spazio si allarga, in qualche luogo (Napoli in primis) diviene preponderante, complice una crisi economica che rende sempre più difficile ai ceti popolari il reperimento di carne e verdura. Nasce qui lo stereotipo dell’italiano «mangiamaccheroni», che inizialmente riguarda solo i napoletani. Anche perché sono loro a inventare l’idea della pasta come piatto. Nel Medioevo e nel Rinascimento essa appariva piuttosto come contorno, ad accompagnare vivande di carne: esattamente come si continua a fare oggi in molti Paesi d’Oltralpe. In Italia, a Napoli e poi altrove, le cose cambiano: il resto scarseggia, la pasta tende a rimanere sola. E come si condisce? Fin dal Medioevo, l’accompagnamento è d’obbligo: burro e formaggio, eventualmente accompagnati da spezie, per chi può permettersele. Oppure lardo. Solo agli inizi dell’Ottocento compaiono sperimentazioni nuove, che cambieranno sapore e colore alla pasta. La salsa di pomodoro è suggerita come condimento, la prima volta, in un ricettario napoletano del 1839. È il terzo protagonista del nostro viaggio, partito dall’America nel Cinquecento.
Il pomodoro faticò parecchio ad arrivare sulla tavola degli europei. Vi riuscì davvero solo quando assunse una forma nota e conosciuta da secoli: quella – appunto – di una salsa, che si diceva «spagnola» perché lì, in Spagna, l’avevano provata per primi. Così la chiamano i ricettari italiani del Sei-Settecento, consigliandola per guarnire le carni. Più tardi arriva il fortunato abbinamento con la pasta. Nel corso dell’Ottocento questo diventerà vieppiù la regola, e Pellegrino Artusi alla fine del secolo lo promuoverà in modo definitivo. In quegli stessi decenni, gli emigranti italiani (soprattutto quelli del Sud) diffonderanno nel mondo la loro immagine di «mangiamaccheroni», che, a questo punto, diventa un cliché nazionale.
In questa pasta al pomodoro mancava ancora l’olio, conosciuto da secoli ma raro, costoso, prezioso. Usato in cucina quasi solo nei giorni di «magro» (seguendo le regole del calendario liturgico) come alternativa ai grassi animali, proibiti in quei giorni. Fino al XX secolo, i condimenti più consueti della pasta restarono il burro (concesso anche nei giorni di osservanza meno stretta) o il più popolare lardo. La citata ricetta napoletana del 1839 condisce la pasta con lo strutto...
Il successo dell’olio, negli ultimi decenni del Novecento, è legato non solo alla comparsa di un nuovo modello dietetico che siamo soliti chiamare «mediterraneo», ma anche alla moltiplicazione delle aziende produttrici, che, in tutta Italia, al Nord come al Sud, rendono oggi possibile il reperimento del prodotto a prezzi accessibili. È una conquista recente, presto assunta a nuovo paradigma identitario della cucina nazionale.
Pasta, pomodoro, olio. Storie antiche e recenti che si incrociano. Tempi e luoghi diversi. Usi alimentari che si rincorrono e mutano nel tempo. Identità in costante evoluzione. Simboli, oggi, di un modello gastronomico «italiano» che infine si è radicato nell’esperienza del quotidiano a cui è dedicata questa sezione della mostra. Fino a quando durerà questa esperienza? Finché qualcuno, come Coop o come chiunque di noi, si occuperà di preservarla e presidiarla come parte essenziale della propria vita.
Massimo Montanari nel catalogo della mostra Coop 70. Valori in scatola (16 nov 2018 - 13 gen 2019). Palazzo della Triennale. Ingresso libero.