Macchine
Quella della macchina è stata una delle due grandi metafore dell’opera d’arte nel secondo dopoguerra. (L’altra è quella del corpo, dell’organismo vivente). L’opera come macchina produttrice di senso, è un’immagine cara allo strutturalismo e alla semiotica: macchina il testo letterario (la “macchina pigra” di cui parla Eco in Opera aperta), ma anche, per estensione, l’opera d’arte visiva, il quadro, la scultura. Quest’ultima, a sua volta, riannodando i fili delle avanguardie storiche, dal Futurismo al Costruttivismo, nel corso degli anni Cinquanta si trasforma in macchina vera e propria, congegno con parti mobili o in movimento. È la grande stagione dell’arte cinetica, dagli automi sferraglianti di Tinguely ai dispositivi raziocinanti e tecnocratici dei vari collettivi di artisti europei. Un paio fra questi ultimi sono italiani: il Gruppo N di Padova, il Gruppo T di Milano. Le città di provenienza, trattandosi di ricerche fra arte e tecnologia, sono tutt’altro che indifferenti: dietro la geografia artistica, si intravede la geografia economica del boom di quegli anni.
Nei decenni successivi, per molte ragioni, l’idea di scultura-macchina è rimasta marginale nella produzione artistica. (Le eccezioni sono appunto tali, e confermano la regola). In Italia, però, gli ultimi cinque o sei anni sembrano aver conosciuto una ripresa di interesse per questa possibilità creativa. Sono macchine, congegni, dispositivi tutte le creazioni maggiori di Micol Assaël, Michele Bazzana, Arcangelo Sassolino, Alberto Tadiello (tre su quattro dal Nord-Est, per inciso, ancora una volta), per non parlare degli artisti che ricorrono alla macchina in modo meno sistematico. Come Paola Pivi, ad esempio, che nel 2009 ha presentato a Francoforte e a Milano una serie di austere fontane d’acciaio che pompavano, invece che acqua, torrenti di liquidi di consumo quotidiano, dal succo d’arancia a un prodotto struccante per il viso.
Poetiche diverse, diverse sensibilità: è rischioso generalizzare. Proviamo comunque a fare due o tre osservazioni. A dispetto dell’informatica e di tutto l’immaginario “post-fordista”, si tratta di hardware, non di software: sono congegni elettrici e meccanici, non elettronici. La loro estetica è spesso ruvidamente industriale, senza tentativi di abbellimento: sono più macchine-sculture che sculture-macchine. Certo, si tratta di macchine “celibi”, prive di uno scopo pratico, come da una tradizione ormai lunga. Ciò non significa però che siano poeticamente inceppate e balbuzienti come i rottami di Tinguely: anche nell’eseguire compiti inutili, distruttivi e perfino autodistruttivi, dimostrano notevole efficienza. E solo a volte macinano ironia, o addirittura sprigionano lirismo. Il funzionamento delle nuove sculture-macchine è spesso sinistro, aggressivo, minaccioso. Nel caso di Sassolino o di Assaël, la potenza dei meccanismi in funzione pone addirittura il problema dell’incolumità dello spettatore. Rispetto alla fiducia nella tecnologia come forza liberatrice a livello artistico e sociale, che costituiva il presupposto della maggior parte dei cinetismi anni ’50-’60, siamo agli antipodi.
Guarda la macchina: / come gira e vendetta chiede, / ci sfigura e spossa (R. M. Rilke, Sonetti a Orfeo, parte prima, XVIII, traduzione di Franco Rella).