Rihani. Il libro di Khalid
È raro che un libro ripescato dal passato sia così incisivo sul presente, e forse, sul futuro come Il libro di Khalid di Ameen Rihani (Mesogea, 2014). L'autore era un siro-libanese che fece la spola tra patria mediorientale e Stati Uniti; il libro, tra i primi romanzi arabi e primo scritto in lingua inglese, fu pubblicato a New York nel 1911. In buona parte autobiografico il protagonista emigra con l'amico Shakib in cerca di fortuna e di esperienze nel nuovo mondo.
Stabilitosi nell'allora fiorente Little Syria sarà ambulante, bohémien, carcerato formando se stesso nel confronto con l'occidente, tema oggi scottante su cui il romanzo offre interessanti spunti. L'impatto a Ellis Island non è di certo dei più felici (“Proprio perché siamo nella patria dei pari diritti e della libertà, saremmo legittimati a pretendere dagli altri la cortesia e la decenza che noi, invece, non siamo tenuti a mostrare, o non conosciamo affatto”), cosicché i dubbi assilleranno costantemente Khalid (“Sei sicuro che viviamo meglio qui?”).
Non si trovano tuttavia preclusioni identitarie (per esempio sulla lingua: “Ecco la ragione per cui, pur scrivendo in arabo, Khalid preferisce l'inglese. Perché il verbo arabo ha solo tre tempi, quelli primari; e, per aprirsi, in qualche misura, un varco tra di essi, bisogna far ricorso al piede di porco, quale può essere un ausiliare o un altro verbo”), arrivando ad ironiche comparazioni (“Ecco il Ponte di Brooklin, ecco la Statua della Libertà, di cui tanto parla la gente e che sono famosi come i cedri del Libano”) e lodi in versi (“Ode al fonografo, Sulle virtù e i benefici della scienza moderna”).
Il giovane legge furiosamente autori occidentali, sfiora l'ateismo, si perde con ragazze americane (“Ah, fianchi come quelli che si vedono qui fanno pensare alla aliyah – coda grassa – delle nostre pecore asiatiche!”), ma infine prova una crisi di rigetto. Eccessivi la fretta (“Questi asini avrebbero parecchio da insegnare agli Europei e agli Americani, sempre affaccendati e sempre di corsa”), il rumore di carri, letture, traghetti e sopraelevate, la distruzione della natura e, soprattutto, l'arida ossessione per il denaro: “Ma gli Americani non sono né pagani – il che è consolante – né selvaggi idolatri: sono tutti sinceri e onesti seguaci di Mammona”.
L'inevitabile ritorno conduce Khalid alla sua vera vocazione di mistico e il romanzo accentua il suo precipuo carattere filosofico che tuttavia grazie alla pluralità delle voci (narratore, manoscritto ritrovato del protagonista, memoriale dell'amico), di stile e di tono (spesso sornione e demistificante) tiene viva l'attenzione del lettore.
Niente di idillico però nel ritorno; piuttosto conflitti familiari, pesanti censure provenienti dalla chiesa maronita e dai gesuiti, fallimento dei progetti matrimoniali con la cugina Nağmah. Partorito una seconda volta dal “ventre di ferro” dell'America, l'emigrante ormai meticcio proclama “la sacralità dell'individuo, non della famiglia o della Chiesa”, cercando una conciliazione tra “l'ambizione” dell'occidente e “la spiritualità” orientale poiché “l'essere evoluto al più alto grado non è né europeo né orientale; è, piuttosto, colui che partecipa delle più raffinate qualità sia del genio europeo sia del profeta asiatico”; ugualmente, sul lato religioso, egli punta a un sincretismo tra cristianesimo e Islam: “la barbarica grandezza, la magnanimità e la fedeltà dell'Arabo così come la sublime spiritualità e la divina bellezza del Nazareno mi ispirano il più profondo rispetto”.
Infine va menzionato il progetto politico, caro all'autore e al suo alter ego, di un nazionalismo arabo anti-turco, che oggi, come nota il traduttore e curatore Francesco Medici, pareva rinverdito dai giovani della Primavera araba, capaci di utilizzare i social media per veicolare la loro protesta progressista. Certo il discorso di Khalid alla moschea gli procura una violenta aggressione, deve fuggire e scompare così dal romanzo, lasciando aperta un'ipotesi di nuovo occultamento dell'eroe per la rinascita nei tempi opportuni, ma anche il legittimo sospetto di una definitiva sconfitta.