Generazioni a confronto / Trent'anni: there's a million things to be
Molte volte negli ultimi anni ho discusso accanitamente con mia madre perché, vicini o ormai raggiunti i trent’anni, ero troppo grande, a suo avviso, per vivere “in condivisione”. Da adulti si vive o con l’uomo (meglio non la donna ma, in caso, pace) che ci si è scelti ed eventualmente (meglio di sì) con dei figli. O altrimenti da soli.
Vivere con amici è socialmente accettato, come passaggio necessario per una generazione di precariato lavorativo ed esistenziale, solo in mancanza di soluzioni “stabili”: semplicemente costa meno, meno di una famiglia e meno di un monolocale.
Chiaramente ci sono altri aspetti positivi: se non si ha tempo di fare la spesa, la farà qualcun altro, e viceversa; se si è stanchi o disperati, ci sarà chi all’occorrenza ci prepara una pasta e più o meno volentieri ci ascolta; si è liberi di uscire insieme oppure no; se si vuole stare soli basta chiudere la porta, ma c’è sempre la possibilità insieme fastidiosa ed enormemente rincuorante che qualcuno venga a disturbarci per proporre un bicchiere di whisky prima di andare a dormire, o per dire di svuotare quella maledetta lavatrice. Capita che non si abbia voglia di uscire ma nemmeno di sprofondare in Netflix, si può comodamente chiacchierare in cucina e sbronzarsi e non dover fare poi nemmeno la fatica di tornare a casa. L’affetto non lo si deve necessariamente andare a cercare fuori: almeno un po’, è già lì.
Questioni del genere però non sembrano degne di un adulto. Si possono desiderare compagnia e calore da molto giovani, oppure se si hanno un compagno o una famiglia. Altrimenti quelli appena elencati risultano i risvolti positivi di una situazione di necessità, temporanea, in attesa di tempi migliori.
Così nelle discussioni con mia madre (che in queste righe si limita a essere un espediente narrativo, la parte per il tutto della generazione boomers) mi trovavo probabilmente ad accentuare le sue ansie perché le mie risposte vertevano sul mio precariato: economico, sentimentale, e pure geografico (non so se tra un anno, sei mesi, tre anni vivrò ancora a Firenze, o a Milano, o perché non a Lisbona, o chissàddove). Da qui l’inevitabile: “Noi alla tua età…!”. Ma voi alla mia età erano gli anni 80, giochiamo in campionati diversi, forse proprio sport diversi.
In realtà, questo stile di vita, dai film di Ozpetek a Friends, fa già parte nel nostro immaginario, ed è già estremamente presente nelle nostre vite. Essendo però figli dei boomers noi stessi, forse, non osiamo legittimare questa scelta in quanto tale, come se fossimo in attesa, perennemente in attesa – di essere meno precari, di diventare più adulti, di avere una famiglia boomer-friendly. In mancanza di quest’ultima, a un certo punto si è spinti a isolarci in monolocali o piccoli appartamenti, piccoli per poterceli permettere anche da soli, e dove comunque non si spende troppo tempo perché la vita poi è fuori, al lavoro, nei bar, per strada.
Alcune settimane fa, su Doppiozero è uscito un articolo intitolato La quarantena di una neo-trentenne. L’autrice, Anita Romanello, raccontava come questo, per “molti di noi che non si sono dati una mossa nel concretizzare un progetto famigliare, che non convivono e che ancora pensano a realizzare i propri sogni e la propria carriera, si stia rivelando un momento di infinita solitudine” e si chiedeva “in preda all’irrazionalità, se non fosse stato meglio convivere con un uomo”.
In effetti il coronavirus, come in moltissimi altri casi, ha esacerbato anche questo aspetto delle nostre vite e fatto luce sul giudizio che ha la società nei confronti di un modo di vivere che non rientra in canoni ormai vecchissimi.
Così, mentre le pubblicità promulgavano la retorica della famiglia finalmente riunita, chi abita da solo si è trovato molto spesso a essere veramente solo: a non poter vedere nessuno per due mesi; a non poter essere toccato, abbracciato, aiutato per due mesi. Certamente non è stato così per tutti. Fatta la legge, trovato l’inganno: ci sarà magari un vicino di casa o di quartiere da invitare di nascosto a cena, un fidanzato o “friend with benefit” da incontrare di notte, qualcuno con cui andare a fare la fila al supermercato. Ma non sempre, non tutti hanno una rete a portata di 200 metri o poco più.
E pensando a chi è rimasto veramente solo ho benedetto ogni volta che un coinquilino veniva a interrompere qualsiasi cosa stessi facendo, se questo in cambio mi permetteva di avere qualcuno (non chiunque, qualcuno) che mantenesse viva l’abitudine al contatto fisico, che mi cucinasse il pranzo di Pasqua, a cui preparare un dolce, con cui discutere in carne e ossa, con cui litigare, con cui vedere un film stretti sul divano o guardare dalla stessa finestra.
A fine aprile si è poi cominciato a parlare dei fantomatici congiunti: i parenti, tutti, anche se non li si è mai visti. Non gli amici. E chi è solo a casa e non vive nella città in cui è cresciuto e in cui vivono i propri parenti, doveva, almeno teoricamente, continuare a stare solo.
Molti hanno sgranato gli occhi nel vedere questa radiografia di un mondo che sappiamo essere già morto da tempo ma il cui cadavere è rimasto lì, di solito solo sotto forma di giudizio e di morale più o meno innocui, e però capace di trasformarsi in legge in una situazione di emergenza (che potrebbe benissimo ripresentarsi) – legge grottesca, priva di alcun contatto con la realtà.
Come in moltissimi altri casi, esacerbando la realtà, facendo luce sulle falle, il coronavirus ha permesso di dissodare il terreno, piantare nuove consapevolezze, far fiorire magari nuove idee.
Nella prossima discussione con mia madre saprò rispondere che la mia non è una scelta in sé provvisoria, in attesa di trovare l’uomo della mia vita o in alternativa una retribuzione abbastanza sostanziosa da permettermi di vivere per conto mio senza l’ansia di non arrivare a fine mese. Vivo con degli amici perché mi piace, e non sto aspettando di poter fare la vita di una generazione che non è la mia. Le risponderò insomma che è una scelta come un’altra, che forse sarà temporanea, come del resto buona parte dei matrimoni, ma che non è temporanea in quanto tale.
Famiglia può essere qualsiasi cosa, è vero anche fuori dai film di Ozpetek. È vero in un mondo in cui sposarsi e avere figli non è più l’unica possibilità. Ce ne sono moltissime altre. E anche i figli sono possibili in infiniti contesti, diversi dalla famiglia Mulino Bianco ma anche dalla madre single che si deve moltiplicare in quattro per tenere insieme tutto.
In questi anni, mentre molte aziende esternalizzavano sempre di più il lavoro, una parte della generazione dei “neo-trentenni” ha esternalizzato anche l’affetto. Nel puntare tutto su di sé, sulle proprie forze, si è scelto di essere sempre più indipendenti e agili, e di tenere fuori di casa tutto ciò che rischia di legare e dunque di intralciare: c’è sempre la sensazione che si possa dover partire o cambiare tutto da un momento all’altro, meglio evitare briglie.
In realtà, non è detto, non l’ha deciso nessuno, che il piacere di qualcuno che ti aspetta a casa, ti chiede com’è andata la giornata, qualcuno con cui vedere un film a letto e a cui preparare la cena sia necessariamente legato a un progetto di coppia o all’andare a letto insieme. Non è detto nemmeno che gli sforzi che la condivisione di uno spazio implica – dover venire incontro ai tempi, alle abitudini e alle idiosincrasie altrui – valgano la pena di essere fatti solo nei confronti del “proprio” compagno/a o di figli o genitori. Sono sforzi che certamente è più bello, più facile, fare per amore, ma ci sono moltissime forme di amore, che non vanno censite, a cui sarà sempre molto meglio non dare nomi, e che in italiano più facilmente che in altre lingue si riuniscono sotto il concetto generico e insieme precisissimo di “voler bene”.
Possiamo scegliere a qualunque età se vivere da soli o con persone a cui si vuole bene, qualunque sia il rapporto che ci lega (si può chiaramente anche scegliere di vivere con persone a cui non si vuole bene, ma poi non ci si venga a lamentare…), senza che questo implichi né immaturità e attesa né un “contratto a tempo indeterminato”. A trent’anni siamo già adulti e questo è già il nostro tempo, e non stiamo aspettando di viverlo come lo vivevano le generazioni passate. Abbiamo ingredienti diversi con cui costruire una qualche forma di benessere, che sarà necessariamente diversa da prima. E per fortuna, perché quella di “prima” per funzionare ha lasciato sotto di sé un mondo profondamente inquinato e diseguale.
Come diceva Cat Stevens nella colonna sonora di Harold e Maude, mentre si raccontava la storia d’amore tra un giovane e un’anziana, “if you want to sing out, sing out / And if you want to be free, be free / 'Cause there's a million things to be”. Sta alla nostra generazione saperlo e farlo, lasciandosi alle spalle i progetti e le ambizioni di generazioni passate. Magari nell’inventarsi e apprezzare altre maniere di vivere e condividere c’è una delle tante chiavi alla sostenibilità e alla reinvenzione di un modo di stare al mondo che si è già detto troppe volte debba essere cambiato: a partire dalla condivisione dei consumi fino a tutte le forme di aiuto reciproco che una “famiglia”, in qualsiasi forma, permette.