Zaha Hadid a Seul / Quando l’architettura diventa paesaggio
Mentre l’architettura riempie tradizionalmente il mondo con edifici, altre discipline, come l’architettura del paesaggio, favoriscono piuttosto la creazione di quegli spazi liberi che ci permettono di respirare in un ambiente iper-densificato. Architettura e paesaggio si oppongono quindi l’uno all’altro come pieno e vuoto, sfera meccanica e sfera organica, spazi delineati con precisione e spazi illimitati. Negli ultimi decenni queste antinomie hanno dato luogo però a una nuova situazione dialettica. L’architettura si è aperta al paesaggio, anzi, in certi casi, è diventata essa stessa paesaggio architettonico. Certo, Le Corbusier parlava già un secolo fa della “promenade architecturale” (messa in atto nella sua Villa Savoie). È soltanto di recente però che tale apertura si è trasformata in un trend internazionale, che riguarda sia l’emergenza di nuove forme ibride di architetture-paesaggio sia il senso e le finalità del fare architettura in genere.
L’opera emblematica che meglio di tutte esprime una simile tendenza è il Dongdaemun Design Plaza o DDP di Seul. Realizzato tra il 2007 e il 2014 dallo studio londinese Zaha Hadid Architects, il DDP funge da centro dello storico quartiere Dongdaemun. Il disordine urbano e un vecchio stadio cittadino hanno lasciato posto a un affascinante oggetto di non chiara definizione. Si tratta di un generoso costrutto su otto piani, coperto all’esterno da un manto di 45133 pannelli in lamiera di alluminio, ma nel contempo anche di un grande parco di 30000 m2 che invade l’edificio, lo ricopre, lo abbraccia. Dentro e fuori non sono chiaramente distinti, anzi, sono sottoposti alla stessa fluidità che caratterizza una miriade di elementi architettonici. Il DDP contiene tante cose: un centro per il design nazionale e internazionale, una biblioteca, delle gallerie, dei bar, dei caffè e un museo, pur restando principalmente un interminabile involucro vuoto. Il sintagma architettonico più espressivo in questo contesto è certamente il Design Pathway, un corridoio di luce di ben 533 metri.
La figura serpentinata – una specie di firma della compianta Zaha Hadid – esalta quella “line of beauty” celebrata da Hogarth e trasforma l’attraversamento dell’insieme in una azione poetica. Immerso nel lucore e quasi senza punti di riferimento, chi passeggia qui vive un’esperienza sublime essendo esposto a una struttura che pare infinita. Questo senso di dismisura e di sprezzatura lo si incontra anche all’esterno, dove appena usciti dall’edificio centrale, si scoprono altre entrate, scalinate, nuovi spazi sorprendenti. Il sublime esperito in contatto con il DDP è in verità plurimo: vi è, da un lato, il sublime diurno, la possibilità di “sentire” la grandezza di questo oggetto che si sottrae alle definizioni pur imponendosi come forma. Non come forma abituale però, ma in quanto immenso arabesco creato dall’incontro della linea curva, dominante, con le geometrie strutturali.
Anche piccoli dettagli lavorati con cura sapiente contribuiscono a questo effetto: in certi angoli dell’immenso areale le strutture ultramoderne toccano delicatamente le mura di una fortezza medioevale. Il sublime moderno della grande macchina architettonica si confonde in questo modo con il sublime della grande storia, metonimicamente presente nel muro di sasso. Il sublime più sorprendente e quasi drammatico è in verità quello notturno. A un certo punto, quando la luce del giorno si affievolisce, l’intero edificio si tinge di luci e tutto diventa spettacolo. L’involucro si metamorfizza in una pelle cromatica cangiante, mentre ciò che un istante prima era una superficie verde si trasforma in una foresta di luce. Ora la passeggiata può ricominciare, occorre riattraversare il parco e immedesimarsi in questa favola architettonica.
Zaha Hadid ha definito il DDP (che è il suo capolavoro-testamento) come una metonimia paesaggistica. Il DDP, in effetti, concentra in sé i paesaggi e le realtà urbane della Corea tutta, alludendo sia alla natura che alla cultura, alla vegetazione e alla città. Questo spiega anche perché la prima qualità del progetto sta proprio nella sua funzione paesaggistica, cioè non-funzionale. Come la poesia, l’arte, o l’esistenza umana stessa un oggetto di questo genere non può avere una funzione univoca. In linea di massima, il DDP, che significa anche Dream, Design, Play, non serve a niente (a cosa serviva del resto Castel del Monte?). O meglio, serve soltanto a essere attraversato e esplorato, a seguire i suoi flussi misteriosi, a essere studiato come un gigantesco meteorite caduto dal cielo e atterrato nel centro di Seul.
Per i cultori di architettura il DDP appare ancora più interessante: gli oltre 40000 pannelli di alluminio hanno ognuno una dimensione diversa, ciò che conferisce all’insieme la qualità di un immenso puzzle reso possibile grazie alla progettazione BIM. Il progetto insegna come fare convivere la leggerezza estrema e la pesantezza, l’aperto e il chiuso, il liscio e lo striato. Aperto 24 ore su 24 il DDP è pure un mega-oggetto democratico, accessibile a tutti. In un mondo sempre più standardizzato e occupato da oggetti architettonici banali, il DDP appare come un luminoso faro programmatico.