Amichettismo: molti vizi e poche virtù
Nel giro di pochi anni siamo passati dall’amichettismo al nemichettismo. Anzi, possiamo dire che il nemichettismo è già insito nell’amichettismo ma tende a mostrare i suoi aspetti più parossistici proprio nella fase discendente del suo ciclo di vita.
Il luogo dell’amichettismo è proverbialmente posto a sinistra. Questo perché a destra esistono già legami forti capaci di saldare le varie “comunità di destino” agli interessi che le contraddistinguono: legami di sangue, familistici, corporativi. A sinistra invece vigono soprattutto legami deboli, dopo la distruzione operata dall’accettazione della visione neoliberale che ha fatto a pezzi ogni radicamento ideologico, territoriale, etico, carismatico ecc. Per questo vengono costruiti dei punti di riferimento “solidi”, capaci di filtrare e legittimare i talenti, collocandoli nello spazio degli amici. Questi “luoghi” dietro cui si celano più che altro gruppi di interesse, sono in grado di attribuire l’aura dello scrittore, dell’artista, dell’intellettuale in modo sistematico, nonostante la drammatica crisi d’autorevolezza che tali figure vivono.
Le industrie culturali che sguazzavano nell’egemonia culturale di sinistra hanno dovuto inventare una modalità alternativa di fare comunità, più effimera, mutevole, fluida, ma comunque cogente nella sua capacità di mandare in heavy rotation sempre le solite facce, sempre i medesimi punti di vista e le interpretazioni del mondo che offrono al contempo sicurezza e stabilità, in una società che ha fatto del rischio il suo tratto dominante (si pensi alla splendida metafora di Bauman dell’aeroplano senza pilota, che è in volo nonostante manchi tutto, persino l’aeroporto di destinazione). Forse nulla di nuovo sotto il sole, dato che nei vari periodi storici è stato decisivo appartenere a una cerchia ristretta per avere successo, ma la logica dell’amichettismo mostra alcuni suoi tratti peculiari. Un po’ ricorda ciò che Carl Schmitt sottolineava sulla differenza tra il nemico e il concorrente, il competitor, ovvero l’antagonista come concepito dai sistemi liberali che interpretano ogni contrapposizione in base alla logica economica. Al contrario la coppia amico/nemico, in quanto essenza stessa del politico, va letta attraverso una chiave esistenziale, come difesa/minaccia della propria forma di vita. Tratto che secondo Schmitt si universalizza quando pensiamo alla propensione “teorica” dei pacifisti che dichiarano guerra alla guerra stessa.
Il pamphlet di Fulvio Abbate L’amichettismo (2023) fa il punto sulla natura e sulla cultura di tale fenomeno, a cui forse lo stesso autore appartiene, con la sua presenza costante nei programmi Tv della mattina e dopo aver pubblicato con La nave di Teseo. In un periodo decisamente postideologico, secondo l’autore “l’amichettismo pretende invece un’adesione perenne, ideologica, propria del ricatto sentimentale, qualcosa di pervasivo, claustrale, un patto di potere illimitato, eterno”. Il suo messaggio essenziale è semplice; “Tu stai con noi, tu sei noi…”. Esso è addirittura traducibile nelle icone di whatsapp, come viene efficacemente mostrato nell’immagine di copertina: “ancora emoticon: cuore, cuoricino, faccina che stringe a sua volta l’ennesimo sospiro ipocrita, e un altro piccino cuore ancora”. In un’epoca segnata dallo stridente iperindividualismo, specialmente mediato dalle app di messaggistica istantanea, l’amichettismo impone un’affiliazione comunitaria, una sostanziale comunione di intenti tra colui che invita e l’invitato. Addirittura, osa dire Abbate, che si tratta di “un patto prossimo al giuramento di sangue dei mafiosi, travestito da solidarietà edificante”. Un altro tratto decisivo di tale orientamento è il vero o presunto buonismo, dato che “l’amichettismo ha la pretesa sovrana di mostrare il Lato A del Bene”, mentre nel Lato B “si trova l’Altro, l’estraneo, l’escluso, la persona sospetta”. Colui che c’è modo di marchiare come “rosicone”, lessico plebeo eppure utilizzato anche dai “laureati”, dai “lettori delle rubriche di Concita De Gregorio”. Abbate dedica un passaggio ai “luoghi” fondativi dell’amichettismo, come il Salone del Libro di Torino e di manifestazioni simili, in cui è facile trovare “criceti a loro volta spettacolarizzati”, più impegnati a scorgere se stessi, “le proprie faccine note, riconoscibili, vidimate dalle proprie ragioni, dalle proprie ulteriori ambizioni”, che non il mondo. Pone qualche perplessità la data di inizio della tendenza, che Abbate individua nell’affaire Angelini, quando il musicista della trasmissione Propaganda Live viene denunciato per irregolarità contrattuali dalla collaboratrice di un suo ristorante, che egli considerava come “un’amica” ormai totalmente “incattivita”. La sequenza social di endorsemement lanciati sui social da famose star dello spettacolo – puntualmente citate da Abbate: “Emma, Jovanotti, Max Gazzé, Elodie” – in quanto appunto amici, confermerebbe l’ipotesi.
Non è escluso che tale categoria sia stata inventata da destra per mettere in rilievo alcuni difetti tipici dei pensatori di sinistra, come nelle procedure di etichettamento applicate da politici e media sovranisti, tramite campagne vessatorie via social. L’amichettismo è uno dei tanti tentativi di ricreare un senso di appartenenza, di comunità, proprio nella società che ha fatto a pezzi ogni legame stabile. Dall’altro lato, esso riproduce un effetto simile a quello dei social media, con le varie filter bubble ed echo chamber che ti pongono sempre dinnanzi al medesimo messaggio e alla medesima fonte. Esso crea circoli chiusi in cui si ripropongono sostanzialmente i medesimi nomi.
Questa variante claustrofobica dei vecchi “salotti”, assomiglia al calcio postmoderno, con i programmi tv che diventano contenitori, come appunto le squadre di calcio, all’interno dei quali si ricombinano gli stessi nomi senza più il riferimento a un’identità distintiva. Con ciò non si pretende di elevare tale categoria al rango di un idealtipo sociologico, ma può essere utile utilizzare tale concetto come indicatore del cambiamento culturale. Ci sono alcuni segnali che suggeriscono un possibile sgretolamento dell’amichettismo e il suo ribaltamento nel suo contrario.
Nell’estate del 2023 si sono moltiplicati i segnali di trasformazione dell’amichettismo in nemichettismo. A partire dal caso Elkann, da me scoperto durante un soggiorno all’estero che ha reso ancor più surreale e spaesante l’interpretazione dell’accaduto. I situazionisti avrebbero amato questo totale nonsense trasformato nell’evento giornalistico dell’anno. Essenzialmente il supponente atto di accusa di un ex frequentatore della scena mediatico-culturale, nei confronti di una società e di una generazione che egli non può capire. Il nemichettismo esplode quando il beneficiario di una certa “cerchia” si trova nel Paese reale a contatto con presunti barbari (“lanzichenecchi”), che testimoniano la fine di un Impero in cui si stava comodi. Forse perché si affievolisce il legame che tiene insieme i membri delle cerchie, quando l’amichettismo non riesce più a sostenere la fama e la notorietà di certi personaggi, si percorre la fase declinante del proprio selfbrand. Altro caso dell’estate, quello di Chiara Gamberale che protesta contro un volo in overbooking, sarebbe decisamente più comprensibile ed empatizzabile dal punto di vista della persona comune che inveisce contro i disservizi delle grandi aziende… se non fosse anche qui per quel tocco di lieve egocentrismo che rievoca goliardicamente l’antico adagio di Gioacchino Belli ripreso da Alberto Sordi nei panni del marchese del Grillo. Mentre il terzo evento ha visto Concita De Gregorio, appunto citata nel libro di Abbate, lanciarsi dapprima in un’inspiegabile retorica vessatoria che assimila giovani barbari a soggetti con problemi cognitivi, per poi avvitarsi ulteriormente nella lettera di scuse, inveendo contro il “politicamente corretto” di cui fino a quel momento era considerata, evidentemente suo malgrado, una paladina.
Potremmo derubricare sia l’amichettismo che il nemichettismo al rango di mode passeggere. Come osservava Georg Simmel verso la fine del XIX secolo, la moda si fonda su due forze che regolano la vita sociale: quella dell’identificazione, con il gruppo in cui ci si riconosce, a cui si vuole appartenere, e quella della differenziazione, dal gruppo da cui ci si vuole solo distanziare. Sparita una delle due, la moda si dissolve. Se tutto ciò fosse solo una tendenza che affligge il panorama culturale italiano, dovremmo solo attendere il suo tramonto. In realtà essa è il frutto di una divaricazione tra le classi sociali che al contempo mette in crisi il modello di mobilità verticale (l’ascensore sociale) e dà vita a un sostanziale crisi dei ceti medi. In particolare il nemichettismo è anche la risposta di alcuni gruppi, a loro modo privilegiati, contro la dinamica populista che dal basso sprigiona campagne di odio sociale, di politiche dell’invidia e del risentimento, che passano per i fantomatici “haters” e per quella che in inglese viene studiata come il fenomeno della “incivility”, su cui si sono recentemente soffermate Sara Bentivegna e Rossella Rega nel loro La politica dell’inciviltà. Mentre le destre sovraniste/populiste sono andate al potere illudendo le classi svantaggiate di preoccuparsi della loro condizione, l’amichettismo al contrario non si pone proprio il problema, come dire: se non sei dei miei semplicemente non sei.
A ben vedere, entrambi questi movimenti, l’amichettismo/nemichettismo del ceto intellettuale e l’invidia sociale dal basso, sono frutto del medesimo spappolamento delle classi sociali e di una sostanziale “orizzontalizzazione” della società discussa dal libro di Marco Marzano e Nadia Urbinati La società orizzontale, appunto (qui la recensione per “doppiozero”). Forse una variante della guerra dei ricchi contro i poveri, denunciata dai postmarxisti, ma dove il capitale economico viene sostituito con quello culturale, e a cui si risponde tramite campagne di delegittimazione dal basso verso l’alto e viceversa.