
L'arte alla sfida con l’IA
Da quando è entrata con prepotenza nella nostra vita quotidiana, l'intelligenza artificiale ha cominciato ad arroventare i discorsi e ha finito, al solito, per polarizzarli nelle due fazioni rese proverbiali da Umberto Eco. Molte delle controversie girano attorno al suo aspetto più innovativo, sintetizzato dall'aggettivo “generativa” con cui è spesso associata. In effetti, una tecnologia che mostra di saper creare discorsi e immagini, dialogando con noi meglio di quanto si sognava Turing, solleva inevitabilmente molte questioni che toccano il senso dell'arte, l'identità e il ruolo dell'artista, il valore dei prodotti generati dalla macchina, i diritti d'autore e così via. Sono questioni che hanno risvolti sociali, culturali e giuridici non di poco conto, ma che dovrebbero interessare molto anche chi si occupa di estetica e filosofia dell'arte. Invece, in Italia e in genere nella filosofia “continentale”, sembra prevalere quell'atmosfera teorica novecentesca che ha demonizzato la tecnica e che perciò tende a pensare che tra IA e arte ci sia lo stesso rapporto che c'è tra diavolo e acqua santa.
Una lodevole eccezione è Alice Barale, studiosa di estetica e ricercatrice all'Università degli studi di Milano, che già nel 2020 aveva curato una raccolta di saggi su Arte e intelligenza artificiale (sottotitolo: Be my GAN, Jaka Book, 2020), concentrandosi sui modelli allora più usati, quelli basati sull'architettura di rete neurale chiamata Generative Adversarial Network (GAN). Rimasto un po' in sordina, l'argomento è tornato a schiumare sull'onda del successo di ChatGPT e dei sistemi TTI (Text To Image) che generano immagini a partire da testi. E ora la studiosa, che ha continuato le sue ricerche sul campo, presenta un nuovo libro in cui affronta in prima persona i numerosi e stimolanti spunti estetici legati agli sviluppi più recenti: L'arte dell'Intelligenza Artificiale: parole-chiave filosofiche (Jaka Book, 2025).
Si potrebbe partire dalla duplicità che al titolo conferisce quel genitivo (oggettivo o soggettivo): ciò di cui si parla è l'arte prodotta dall'IA o l'arte che fa dell'IA il suo oggetto? L'ambivalenza tocca la questione dell'autore, che è infatti una delle parole-chiave con cui vengono scanditi i capitoli: Opera, Autore, Tempo, Memoria e Umano. (Una scansione, sia detto en passant, fin troppo generica e astratta, che incasella un po' artificiosamente la varietà e l'originalità degli argomenti realmente trattati). Alla domanda «chi è l'autore, l'uomo o la macchina?», la risposta del libro è, in soldoni: né l'uno, né l'altro. Non solo perché, come scrive Barale, «non è per nulla chiaro cosa potrebbe significare per una IA da sola “fare arte”, né se essa potrebbe mai sentirne l'esigenza», ma soprattutto perché ciò su cui il libro ci invita a riflettere è la «complessa interazione tra uomo e macchina» che le attuali pratiche artistiche connesse all'IA stanno esplorando con risultati spesso meritevoli di attenzione critica.

Il concetto di interazione è in effetti il Leitmotiv che risuona in tutto il libro, assieme alle sue varie declinazioni: dialogo, scambio, gioco. Tutti gli artisti e le opere che l'autrice ha preso in considerazione sono accomunati dal fatto di aver accolto «la sfida del dialogo che le nuove forme di IA pongono». Ma attenzione: qui non si intende il dialogo che ChatGPT & Co sono stati addestrati a svolgere con sorprendente efficacia rielaborando “magicamente” il già noto, quanto piuttosto il confronto dialettico – una sfida, appunto – che cerca nuovi «percorsi di senso» insinuandosi negli interstizi lasciati aperti dai complicatissimi e in parte incompresi meccanismi interni di queste macchine.
Il che dimostra quanto l'approccio di Barale sia lontano dalla sterile contrapposizione citata all'inizio e sia invece rivolto all'arte come curiosità e desiderio di sperimentare. Non a caso il libro nasce contemporaneamente al progetto, elaborato dall'autrice assieme a colleghi dell'università, di far produrre a ChatGPT uno spettacolo teatrale (di teatro e IA si parla nel capitolo finale, significativamente dedicato alla parola-chiave “Umano”).
Per questo, se il libro inizia citando un racconto di Philip Dick è per prendere le distanze dalla sua paranoia apocalittica, evidenziando comunque certe sue intuizioni: anche il nostro mondo, come quello immaginato dallo scrittore americano mezzo secolo fa, è pervaso dall'IA; e anche nel nostro caso è un'IA che ha raggiunto una sua sorprendente “autonomia”. Non è però quella dell'androide ribelle, quanto quella più sottile e ambigua che riguarda «le sensazioni e le rappresentazioni umane», di cui l'IA generativa si è impadronita al punto da dare loro una vita autonoma. Le sue capacità “magiche” dipendono proprio dall'aver preso i miliardi di parole e immagini con cui l'abbiamo alimentata e di averli fatti parlare e vedere “da soli”, in modo da poter interagire con noi usando il nostro stesso linguaggio e le nostre stesse rappresentazioni (compresi pregiudizi, ideologie e bias di vario tipo). È questa la grande novità, non immaginata da Dick, a cui ha portato l'evoluzione della computer science nel mondo reale. Ma tutto ciò è «roba nostra», nota Barale: «sta a noi esplorarle nelle loro possibilità e anche nei loro capovolgimenti». Ed è proprio quello che può fare l'arte.

La prima esplorazione artistica analizzata nel libro (sotto la parola-chiave “Opera”) è un perfetto esempio di una declinazione cruciale del concetto di interazione citato prima: il gioco. L'opera, del 2023, è un piccolo robot, rudimentale e un po' vintage, che ha l'aspetto di un cagnolino di peluche con una videocamera al posto di un occhio. È appoggiato su una base dotata di ruote che gli permettono di spostarsi nel suo habitat naturale, che sono le mostre d'arte: il cane robot è infatti un “critico d'arte artificiale”, ovvero un'IA che guarda opere (magari fatte dall'IA) e produce commenti critici. Si intitola AICCA, che sta per Artificial Intelligent Critical Canine, e il suo autore è Mario Klingemann, uno dei nomi più famosi dell'IA art, con una carriera più che ventennale, iniziata molto prima delle attuali reti neurali profonde. La sua “scultura performativa”, com'egli la considera, funziona così: una rete neurale di riconoscimento delle immagini permette al cane-critico-artificiale di individuare le opere presenti nella sala (solo i dipinti, per ora) e di analizzarne gli elementi visivi; quindi un modello GPT ci costruisce sopra dei commenti critici, che escono stampati in striscioline simili agli scontrini da una fessura nascosta sotto la coda.
La provocazione è evidente. Ed è senz'altro pensata per generare conversazione – strategia abusata nell'arte contemporanea, dove la regola aurea di Oscar Wilde (“l'importante è che se ne parli”) è diventata quasi un obbligo di fronte al diluvio inarrestabile di parole e immagini. Klingemann prende di mira il ruolo della critica equiparandola, come suggerisce egli stesso, al chiacchiericcio degli influencer amanti dei cuccioli, ma lo spunto da cui dice di essere partito contiene riflessioni meno banali. Nel romanzo di Douglas Adams, Dirk Gently. Agenzia di investigazione olistica (1985) ci sono dei curiosi personaggi chiamati “monaci elettrici”, la cui funzione è evitare alle persone la fatica di «credere a tutto ciò che il mondo si aspetta che credano». Il critico artificiale ha una funzione simile: sopperisce alla fatica sovrumana di prestare attenzione alle troppe immagini e opere visive da cui siamo continuamente sommersi.
Barale parte da questo spunto e lo elabora in sintonia col romanzo di Adams, in cui un ruolo decisivo è svolto da un monaco elettrico difettoso e da un bambino che guarda le cose in modo diverso rispetto agli adulti. È quello che fa anche AICCA: presta un'attenzione alle opere molto diversa dalla nostra e che a volte ci sembra “sbagliata”. Su questo sguardo diverso dell'IA l'autrice svolge una serie di interessanti osservazioni, intrecciandole con gli aforismi sull'arte scritti da AICCA (frutto di un dialogo tra Klingemann e ChatGPT). Il punto culminante mi sembra quello in cui si sottolinea l'importanza del gioco per questi artisti che si confrontano con l'IA. Contro la serietà dei discorsi dominati da facili paure e altrettanto facili entusiasmi, Barale evoca, qui e in molti altri punti del suo libro, il pensiero di Walter Benjamin, uno dei suoi autori di riferimento, di cui ha curato la nuova traduzione dell'impervio saggio sul dramma barocco tedesco. E ci ricorda che nel suo saggio più letto, quello sulla riproducibilità tecnica dell'arte, Benjamin «aveva sostenuto proprio questo: che il gioco potesse diventare la chiave di un nuovo tipo di tecnica, finalizzata non tanto a dominare il mondo ma a giocare in modo armonico con esso».

Un altro tema toccato dal libro è quello, cruciale per la filosofia dell'arte, del rapporto tra immagini e parole, che nel campo dell'IA è entrato prepotentemente in scena con i sistemi TTI, ma che qui viene affrontato da un punto di vista più concettuale, in un certo senso in continuità con l'opera di Klingemann: quello di un'IA che traduce in parole ciò che vede ma che ha bisogno di un senso, di una direzione. L'opera in questo caso è un romanzo: s'intitola 1 the Road (2018) ed è stato effettivamente scritto da una macchina che riportava, a modo suo, ciò che la telecamera montata su un'automobile osservava nel viaggio tra New York e New Orleans. Il contributo dell'artista umano è però essenziale perché un limite interessante di queste macchine è la difficoltà di dare un senso complessivo alla loro creatività, evidente quando cercano di generare opere che implicano una lunga durata, come appunto un romanzo o una composizione musicale estesa. In 1 the Road il senso/direzione sta nel progetto ideato da Ross Goodwin, che ha ripensato l'On the Road di Kerouac nell'epoca dell'IA e ha trasformato uno strumento di sorveglianza (l'IA che riconosce luoghi, persone e oggetti) in uno strumento narrativo, mettendo se stesso, la macchina e un orologio su un'auto e guidandola verso una meta. Anche qui sono molti gli spunti teorici che Barale sviluppa. Mi limito a citare le analogie tra lo “sguardo” di questa IA, i cui effetti stranianti emergono nelle descrizioni del viaggio, lo sguardo allucinato da LSD dei giovani degli anni Sessanta e lo sguardo diverso, «tattile o olfattivo», del flaneur di Benjamin.
Meno convincente è invece l'analogia, proposta nel capitolo dedicato alla parola-chiave Tempo, tra una temporalità che sarebbe insita nei processi di apprendimento delle reti neurali profonde e l'idea di Benjamin di recuperare il passato «per riattivare le sue possibilità nascoste». Gli errori dell'IA usata dall'artista Sofia Crespo per realizzare le sue bizzarre creature appartenenti a una “storia naturale” alternativa, non sono frutto di una «temporalità irrisolta», ma soltanto possibilità logico-statistiche dello spazio latente esplorato dalla macchina. Molto affascinante è invece il confronto tra queste «creature degli spazi intermedi» dell'IA e l'universo “teratologico” del Codex Seraphinianus di Luigi Serafini.
Un'altra analogia su cui il libro ci invita a riflettere è quella tra memoria umana e spazio latente dell'IA. Ciò che l'analogia mette in luce è «il nesso tra immaginazione e memoria che caratterizza sempre la nostra esperienza». È vero: ricordare è sempre anche deformare e immaginare; cioè, in un certo senso, esplorare lo spazio di possibilità dei ricordi fluidamente immersi nella nostra memoria lacunosa, come la macchina “esplora” l'enorme spazio di possibili deformazioni delle immagini del suo dataset. Ciò che viene oscurato dall'analogia, a mio avviso, è invece il ruolo dell'inconscio, che nonostante le diffuse metafore antropomorfe applicate alla macchina, rimane del tutto estraneo ai processi logico-statistici degli attuali sistemi di IA. Per gli artisti, comunque, l'aspetto interessante è la possibilità di usare l'IA come «stimolo per l'immaginazione», ad esempio per creare non tanto finti ricordi, ma memorie possibili. Si ritorna dunque, ancora una volta, al tema fondamentale del «gioco con le potenzialità dell'AI».
Quanto possa essere fertile – e serio – questo gioco tra arte e IA è ben dimostrato dagli esperimenti teatrali analizzati nell'ultimo capitolo, ricco di esempi e di idee che aprono riflessioni molto stimolanti (del resto, come ricordavamo all'inizio, questo è un argomento in cui l'autrice è personalmente coinvolta). Ad esempio, il rapporto tra la simulazione dell'IA e la finzione del teatro; il dialogo socratico che gli artisti possono instaurare sfidando la retorica sofista delle macchine; il gioco con le somiglianze e le differenze tra attori e macchine; l'interazione che evidenzia la corporeità essenziale dell'umano e la natura puramente “segnica” della macchina; il rischio dell'improvvisazione e l'esercizio di ascolto a cui ci invita l'interazione con queste macchine che parlano come noi ma pensano in modo alieno.
A dispetto del tentativo di irreggimentarlo sotto classiche parole-chiave filosofiche, questo libro è un fluido e cangiante percorso di idee per guardare e pensare con più attenzione un'arte che sa mettersi in gioco e sperimentare un dialogo critico non banale con la tecnologia più simile a noi che sia mai stata inventata. E con cui sempre più dovremo fare i conti.
In copertina, un'immagine dalla produzione teatrale Una isla di Agrupacion Senor Serrano.
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