Intervista a Mario Cresci / Fotografia del no
Attendo Mario Cresci in una stanza della GAMeC di Bergamo, dove sta allestendo la sua mostra antologica. Giungo nella sala espositiva più piccola e intima del museo. Qui sono collocate, agli angoli, due grandi fotografie: Campo riflesso e trasparente (1979). Al centro della sala divengo un punto d’osservazione tra due opere collegate concettualmente. Guardo la reale lunghezza di un metro da muratore che prolunga la sua misura nella superficie di uno specchio. Alle altre due pareti sono appesi ulteriori campi riflessi, scatti che documentano un lavoro site-specific fondato sui diversi spostamenti e gradi della percezione. E qui penso che Cresci, nel suo articolato percorso di ricerca, ha compiuto spostamenti continui al di là dei consueti recinti disciplinari, con una metodologia basata sull’intreccio tra vari linguaggi. Pur privilegiando il medium della fotografia ha innescato anche sperimentazioni extra-fotografiche, migrazioni di ipotesi e di verifiche. Con il coraggio di chi dà molta importanza all’onestà intellettuale e al desiderio di scoprire nuove vie e intuizioni, ha spesso messo in discussione i suoi risultati formali, andando incontro anche alla prossimità del rischio e del fallimento. Si è affidato al sapere antropologico, alla sua fitta rete di rimandi, alla possibilità aperta di molteplici saperi. Mentre lascio andare queste osservazioni nell’attesa, sento la voce di Mario nella sala attigua. Mi stava cercando nel museo. Ci salutiamo con un abbraccio. Mi accompagna nelle altre sale della mostra.
Visto che siamo amici da tempo e conosco la tua visione sull'arte, inizio l'intervista con una provocazione. Tempo fa mi hai raccontato che, in occasione di una conferenza all’Università di Bari, Luigi Ghirri ti ha chiesto (ridendo): "Perché ce l'hai con la fotografia?”.
Sì. Io gli risposi che la sentivo solo come mezzo, un pretesto, un linguaggio, una scrittura non esaustiva ai miei occhi e al mio pensiero. Gli dissi pure che amavo Duchamp piuttosto che Weston, anche se gli riconoscevo il ruolo del maestro. Ma Duchamp andava oltre, andava in un mondo dove l'arte non vive di rendita ripetendo gli stessi codici salvifici per l'artista, perché riconoscibili tra le altre cose anche nel mercato del consumismo artistico. Gli dissi che amavo Picasso, oltre a Duchamp, e che per me i due rappresentavano i punti fondanti della mia formazione, e per questa ragione io non mi sentivo di amare il solo mezzo fotografico, perché preferivo rischiare il fallimento delle mie visioni piuttosto che continuare a produrre belle immagini, certo non straordinarie come le sue, ma che in fondo si sarebbero sempre "protette" nel loro formalismo. Sostenevo l'idea che il mezzo fotografico non era che un pretesto per aprire lo sguardo (ma soprattutto la mente) a nuove ibridazioni o contaminazioni tra i linguaggi dell'arte e della scienza, accettando il fatto di dover fare i conti con gli inevitabili fallimenti che si potevano incontrare verso l'imponderabile o il non senso logico delle immagini.
Osservando attentamente la tua poetica – che ha sempre dato un grande valore alla lentezza della permanenza dello sguardo – si percepisce che non c’è bisogno di grandi e continui spostamenti geografici nel mondo per fare esperienza del valore prezioso della memoria. Ci potresti parlare del tuo rapporto con la memoria e con gli archivi della conoscenza?
Ho sempre pensato che il mezzo fotografico non fosse altro che una specie di cartina tornasole,
inserita nei percorsi della nostra esistenza per misurare le emozioni e la creatività del nostro essere umani e “costruttori di cattedrali”. Mi ha sempre stimolato l’idea che la conoscenza avvenga certamente durante i nostri viaggi o spostamenti, in cui si conoscono nuove realtà e nuove prospettive di vita, ma in alternativa sono sempre stato convinto che in qualsiasi spazio o situazione fisica in cui noi ci troviamo è possibile pensare, agire e immaginare mondi lontani, come forse amava pensare Monet nel suo giardino a Giverny o un fotografo come Ugo Mulas che, nel chiuso del suo studio di Milano agli inizi degli anni Settanta, inventò la serie fotografica delle “Verifiche”, uno dei capolavori della fotografia del Novecento. Qui è importante, almeno per me, la lentezza del vedere le cose piuttosto che la rapidità dell’attimo fuggente, di quel “mordi e fuggi la realtà” da cui mi sono sempre tenuto alla larga.
La lentezza dello sguardo assomiglia molto alla lentezza nel Palomar di Calvino, dove il protagonista osserva ogni minimo spostamento delle onde del mare oppure sembra ascoltare lontani rumori in attesa di sorprendersi con lo sguardo.
Tuttavia non ho mai sposato dogmi, ideologie o teorie che mi rassicurassero su quello che stavo facendo a livello creativo. Penso invece che abbia avuto molta importanza a livello inconscio la presenza quasi endemica del senso di utopia, che mi ha seguito sino a tarda età.
L’utopia, insieme a una forte dose di indipendenza, oggi direi quasi anarchica, mi hanno aiutato a tenere insieme il piacere di conoscere, vedere e comunicare agli altri le mie esperienze, attraverso le immagini, non solo fotografiche, che ho realizzato in tanti anni di attività, nel dettaglio dal 1962 a oggi.
Consideriamo le fotografie filosofiche come casi limite, o come casi ideali per poter analizzare il mondo logicamente, in grado di indurre immagini di teorie o visioni di verità. Anche se riflettono o riproducono stati di cose che provengono dal mondo, a chi non guarda le fotografie in modo ingenuo queste immagini fissate su una superficie piana lasciano presagire che la loro funzione induca sottilmente anche un comportamento magico di riflesso. Pensi che sia ancora possibile utilizzare il medium della fotografia per presagire le risposte della storia, o per viaggiare anche oltre lo spazio e il tempo alla maniera duchampiana, o per indurre visioni “altre”?
Ho difficoltà a pensare alla fotografia disgiunta dalla filosofia. Il linguaggio della visione ha bisogno del linguaggio del pensiero e le immagini non sono altro che proiezioni bidimensionali dei nostri pensieri
cognitivi. Senza la conoscenza e la curiosità del sapere e dello stare nel mondo dei rapporti sociali in piena condivisione con gli altri, le emozioni e le regole della visione sono prive di vita, di profondità, sono solo immagini e basta. Voglio ricordarti una frase molto bella di Susan Sontag, che dice: “Pensare è una forma di sentimento e sentire una forma di pensiero”. E questo è il punto cruciale di un fotografico che non sia solo retinico ma comprensivo di tutta la nostra sensorialità, estesa non solo al referente (il soggetto da fotografare) ma anche alla percezione quasi magica di un sentire soggettivo, che attraverso lo sguardo collega tra loro le relazioni di spazio e di tempo, che sono parti costitutive del singolo soggetto, senza le quali esso si isola, si rinsecchisce in se stesso, diventando pura forma visibile su un foglio di carta fotografica o stampata al plotter. Penso che sia ancora possibile intendere e utilizzare il mezzo fotografico come medium per vedere oltre la realtà dopo averla attraversata, toccata, visualizzata, analizzata, insomma sentita come “passaggio” da ciò che vedo come reale e ciò che immagino esso diventi dopo averlo ripreso in immagine. Tutto avviene in una frazione di secondo oppure dopo lunghi tempi di attesa, questa è la meraviglia dell’arte del vedere. Vedere, vedere, vedere e pensare che il tuo vedere il mondo è un atto di giudizio, un racconto, una forma di comunicazione e di insegnamento tra etica e didattica, un continuo passaggio di senso tra te e la realtà che diventa per me sempre più un pretesto per immaginare altre “non realtà”, altre cose, altre vite, altri sogni e perché no, altre visioni estatiche. Purtroppo non ho studiato filosofia ma ne ho sempre avuto bisogno nel mio piccolo per tracciare il filo rosso delle mie visioni, dei miei momenti di vita, delle mie esperienze di lavoro nella ricerca e nel piacere della sperimentazione.
Dopo aver utilizzato per molti anni la fotografia come vedi oggi questo medium?
Il medium della fotografia è in piena evoluzione tecnologica ormai da alcuni decenni e molti fotografi sembrano non sentire questo cambiamento, pensando solo alla tecnica e poco o nulla al pensiero che sta alla base del linguaggio. Il mondo della fotografia di tradizione si allontana sempre più da me con una velocità che non pensavo, perché in esso non trovo nuove porte che si aprono dopo le stagioni dei grandi paesaggisti, da Walker Evans a Luigi Ghirri, e mi sembra che la loro storia si chiuda dentro all’idea che la fotografia è sostanzialmente “purezza di sguardi” in cui nulla è fuori posto, in una magnifica sinfonia di immagini, in cui luci e forme chiedono continuamente il consenso della visione altrui. Tutto questo non mi soddisfa più, pur avendo molto amato quelle stagioni dedicate quasi esclusivamente all’idea di paesaggio. Considera pure che in Italia, dopo la scomparsa di Ghirri, ci sono voluti decenni per uscire dal “paesaggismo ghirriano”, e ancora prima da quello di Franco Fontana, entrambi inibitori di ulteriori tematiche di progetti e ricerche di senso. Un fenomeno avvenuto solo nel nostro paese, come per altro anche nella fotografia di reportage, e che ancora avviene tutt’oggi, in una sorta di omologazione permanente dello sguardo, come se il mondo restasse immobile e la nostra stessa vita non cambiasse.
Nel momento di “fabbricazione dell’opera”, come si fa a utilizzare il medium della fotografia seguendo lo stupore della scoperta e arretrando verso uno sguardo ingenuo, per recuperare la visione poetica della realtà?
Ricordi le ire di Baudelaire? Come vedi, tu stesso cadi nell’equivoco mentre mi poni questa domanda. Si pensa ancora che il mezzo (non lo strumento) fotografico abbia un forte peso sulla libertà poetica della visione nel momento in cui si “scattano” delle immagini. Sembra che il gelo della tecnica intorpidisca l’immaginario o la poetica di colui che produce l’immagine. Oggi più che mai, invece, la “fabbricazione dell’opera” non passa solo attraverso lo sguardo, ma attraverso momenti di messa in scena o di site-specific di cose, luoghi e persone, grazie alle nuove generazioni di artisti-fotografi, cosa che solo pochi anni fa era impensabile da sviluppare.
Tu hai cercato di rendere visibile con il medium del tuo sguardo ciò che non conosciamo per intero, quella verità che esiste in una zona oscura e segreta anche per noi. Ci puoi parlare della necessità di fare un passo indietro, per lasciare spazio solo al disvelamento di qualcosa che c’era anche prima di sentire l’urgenza di scattare una fotografia, forse per cogliere quel mistero vivo? Non fotografi ciò che sai ma cominci a saperlo fotografando?
La domanda non è semplice ma cerco ugualmente di darti una risposta utile per chi legge ma soprattutto utile a me stesso che in questo nostro dialogo sono costretto dalla memoria (mai del tutto attendibile) a unire o separare il passato con il presente, cercando di non fare troppi danni a coloro che ci leggono e che cercano di comprendere i percorsi di una lunga esperienza di vita.
In questi ultimi anni, aiutato certamente dal mio rapporto continuo con i giovani, la scuola e l’insegnamento – quest’ultimo inteso come laboratorio di ricerca e progetto nell’ambito della fotografia e del comportamento creativo ad essa connesso – ho liberato la mia mente e il mio sguardo in ogni direzione del possibile e dell’immaginario senza porre più confini disciplinari, tematiche, generi o tendenze modaiole che mi avrebbero facilitato nel mercato dell’arte e della commercializzazione del mio lavoro professionale. Ho scelto il punto più alto di accettazione delle mie incertezze, dovute alle mie scelte di vita, per poter liberare la mente da ogni azione ripetitiva che mi avrebbe condizionato o limitato quel senso di libertà e d’improvvisazione che si prova ogni volta che si apre un nuovo progetto, una nuova esperienza, nuove emozioni e nuove conoscenze.
Credo che non si debba vivere di rendita su ciò che siamo riusciti a fare meglio. E credo che ogni volta si possa rinnovare quel senso di piacere dell’immaginazione, nato da una forte immersione emotiva e razionale del mondo reale. Il momento finale in cui appare l’immagine stampata su un supporto, sia esso cartaceo o di altra natura, è il momento di trasmissione di tutto ciò che abbiamo messo dentro al pensiero e all’azione della ripresa fotografica. Dentro a ogni fotografia è più importante ciò che non si vede a prima vista rispetto a ciò che si vede immediatamente. Siamo attratti dalle immagini, ma il nostro sguardo non riesce a vedere e a comprendere quello che c’è al di sotto della loro superficie. Sono nascoste ma presenti la memoria e la conoscenza, da intendere come la nostra identità espressa senza mezzi termini in immagini, allo stesso modo di come nella pasta pittorica di un dipinto o nei gesti di una azione performativa si riconoscono e si sentono i pensieri e le vite dei loro autori.
Cosa intendi per "fotografia del no", titolo che hai scelto per la mostra alla GAMeC di Bergamo?
Essere dentro "La fotografia del no" significa per me prendere le distanze da un post-pittorialismo fotografico che, tutt’oggi, mescola immagini, segni e post-produzione digitale, ai fini di una affabulazione visiva e forme di spettacolarizzazione. Mi interessa di più aprire aree di riflessione teorica sulle nuove generazioni di artisti, per capire le loro tematiche, per iniziare nuove esperienze, per ribadire ogni volta un no a una fotografia passiva e solo "retinica", a fronte di una fotografia aperta, a un guardare le cose dentro, piuttosto che al loro esterno. Da qui la necessità di avvicinarmi maggiormente al mondo dell'arte piuttosto che al mondo della fotografia.
Come è strutturata la mostra?
Nelle sale della mostra, in un racconto libero e senza tempo, mescolando volutamente le date, ho esposto la parte più significativa di quelle opere che ho realizzato prima nel nord e poi nel sud Italia, per poi ritornare al nord dalla fine degli anni Ottanta a oggi. Tre stagioni della mia vita che mi hanno consentito di conoscere, di interpretare e di interagire con le realtà in cui ho vissuto e non solo. Una molteplicità di esperienze umane e ambientali tanto spiazzante da generare momenti di cedimento e di dubbio poi superati attraverso una più profonda conoscenza di me stesso. Per queste ragioni i cambiamenti hanno segnato nel tempo le mie opere, rendendole non sempre riconducibili a una chiara continuità formale. Nella ricerca d'inserimento personale in contesti sociali che non conoscevo, ho pensato che la fotografia e la grafica potessero diventare un forte mezzo di comunicazione reale a fronte di un’ansia di creatività che riempiva di progetti le cassettiere del mio studio. Non aveva senso pensare e produrre cose che forse non si sarebbero mai realizzate in contesti sociali recidivi ai cambiamenti, dai quali avrebbero tratto un innegabile beneficio. Ma procedevo ugualmente nell'emozione del vedere e del fare, cercando e trovando il modo di svelare magie di luoghi apparentemente asettici e privi di attrazione percettiva. In questa sospensione temporale in cui nulla sembrava realizzarsi, c’era sempre la speranza che un’evoluzione e una diversa visione delle cose da parte della società in cui vivevo rendessero realizzabili i miei progetti. Ma come? Un'arte pubblica? Oppure un'arte puramente sociale, tra design e comunicazione? Un'arte estranea ai modelli del sistema a quelli delle gallerie e dei collezionisti? Forse un'arte-non arte?
La mostra di Mario Cresci “La fotografia del no, 1964-2016”, si tiene al GAMeC di Bergamo fino al 17 aprile 2017. Tutte le notizie più importanti relative alla vita e all’opera di Mario Cresci e alla mostra si trovano qui.