Due mostre / Magritte Berger, storia di un nome
Dal nove ottobre è in corso alla Fabbrica del Vapore di Milano “Inside Magritte”, un percorso espositivo multimediale, curato dalla storica dell’arte belga Julie Waseige, di centosessanta immagini di opere di René Magritte (1898-1967), dagli esordi fino agli ultimi capolavori. L’undici ottobre, il Palazzo Blu di Pisa, ha inaugurato la mostra “da Magritte a Duchamp.1929: il Grande Surrealismo dal Centre Pompidou”, curata da Didier Ottinger, che ospita circa centocinquanta opere – dipinti, sculture, disegni, collage, installazioni e fotografie – dei maggiori esponenti dell’avanguardia surrealista, tra cui: René Magritte, Salvador Dalí, Marcel Duchamp, Max Ernst, Giorgio De Chirico, Alberto Giacometti, Man Ray, Joan Miró, Yves Tanguy, Pablo Picasso.
La presenza di Magritte sia a Milano che a Pisa, mi ha fatto ripensare alla vita del pittore belga e all’esortazione «Vieni a fare un giro!», che il quindicenne René rivolse alla dodicenne Georgette Berger, figlia del macellaio di Charleroi. In questa città, dove dal 1913 andò a vivere la famiglia Magritte, si svolgeva una fiera che ospitava una giostra. Il primo gesto che avvicinò René alla sua futura moglie Georgette fu l’invito a un giro di giostra, come le parole di quest’ultima testimoniano.
A Charleroi, dove ho trascorso la mia infanzia, c’era una fiera… Sulla piazza, nella parte alta della città, c’era una giostra. «Vieni a fare un giro!», mi disse un ragazzo. (Magritte - his work his museum, Ed. Musée Magritte Museum/Hazan, Vanves Cedex, 2009, catalogo del Museo Magritte di Bruxelles.)
Il giovane artista belga e Georgette si sposarono nel 1922. In quello stesso anno, René espose sei quadri in una mostra internazionale organizzata ad Anversa, sotto il nome di “Magritte Berger”.
Magritte amava accostare immagini e nomi apparentemente inappropriati. Anche per questo dedicava molto tempo al collage. Gli consentiva di creare composizioni libere, inusuali. Lo considerava un ottimo esercizio per separare gli oggetti dai loro contesti funzionali. Era per lui un principio poetico le cui possibilità si prestavano a venire esplorate e trasferite sulla tela.
La sua passione per il collage, nata dalla scoperta delle opere di Max Ernst, non spiega tuttavia perché Magritte si presentò spesso al mondo sotto un’identità fittizia che includeva quella di sua moglie. Nel 1925 firmò “René Georges” la canzone Norine Blues che scrisse assieme a Georgette e che compose suo fratello Paul Magritte in occasione dell’evento “Gala des choses en vogue”, organizzato dalla casa di moda Norine. Nel 1936 firmò col nome di “Florent Berger” gli articoli che pubblicava per il quotidiano comunista “La Voix du peuple”.
“Magritte Berger”, “René Georges” e “Florent Berger” sembravano essere un gioco di René e Georgette, il loro giro di giostra.
Chi era Norine? Norine era Honorine Deshrijver che, insieme al marito Paul-Gustave van Hecke, aprì la casa di moda per cui lavorò Magritte realizzando pubblicità legate a eventi e attività affini. Magritte fu disegnatore di copertine di dischi, di poster, di riviste. La sua attività fu varia, come le sue firme.
La fusione divertita del pittore con sua moglie è rintracciabile anche nelle foto Love e The Shadow and Its Shadow, rispettivamente del 1928 e del 1932, che ritraggono i due coniugi. Nella prima, l’artista poggia un pennello sul corpo della moglie come se lo posasse su una tela. La dipinge, la crea. Nella seconda i ruoli si capovolgono. Georgette è in primo piano e René è dietro di lei, è la sua ombra. È Georgette a creare Magritte, assieme alla luce, poiché ogni ombra è creata da un corpo e dalla sua posizione rispetto a una fonte luminosa.
Nell’universo fantastico delle fiabe, così come nei miti, molti sono i casi in cui un essere viene creato da un altro a partire da elementi semplici: acqua, terra, farina, sale, vento.
La foto di Magritte e Georgette, Love, può rimandare alla fiaba Re Pepe, presente nella raccolta di fiabe e novelle calabresi di Letterio Di Francia, pubblicata da Donzelli e curata da Bianca Lazzaro. In Re Pepe è la figlia del re a creare il suo sposo con farina e zucchero:
Una volta c’era un re; la moglie era morta lasciandogli una sola figlia. Siccome era in età da maritarsi, arrivarono proposte da figli di re, marchesi e conti; ma lei le rifiutava tutte e non si voleva maritare. Un giorno il padre la chiamò e le disse: «Figlia mia, perché non ti vuoi maritare?». «Papà – rispose lei – se voi mi volete maritare, mi dovete dare un quintale di farina e un quintale di zucchero, perché lo sposo me lo voglio fare con le mie mani».
Il pittore belga e sua moglie si crearono a vicenda, e forse è dalla peculiarità del loro incontro che nel 1988 nacque la stanza “René e Georgette Magritte” all’interno del Museo Magritte di Bruxelles.
Le opere dell’artista ci raccontano di sogni e visioni provenienti da una lucida e ferma osservazione del reale. Il modo in cui Magritte riuscì a guardare e a raffigurare le cose è simile a quello di Funes, protagonista del racconto di Borges “Funes, o della memoria” della raccolta Finzioni edita da Einaudi. Funes può essere letto come una caricatura della poetica magrittiana. Di Funes ci viene raccontato che fu travolto da un cavallo selvaggio e che, in seguito a questo incidente, rimase paralizzato ma si scoprì dotato di una memoria e una percezione straordinarie. Sappiamo che, dopo l’incidente, trascorse il suo tempo su una branda fissando dettagli, una ragnatela, un albero di fico dalla finestra.
Il presente di Funes era denso di particolari, scorci, angolazioni, elementi. Era un presente ricco anche di ricordi, poiché la sua memoria era incredibilmente estesa.
Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e banali. Poco dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.
La percezione di Magritte era nitida come quella di Funes. Vedeva gli oggetti assieme a tutte le parti di cui erano fatti, per questo poteva scomporli, muoverli, ricomporli e dare loro nuove e inedite collocazioni. A questo invitava il collage.
L’opera d’arte diventava così un nuovo e sorprendente ordine nato dal disordine e dal gioco.
Magritte non viaggiò molto, come Funes. La sua vita, fatta eccezione per il periodo parigino e qualche viaggio, si svolse a Bruxelles.
Forse il segreto per sviluppare una buona memoria e una percezione attenta risiede nel coltivare una vita stabile, di pochi spostamenti, nell’avere quel tempo che erroneamente viene definito “morto” e che permetterebbe ai nostri occhi di aprirsi al dettaglio, alle piccole e grandi narrazioni che sa offrirci la realtà.
Le diverse firme che uniscono il pittore belga alla moglie sono il risultato della medesima poetica che scompone e ricompone le parti. Sono un ibrido di realtà e finzione, come i quadri di Magritte. Appartengono a personalità immaginate, possibili. L’artista belga era ossessionato dalle infinite possibilità che porta con sé ogni presente e che spesso rimangono celate nelle sue pieghe.
Le distinte firme ideate dal pittore, probabilmente insieme alla moglie, possono essere intese come un tentativo di esplorare le possibilità ignorate della vita o come un’esortazione a giocare e a invitare chi ci è più prossimo a un giro di giostra.