I tuoi occhi non sono sulla tua pancia
Quando si inizia un lavoro nello studio di Frank Horvat, a turno qualcuno pone agli altri una domanda: oggi che lingua parliamo? Di solito si riescono ad incastrare tre lingue: inglese, francese e italiano.
Vengono utilizzate a seconda della complessità dell’argomento: più tecnico o più riflessivo, si scherza in francese, per gli aneddoti preferiscono tutti l’inglese e via così.
Frank Horvat sa cambiare in fretta registro, nell’utilizzo delle parole così come nella fotografia, dove è passato dall’analogico al digitale senza rimorsi.
Oggi vanno molto di moda due tipi di fotografi: quelli che disprezzano il digitale e quelli che si affrettano a dire di essere stati i primi a utilizzarlo.
Ma una cosa è usare una scheda di memoria al posto un rullino, un’altra è concepire un’App come Horvatland, in cui la doppia dimensione orizzontale e verticale viene sostituita dal concetto di tempo e profondità di ricerca e navigazione.
Quando ho chiesto a Frank Horvat di raccontarmi un momento della vita in cui gli è capitato di scegliere e non avere alcun rimorso, immaginavo mi parlasse delle sue macchine fotografiche.
Horvat è uno dei pochi fotografi con cui è interessante parlare di tecnologia perché si va alla radice delle cose, si prende il digitale come uno strumento che non tarocca né semplifica proprio nulla ma che è lì per porre nuovi spunti sempre più complessi, e non si perde fiato chiedendosi se fosse meglio misurare in ASA o in ISO.
Questa è la storia che mi ha mandato (e naturalmente, mi ha inviato anche questa versione inglese)
(Introduzione e traduzione di Enrico Ratto)
Non mi è mai piaciuto portare pesi: il miei propri chili, che nei momenti peggiori sono arrivati a quasi 100, mi bastano largamente. È per questo che non ho mai scalato montagne con uno zaino sulla schiena. Ed è anche per questo che ho preso al volo il consiglio di Henri Cartier-Bresson, quando l’ho incontrato per la prima volta nel 1950 e mi ha persuaso che la mia Rollei non solo era ingombrante, ma era anche stupida (“i tuoi occhi non sono sulla tua pancia!”). Lo strumento ideale, secondo lui, era la Leica.
Solo che l’unica Leica che al potevo allora permettermi era di seconda mano, con un obiettivo di 50mm la cui definizione lasciava a desiderare. Io stesso non me ne accorsi (i miei propri occhi non sono così buoni). E comunque le foto che scattai durante il mio viaggio di due anni in India furono pubblicate da molte riviste e nessuno se ne lamentò mai.
Ma a quel tempo le Leica erano più leggere. Poi diventarono più pesanti. E le fotocamere mono-obiettivo reflex (SRL), che in seguito preferii perché permettevano di controllare meglio la profondità di fuoco, lo erano anche più, con tutti i teleobiettivi, fish-eye, treppiedi e il resto.
Così, quando vent’anni dopo tornai in India, mi feci accompagnare da Christine, la mia assistente. Era una ragazza adorabile che col tempo diventò una buona amica e un’eccellente fotografa. Mi arrivava (e mi arriva tuttora) alle spalle, ma si sentì in dovere di portare tutto quel peso, io precedendola maestosamente senza portare nulla. In un villaggio del Punjab, dove portare pesi è il compito delle donne, questo poteva sembrare normale. Ma quando andammo fare il ritratto di Indira Gandhi e passammo davanti alle sentinelle al cancello del suo palazzo, mi sentii un po’ imbarazzato.
Qualche anno dopo, fotografando la moda nel mio studio a Parigi, e pur continuando a usare un 35mm, mi ci vollero tre assistenti per spostare tutti quei flash e quegli sfondi. Senza parlare delle persone del laboratorio, per lo sviluppo, la stampa e il ritocco.
Fu per questo che non sentii il minimo rimorso quando acquistai, nel 1992, il mio primo Macintosh, con la versione 1.0.0 di Photoshop, e quando cominciai a sbarazzarmi di tutti quegli aggeggi obsoleti. In realtà, non proprio sbarazzarmi (non avevo dimenticato il loro prezzo), ma chiuderli in un armadio in fondo al mio studio, dove li lasciai riposare in pace con la sempre più vana speranza di venderli un giorno per quattro soldi a qualche nostalgico.
In realtà ci furono momenti in cui provai rimorso: come quando ripensavo a un certo progetto sugli alberi, per cui utilizzai pellicole Kodachrome. In certi casi, scattando, non avevo notato i fili elettrici nello sfondo, e questi apparivano proiettando le diapositive, e facevano pensare a un boschetto di periferia. Qualche colpo di mouse ne avrebbe fatto una foresta vergine. Ma Photoshop non esisteva e le diapositive finirono nel cestino.
Era il tempo quando mi chiedevo, anche se l'idea poteva sembrare blasfema, se l'Onnipotente non aveva creato il Cielo e la Terra, e successivamente Adamo ed Eva, coll’espresso proposito che l'uomo perfezionasse la sua Creazione inventando il personal computer. E non credo di essere stato il solo a pensarlo: se no, perché Steve Jobs l’avrebbe chiamato Apple?
È vero che alcuni dei miei migliori amici non condividevano quest’idea. Primo fra tutti Cartier-Bresson. E devo ammettere che non aveva interamente torto. Se al suo tempo Photoshop fosse stato disponibile, lui non avrebbe mai pensato a fotografare il salto di quell’uomo sopra quella pozzanghera. Oggi, chiunque può fare un fotomontaggio di un uomo che salta sopra la Senna!
Ma va detto che Cartier-Bresson non si aggregò mai all’allegra banda del digitale. Come molti dei miei amici fotografi furono tra gli ultimi a saltare su quel treno – dopo i generali, i banchieri, i chirurghi, i pizzicagnoli, i poliziotti, gli imbroglioni e le puttane – perché per loro la fotografia era la una specie di scienza segreta, un po’ come leggere e scrivere per i mandarini. Per quanto mi riguarda, non rimpiango la segretezza. E non mi importa che Tonino e Tonina sparino i loro selfies e inondino il web con miliardi di scatti! Ho altri segreti in serbo.
Oggi la compact digitale che porto nella tasca sinistra dei pantaloni non pesa molto di più del portafogli con le mie carte di credito, anche se può registrare una varietà di situazioni molto più grande che tutti gli apparecchi e obiettivi in quell’armadio.
Ma sono apparsi altri problemi: mi tocca armeggiare un po’ per estrarre quella compatta dalla tasca – abbastanza per farmi scappare una buona foto – e i tasti di controllo sono troppo piccoli per le mie dita. Per non parlare delle complessità dell'interfaccia, che imbarazzerebbero un Einstein. Ma son cose a cui si troverà un rimedio. Fotocamere molto più piccole saranno inserite negli occhiali, e si potranno far scattare col battito di un occhio.
Quello che resterà senza rimedio sarà l'inflazione di immagini: come è diventato sempre più facile far foto, diventerà sempre più difficile far foto che attirino l'attenzione. Auguro buona fortuna ai miei successori!