Nuove scritture per un teatro vivo / Liv Ferracchiati: alla faccia del “gender”
Nel panorama della nuova drammaturgia under 35 Italiana, Liv Ferracchiati occupa un posto notevole. Todi, classe ’85, Dams di Roma, un diploma in regia alla Paolo Grassi di Milano. Assieme alla sua giovane compagnia The Baby Walk ha composto una complessa Trilogia sull’identità che, in seguito all’elezione alla Biennale Teatro di Venezia targata Latella, il Premio Hystrio “Scritture di Scena”, la vittoria del Premio Scenario 2017, attualmente porta in giro per l’Italia. Elemento caratteristico ma non esclusivo della Trilogia – composta da Peter Pan guarda sotto le gonne, Stabat Mater e Un esquimese in Amazzonia – è che il protagonista di ogni capitolo è una persona transgender “f to m”, ovvero che transita dal genere femminile al maschile, ogni volta di diversa età, consapevolezza, aspirazioni. I lavori – ognuno dissimile dall’altro per lessico scenico e scrittura – attraversano temi variegati che solo a una lettura superficiale sembrano confluire unicamente nel discorso identità di genere. La Trilogia indaga piuttosto le crepe emotive, le oscillazioni, i traumi, la crisi della generazione under 35 dell’Italia di oggi, figlia di Berlusconi prima e del qualunquismo sessista e patriarcale poi, con un’ironia leggera e soluzioni sceniche minimali a favore di una scrittura genuina, semplice, efficace: alla portata di tutti. Ci incontriamo nella sala del Piccolo Bellini di Napoli cui va il merito di avere ospitato nello scorso febbraio per la prima volta un lavoro di The Baby Walk, in particolare Un eschimese in Amazzonia, ultima parte della Trilogia, in cui Liv – a differenza dei primi due capitoli – è in scena nella parte del protagonista. Liv ha un modo di parlare sommesso ma deciso, molto chiaro. La nostra chiacchierata è interessante perché nel corso del suo svolgimento cambiano i fuochi della conversazione, i punti di vista. Davanti a me ho un giovane e promettente drammaturgo che assieme alla sua compagnia ha attraversato il tema dell’identità di genere come una qualsiasi altra questione: ciò che importa è che fosse urgente e interessante in quel momento. Colpisce (ma non deve sorprendere) che spesso a destare l’attenzione di pubblico e addetti ai lavori sia la fluidità di genere dell’artista (e le immaginate connessioni tra bio e spettacoli) e non la completezza organica del progetto. Sarà che parlare d’identità di genere è ancora un mezzo tabù; che poche compagnie hanno attraversato in maniera così esaustiva – e lungi da spettacolarizzazioni glamour – questo tema verso cui al contrario le nuovissime generazioni si dimostrano molto più spigliate. In un certo senso, Liv incarna fino in fondo il senso del protagonista del terzo capitolo della sua Trilogia: una sorta di “eschimese in Amazzonia”, dove al posto di Amazzonia si può tranquillamente leggere provincia Italia. Se la nostra società (teatrale e non) fosse evoluta, quale sarebbe la necessità di considerare il lavoro di The Baby Walk solo dal punto di vista del “gender”? La parola all’eschimese.
Ps. La metafora che dà il titolo allo spettacolo proviene dall’introduzione a un testo sulla de-patologizzazione della transessualità di Porpora Marcasciano, sociologa e storica attivista per i diritti delle persone transgender in Italia.
Com’è iniziato il tuo rapporto con il teatro?
Per me l’approccio al teatro è la scrittura: ricordo che era un modo di giocare. A dodici anni mi ero messo in testa di scrivere una sceneggiatura, senza avere idea di cosa fosse. Col tempo mi sono reso conto che tendevo verso una scrittura non narrativa, qualcosa che non poteva restare su carta ma andava detta, agita. A diciannove anni, dopo le prime esperienze di teatro al liceo, ho creato una compagnia con cui mettevamo in scena quello che scrivevo. Grazie a questo, ho appreso tante cose dal punto di vista pratico e organizzativo che servono per fare teatro. Oltre alla Trilogia ho all’attivo una decina di spettacoli. Alla Trilogia ho iniziato a lavorare nel 2013, avevo circa ventisette anni.
La Trilogia di Baby Walk affronta – tra le altre – la tematica dell’identità di genere. Il protagonista di tutti e tre i capitoli è una persona transgender, che transita dal genere femminile al maschile. Quali sono i fuochi che hanno ispirato il lavoro? Quanto ha influito il tuo aspetto biografico? Ce n’era bisogno in Italia?
È difficile dirlo. Quello che mi affascina dell’argomento è l’atto di liberazione che una persona transgender fa, nel permettersi di ricostruire, di riappropriarsi della propria identità che è altro da quello che ti hanno assegnato. In generale gli atti di liberazione da alcune regole – che poi non sono altro che convenzioni sociali – al di là dell’argomento, mi affascinano molto. Il teatro è il luogo dove puoi sperimentare le possibilità, ricercare a fondo la natura umana, indagare le possibilità dell’essere umano. Nel caso specifico della Trilogia, la possibilità è quest’oscillazione tra il maschile e il femminile. Lavorando su questo tema ci siamo resi conto di come chiunque di noi oscilla tra i due generi. Poi c’è una predominanza che non saprei neanche come definire: non è solo culturale, non è solo espressione di un ruolo di genere, né aderire a una psicologia che è appunto l’identità di genere. È piuttosto qualcosa di energetico. È questo che mi affascina del teatro: un luogo dove da sempre i giudizi sono sospesi che ti dà la possibilità di sperimentare in questo caso quello che è il maschile e il femminile. Questo ha aiutato gli altri a entrare nell’argomento e a recitarlo, me a metabolizzarlo, capire di cosa si tratta. Ora mi remo contro: se fossimo evoluti a tal punto da capire e accettare che questa cosa è connaturata con la natura umana non ci sarebbe niente di cui parlare; o meglio, la Trilogia rimarrebbe perché racconta qualcosa che va al di là dell’identità di genere. Solo il terzo capitolo (Un eschimese in Amazzonia) è più incentrato sull’incontro/scontro dell’individuo con la società, ma gli altri episodi raccontano storie universali. Peter Pan guarda sotto le gonne è incentrato sull’infanzia di un bambino transgender, la scoperta dei primi impulsi sessuali, il soffocare la propria natura per non farsi notare e potere vivere serenamente in mezzo agli altri. Stabat Mater affronta il diventare adulto, il rapporto con la madre, la necessità di recidere questo cordone ombelicale, la difficoltà economica del lavoro, l’ambizione dell’essere uno scrittore. Insomma tutto quello che attiene alla sfera dei trentenni di oggi e le difficoltà che ci sono per la nostra generazione.
In che modo è nata la Trilogia? Avete fatto delle ricerche per affrontare questo argomento?
Quando abbiamo iniziato nel 2013 tutto questo chiacchierare di questo concetto inventato, ossia il “gender” – mi fa ridere pronunciare questa parola in quest’accezione – non esisteva. È successo qualche anno dopo. All’inizio avevamo preso la questione da un punto di vista più superficiale. Avevamo conosciuto Jacopo, fondatore del canale Youtube “FTM Italia” e seguivamo il suo percorso di transizione che, in questo caso, era anche fisico. Mi piaceva molto di lui il suo trattare l’argomento con ironia. Però poi, mentre lavoravamo ci siamo resi conto che la transizione inizia prima, quando c’è una sorta di click mentale e capisci che puoi vivere quello che sei, al di là dell’aspetto fisico. Questo ci sembrava il punto più interessante. Abbiamo fatto diverse interviste, raccolto tante storie. A un certo punto ho smesso di usare il registratore: la nostra non era una ricerca antropologica, m’interessava di più la suggestione che non la precisione del dettaglio. Alla fine abbiamo deciso di concentrarci sul viaggio da donna a uomo da un punto di vista mentale, appunto, perché ci sembrava un aspetto meno conosciuto, più latente, sommerso.
I tre capitoli della Trilogia si compongono di linguaggi scenici diversi: dalla danza al teatro tout court all’improvvisazione in una sorta di stand up comedy. Tu sei in scena solo nel terzo episodio. Perché? Dove ti collochi? Che rapporto hai con la scena?
Io non sono un attore. Sono prima di tutto un drammaturgo e poi un regista. La regia è per me una sorta di seconda scrittura che passa attraverso la recitazione degli attori. Nel terzo capitolo mi divertiva svelare l’autore del progetto, per questo sono in scena.
Si lavora sulla fragilità della parola nel senso dell’improvvisazione perché una persona transgender si trova spesso a improvvisare nel presentarsi agli altri: ogni volta devi scegliere la strategia per comunicarti. Credo che ci sia un mio tratto autorale molto riconoscibile in ognuno dei tre capitoli, ma sono tre spettacoli completamente diversi dal punto di vista della costruzione e del linguaggio scenico. Il primo lavora sul movimento e sulla parola; è scritto insieme all’altra drammaturga della compagnia, Greta Cappelletti. Tra l’altro, raccontando due bambini, abbiamo cercato di ricostruire la semplicità di dialogo di un undicenne e una tredicenne. Spesso andavamo al Parco Ravizza a Milano dove c’è una scuola e cercavamo di ascoltare il modo di parlare dei ragazzi di quell’età: mi ha aiutato, anche se la storia è ambientata negli anni novanta. Questo è un punto fondamentale perché non c’era internet a portata di mano: quello che provavi non era facile da riconoscere in un modello o in qualcosa che ti potesse aiutare a capire quello che ti stava succedendo. Io uso dire che Peter Pan usa le parole come mancanza, ovvero non sa esprimere quello che gli succede. Nel momento in cui verbalizzi qualcosa, non ti fa più paura. Stabat Mater, invece, nella sua forma più “classica”, usa la parola come strumento per costruire la propria identità.
Parliamo delle reazioni del pubblico alla Trilogia.
Ce ne sono di diverse. Le donne sono più in ascolto e magari restano anche conturbate dal personaggio di Stabat Mater che è un po’ un involontario, in parte goffo, seduttore. Magari scoprono una possibilità ulteriore… un po’ esotica (ride). Sono anche più in grado di percepire l’energia maschile che viene da un corpo femminile. Gli uomini, soprattutto quelli più avanti con l’età, a volte si sono messi sulla difensiva o hanno sentito come eccessive alcune scene riguardanti la masturbazione. Faccio riferimento al Peter Pan, dove c’è la scoperta dell’impulso sessuale di un corpo femminile, ma vissuto al maschile. Altri restano infastiditi dal personaggio di Stabat Mater forse perché si vedono messi a nudo nei lati meno piacevoli dell’essere uomo. Queste però sono tutte generalizzazioni, perché molti uomini hanno mostrato di comprendere profondamente quello che hanno visto in scena. In linea di massima l’accoglienza è stata calda e positiva. Ti accorgi quando il pubblico è con te. Negli spettacoli della Trilogia l’ho sentito quasi sempre con noi, anche contro, ma presente in senso positivo.
L’ultima data di Un eschimese in Amazzonia al Teatro India è stata particolarmente significativa, c’erano moltissimi ragazze e ragazzi che hanno partecipato con un tale entusiasmo e apertura che ho sentito che, in fondo, possiamo ancora sperare per il futuro. E non parlo del mio teatro, ma della possibilità di un progresso nella conoscenza di sé nella società.
La tua scrittura attraversa stili diversi. C’è qualche modello cui t’ispiri di più?
Ho sempre visto molto teatro ma secondo me l’influenza maggiore paradossalmente viene dal cinema: da Truffaut a Woody Allen, da Billy Wilder, Nanni Moretti. Tra i nuovi mi piace l’ormai citatissimo Xavier Dolan. Più cinema che teatro. Non tanto per lo stile, in realtà, mi piace come il cinema arrivi quasi sempre in modo immediato.
The Baby Walk è una compagnia giovane, under 35 e indipendente. Quali sono i vostri prossimi progetti?
Ora abbiamo ancora altre date con la Trilogia e stiamo appunto cercando di capire come costruire il percorso per il prossimo lavoro, siamo in fase di studio. Personalmente adesso sto lavorando a un nuovo testo, produzione del Teatro Stabile dell’Umbria, Commedia con schianto. Struttura di un fallimento tragico. È il racconto di un autore under 35 e di una sua crisi che mette in discussione il suo valore artistico ma tutto questo è pressato dal fatto che l’attuale sistema teatrale ti chiede di produrre un testo dopo l’altro. È una sorta di satira.
Tu curi anche dei laboratori di scrittura. Parliamo della nuova drammaturgia under 35 in Italia.
“Rivoluzione privata” è un laboratorio di idee: ha la finalità di innescare un processo creativo e magari anche una piccola drammaturgia o scrittura scenica. L’obiettivo è portare l’attenzione non sul risultato ma sul processo. Si punta sul discorso della rivoluzione privata – in maniera anche ossimorica – perché si cerca di innescare un processo creativo dettato da un interesse reale. Spesso la cosa più complicata è individuare cosa si vuole ricercare. Si parla di povertà di risultati e di argomenti nel teatro under 35 sì ma forse perché non c’è un qualcosa che ti spinge e ti porta a lavorare in una direzione. Spesso o si è protetti dalla riscrittura di un classico – può piacere o meno, però sei dentro un contenuto noto – ma se ti butti con una drammaturgia nuova, un argomento poco conosciuto che viene frainteso ti ritrovi appeso nel vuoto. Quindi, rispondendo alla tua prima domanda, forse c’era bisogno di scrivere una Trilogia sull’identità, è anche un atto di coraggio. Come a dire: può esistere qualcosa che non si appiglia a nient’altro di noto, che richiede uno sforzo in più nella lettura del contenuto. Ce n’era bisogno per lo scontro, a volte dialettico, che viviamo su alcuni argomenti e perché, teatralmente, bisogna dare spazio e possibilità alla drammaturgia originale. Solo che spesso, nel mio caso, si è ridotto tutto a: è auto biografico o non è auto biografico”. Bisogna scavalcare il gusto voyeuristico per entrare davvero in un lavoro, altrimenti si sposta il fuoco e ci si avvicina al talk show. Secondo me non è interessante se io quella roba l’ho vissuta o no, ma se riesco a farla funzionare teatralmente.
Cosa stai leggendo in questo periodo?
La morte a Venezia di Thomas Mann.
Tutte le foto, eccetto la terza che è di Valeria Tomasulo, sono di Andrea Macchia.