Il Darwin inconsolabile di Calamaro / Una lenta Apocalisse
Riccardo Goretti entra in scena trafelato, spingendo sul palco vuoto un carrello del supermercato colmo di vivande e le prime parole che pronuncia sono dedicate alla voce pre-registrata che qualche secondo prima ha annunciato Darwin inconsolabile (un pezzo per anime in pena) di Lucia Calamaro e gli altri spettacoli in programma negli spazi del Teatro di Roma: sornione e perplesso rimarca l’errore di pronuncia della voce (che effettivamente ha detto Tumas e non Thomas Bernhard), aggiungendo che un tempo le voci nei supermercati non informavano i consumatori sugli spettacoli che si svolgono al Teatro Valle ma su quale scaffale si trovano i generi alimentari, e il pubblico della sala b del Teatro India ride deliziato per quell’indecidibile eccesso di presenza che lo rintrona come un colpo di gong: è tutto improvvisato, come negli spettacoli degli stand up comedians, o al contrario è tutto programmato, è tutto scritto (persino l’errore di registrazione) da una mano invisibile e onnipotente? E a cosa prelude quel gustoso qui pro quo tra spettacoli e merci, tra cultura e alimentazione? Ma non c’è il tempo di metabolizzarlo perché dalle quinte entrano una dopo l’altra tre donne con i loro carrelli, anzi le due più giovani, Gioia Salvatori e Simona Senzacqua, con i loro carrelli, la più anziana, Maria Grazia Sughi, entra per ultima trascinandosi appresso una di quelle aste ospedaliere su cui di solito è appeso il sacchetto di una flebo, mentre su questa è issata una piuma di struzzo.
Una madre, tre figli al supermercato, una famigliola di consanguinei che fa la spesa, niente di più comune, ma così come nei film di Buñuel può accadere che un cameriere e un vagabondo comincino a discettare sulle eresie del XIII secolo e sulla presenza reale del corpo di Cristo nell’ostia consacrata, nelle pièces di Lucia Calamaro può accadere che una madre e una figlia prendano a disquisire davanti a un frigorifero della scena primaria freudiana, o, come nel caso di Darwin inconsolabile, di evoluzione, dialoghi inter-specie, personalità vegetali: le sinuose e imprevedibili scritture drammaturgiche dell’autrice de L’origine del mondo ci hanno svezzato all’esistenza di una borghesia fantastica che in scena dà sfogo ai suoi fluviali non detti, a una selvaggia terapia della parola che non conosce confini tra la nevrosi psichica e l’allucinazione culturale. Ogni spettacolo è soltanto ritagliato, talvolta brutalmente scontornato, dalla materia di un intrattenimento infinito, frammento e insieme capitolo di un romanzo interamente affidato alle voci della scena – ed è più unica che rara questa equazione tra letteratura e teatro che Calamaro pratica con assiduità, e con tutti gli squilibri del caso, da ormai vent’anni a questa parte, conferendo ai poteri sciamanici della parola anche il compito di intercettare quel che è più irriducibile alla concentrata economia mimetica della scena, e cioè il paesaggio (sono gli sciamani che per far apparire il cielo salgono su un albero, agitano le fronde, imitano il gorgheggio degli uccelli).
Darwin inconsolabile potrebbe rientrare in un ipotetico “ciclo della madre” perché, disossando la trama dalle digressioni che la assediano, si otterrebbe la storia di un’anziana artista “contemporanea” incline all’affabulazione e alla clownerie che, ispirandosi a uno strategico comportamento animale, la tanatosi (che per altro è lei stessa a descrivere), annuncia ai figli la propria morte imminente nel bel mezzo di un supermercato, producendo, come primo risultato, lo svenimento della figlia minore, Gioia, la più dipendente da lei, che si piega in due sul suo carrello, mentre Riccardo e Simona scrollano le spalle davanti all’ennesima pagliacciata di una donna di cui più volte vengono stigmatizzati gli eccessi performativi (e chi ha orecchie per intendere, intenda).
Ma ancora una volta il “come” moltiplica il “cosa”, lo rimpingua e lo sfaccetta come un diamante: è anche la storia di un apocrifo testo di Darwin donato a una bambina (Simona) per il suo compleanno, è lo svisceramento di una relazione a dir poco perturbata con il vivente e con le merci, soprattutto sub specie alimentare: riportata a casa, la madre si ritrova adagiata su un letto circondata da ortaggi ormai marci che dovrebbero trasmetterle linfa vitale, una (de)composizione che più che richiamare Arcimboldo ricorda (agli spettatori meno giovani) i barocchi festini di cibo industriale con cui Rodrigo Garcia imbandiva i suoi palcoscenici. La differenza è che il drammaturgo-regista argentino ordiva una relazione carnale dei suoi performer con le merci, mentre per la drammaturga-regista italiana ogni oggetto è un concentrato di energia verbale e metaforica, un totem delle relazioni umane che mette in scena, insomma è lì per rappresentare, non per essere, che esso sia sontuoso, come il munifico frigorifero dell’Origine del mondo, sentimentale, come gli scatoloni da trasloco o le biglie rovesciate a terra de La vita ferma, o squallido come gli oggetti che via via riempiono lo spazio vuoto di Darwin inconsolabile.
Le pretenziose opere della Madre, sono di un bruttezza quasi memorabile che ne esalta l’efficacia parodica, manufatti concettuali improvvisati lì per lì: una palla di ghiaccio sospesa sullo stelo di una lampada, un parallelepipedo simile a un abat-jour, una striminzita imitazione in plastica del Cretto di Burri; ognuno però fa e racconta – il ghiaccio si scioglie, l’abat-jour emana aria irrespirabile, il Cretto, se si appoggia la mano su una molla, modula lamenti straziati di una vocina che alla fine implora “basta”. Sono il contrappunto di quella personificazione del vivente che, con una gag esilarante, Goretti, estrae dal pensiero di Eduardo Viveiros Castro ridotto a tormentone e che in questa pièce apparentemente svagata, comica, dispersa funge da corto-circuito ideologico: una visione inter-specista, ambientalista, in cui l’io de-territorializzato rispetto alla pluralità degli esseri viventi, apertamente predicato dal maestro elementare Riccardo Goretti, è un riflesso condizionato che torna sempre a scattare in fuori come un pupazzo a molla: scherzando con le sue anime in pena, Lucia Calamaro scherza col fuoco di un’apocalisse che appare sempre troppo lenta, come proprio Goretti urla in un frugale a parte, e con un pensiero che volendo uscire dalle secche del narcisismo post-moderno ribaltandone i presupposti epistemici (en passant vengono citati anche Donna Haraway e il filosofo Emanuele Coccia) resta confinato nella sua bolla.
Gioia sa parlare solo di sé stessa. Riccardo assegna ai bambini della sua classe temi sulla sua persona (“descrivete il vostro maestro”). Simona, madre, moglie e tuttavia eternamente figlia, è affranta da una sofferenza rassegnata e assillata dal desiderio di dar corso alla favola darwiniana che le è stata consegnata nell’infanzia (dove si rivela che il vero compimento dell’evoluzione è l’elefante dotato di un cervello “limbico” dalla massa spropositata). La madre, egocentrica e ricattatrice – come tutte le madri delle saghe familiari di Lucia Calamaro e vedendo in azione Maria Grazia Sughi vien quasi da dire come tutte le madri – ha sfruttato i figli come marionette della sua affabulazione performativa, costringendoli ancora piccoli a partecipare a delle sessioni artistiche a mezza strada tra la body art e le performance di Hermann Nitsch.
La resa scenica è una scorciatoia per tirare dritti dal testo all’attore, senza passare per lo spazio dove gli attori vanno e vengono, entrano ed escono per pura inerzia grammaticale, l’immagine non si trasforma, la scena non si muove, tranne alla fine con un sussulto agonizzante delle luci rimaste ferme per un’ora e mezzo su uno sfondo giallo: un volontario azzeramento dei significanti della scena sembra voler far risuonare meglio l’assoluta sovranità della parola che tutto permea e condiziona. Gli attori assecondano ogni piega della partitura, padroni della scena con cinica bonarietà (Goretti), fedeli alla propria maschera che è quanto di più personale si possegga (la bella mestizia di Simona Senzacqua), con un’esuberanza empatica e complice (Gioia Salvatori) o colpendo il personaggio da fuori come fosse un bersaglio (Maria Grazia Sughi). Ma di quell’ombra dolente, di quella lama lirica che attraversava i primi testi di Lucia Calamaro e che era l’altro lato della loro eloquenza – il più preciso, il più devastante – sulla scena di Darwin inconsolabile si sono smarrite le tracce. O forse sono un lampo soffocato sotto le ceneri di una scrittura giunta alla piena maturità del suo rapporto con il teatro e con il pubblico. Una musica distante di cui oggi non si sente più il bisogno.
Le fotografie sono di Laura Farneti.