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Sulla via Emilia / Nura danza ai giardini pubblici
Nura Bingaladish viaggia sulla via Emilia in direzione ovest di ritorno da una serata al Nilo Blu e si addormenta sul treno di mezzanotte, i piedi troppo stanchi anche per sollevarli sul sedile di fronte. Si sveglia appena in tempo per scendere a Reggio, prende la bici e pedala fino a casa senza accorgersi che – succederà di mattina – nel vagone già sfrecciato da qualche altra parte ha dimenticato tutto l’archivio di fotografie di quindici anni di danza del ventre, le immagini delle esibizioni e gli articoli di giornale, il ricordo degli spettacoli dove le transenne bloccavano il flusso migratorio qualche passo prima di raggiungere i piedi di questa ballerina irresistibile, rossa di henné, un metro e ottanta di Occidente irrorato di potenza orientale. Dieci anni dopo, viaggiando sulla via Emilia verso est alle dieci di sera, un controllore si offre di praticarle un massaggio plantare, in uno scompartimento troppo vuoto per frenare la misericordia.
Tornando da Bologna dopo un incarico a Catania, Nura Bingaladish prende atto che insegnare alle ostetriche la danza del ventre può essere un compito gravoso, e mentre le gravide apprendono l’arte di muovere l’addome con minor danno alla maniera delle zingare indiane, lei si mette a letto con due apofisi rotte e sei mesi di busto in gesso.
Forse è il momento di lasciar perdere la danza, pensa Nura Bingaladish mentre accetta l’incarico di rilegare i libri della biblioteca, muoversi ogni giorno verso ovest da San Maurizio al centro come dipendente comunale. Le cose cambiano finché viene spostata al piano delle cancellature, tutto un destra e sinistra di gomito e gomma per dissolvere le tracce vandaliche delle matite, una perversione degli studenti troppo giovani per controllarsi e che le costa tre tunnel carpali. Mentre attraversa la città dentro al Tram 2 per tornarsene a casa, Nura Bingaladish vede tramonti africani sul Rodano, a cui non importa di essere un torrente se basta qualche albero storto e rinsecchito per evocare il clima di un altro continente. Al termine della corsa, l’aspetta il palazzo scrostato di via Pasteur, dove s’aggira quale unica bianca tra settanta famiglie straniere: nella visione metafisica – anni di sufismo e meditazione – una volta lo vede volare simile a un’astronave.
Al ritorno da Ancona, dopo le follie della Riviera, centinaia di volte si riporta a letto verso ovest, piena di sonno e appoggiata all’Adriatico, tenendo la testa dentro a un cappello napoleonico che non conosce ancora né esili né disfatte. «N» di «Nura», reciterebbe l’iniziale impressa, un nome datole dal maestro di danza la prima volta che le ha aperto la porta e gli è balzato in mente il termine arabo per «luce».
L’unica luminosità di quattro anni a Islamabad, al seguito del compagno fitopatologo esperto di piante tropicali, sono proprio quelle lezioni di danza segreta e clandestina, bandita dal regime fondamentalista contrario a ogni forma d’arte in nome di Allah. Anna Maria Elisabetta Dall’Aglio, prima di chiamarsi Nura, resta folgorata da una cartolina al supermercato con l’immagine della donna più felice del mondo, certamente per l’effetto dell’apertura dei Chakra. Cerca le scuole di danza ovunque fino alle campagne pakistane – in linea d’aria sulla via Emilia molto a est – finché un fornaio non le spiffera che esiste ancora una famiglia di anziani che insegna il mistero del ventre in una casa diroccata, al riparo da sguardi indiscreti. Tutto il resto della giornata sfuma tra le faccende e le bombe in giardino, e quando le viene in mente di uscire senza velo per le strade della città, un passante le tira addosso una pietra.
Al suo ritorno a Reggio, Nura Bingaladish ricomincia a danzare ai Giardini pubblici. Danza in piazza Navona, in piazza San Marco, davanti al Pantheon e va in scena con i cccp per il primo maggio al suono di Punk Islam. All’ex-professoressa di psicologia dedica «Fiabe tra Oriente e Occidente», un libro per bambini pieno di scimmie danzanti.
Indecisa se sposarsi, dopo tre ore di preghiere a Padre Pio una voce le suggerisce di ricavare un acronimo dai propri nomi, così lei va a nozze con a.m.e.d. più giovane di ventitré anni. Naufragato il matrimonio, si confida con un’amica suora di clausura che le aveva chiesto una regia per portare Giovanna D’Arco a teatro. A consolarla sono i giovani rapper. Racconta che gli dei antenati avevano scelto questi diamanti neri per festeggiare la bellezza su un corpo bianco e biondo, che li aveva contemplati con devozione per strada, sulle scale e alle fermate degli autobus, grappoli di uva nera dal nettare estasiante.
Sulla via Emilia verso Modena, al padiglione Lombroso del San Lazzaro, Nura Bingaladish viene assunta come animatrice all’interno del Museo della Psichiatria. Su YouTube pubblica «Dolcezza e tormento», videoclip straziante ambientato nel complesso manicomiale, per dire che l’amore è la follia e la sua cura.
Mentre cammina sulla via Emilia, la raggiunge una calata di quiete proprio di fronte la biblioteca Ospizio, vicino al Quetzal e alla gelateria, un punto della strada dove la magnificenza si esprime tra i semafori. Dell’ultimo dell’anno ricorda un lento procedere in auto alle due di notte attraverso la via. Madre d’asfalto e padre di catrame, dice.
Nella casa di Pieve ora troppo a ovest, le fanno compagnia la statua di Anubi, una manciata di coriandoli sul pavimento, un altarino di mixer e casse per David Bowie, un gatto col nomignolo dell’ex marito e Lady Green, la pianta col sonaglio che si nutre delle sue canzoni. Anche dopo una giravolta, Nura Bingaladish saprebbe in un istante in quale direzione guardare verso la via Emilia.
Reggio Emilia, edizione 2016 di Fotografia Europea: La Via Emilia. Strade, viaggi e confini. Mostre fino al 10 luglio.
Il testo è tratto da Ermanno Cavazzoni (a cura di), Almanacco 2016. Esplorazioni sulla via Emilia, Quodlibet.
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