Giovanni Columbu. Su Re
Nel 2003 Giovanni Columbu partecipa all’estiva e ludica rassegna morettiana dedicata alle opere prime. Nell’arena all’aperto del cinema Nuovo Sacher il suo Arcipelaghi, film del 2001, viene decretato miglior film dei Bimbi Belli di quell’anno. Un’opera dura, rigorosamente in lingua sarda - il lavoro di Columbu è anche e soprattutto un lavoro antropologico - che racconta una parabola di giustizia in una terra arida e faticosa.
A quasi dieci anni di distanza da quell’opera prima tanto sconosciuta quanto notevole, Columbu decide di tornare dietro la macchina da presa per raccontare il calvario di Cristo, l’ascesa al monte e la crocefissione, ispirandosi ai vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni dai quali trae differenti episodi del martirio, messi in scena senza un ordine cronologico, come flash-back di Maria mentre veglia il corpo del figlio.
Columbu sceglie Supramonte, un complesso montuoso di altopiani carbonatici che occupano la parte centro-orientale della Sardegna, dove già fu il celeberrimo Hotel di De André, per ambientare la storia di tutte le storie. A parte Pietrina Mennas, già in Arcipelaghi, e pochi altri sceglie attori non professionisti, alcuni dei quali provenienti dal locale Istituto di Igiene Mentale, e sceglie ancora la sua lingua, il sardo nuorese: “Su Re”, ovvero “Il Re”.
Un progetto produttivamente difficilissimo messo in piedi con la sua Luches Film, finanziato dalla regione Sardegna e da Columbu stesso. Ma i soldi non bastano ed allora Columbu, che è uomo di talento, filosofia ma anche di grande tenacia, cerca finanziatori privati tra i quali arriva lo stesso Moretti, che lo ha premiato quasi dieci anni prima e che non ha smesso di credere nel suo talento. Inizia così un’avventura produttiva esemplare, alla quale si aggiunge Rai Cinema, per una volta a sostegno di un cinema coraggioso e difficile.
Il risultato è un film ostico e duro come le pietre sulle quali è girato con stile iper-naturalistico, con camera a mano e senza alcuna “ricerca” di immagini curate, ad effetto, studiate. Il girato di Su Re sembra un girato rubato in condizioni di difficoltà, di instabilità, un girato spesso sbagliato, imperfetto, ruvido come i sassi che si sentono scivolare, rovinare, aprirsi.
C’è esplicitamente Bruegel nell’immaginario di Columbu, ma è destrutturato in una volontà di rompere con qualunque artificio, c’è Bruegel e c’è Bosch, nei volti di pietra dei protagonisti dove domina, su tutti, un Cristo brutto, sgraziato, strabico, un “avanzo di galera” il cui dolore e la cui sofferenza sono tangibili, attraverso i rumori delle cinghiate, dei chiodi, del legno che si rompe sotto il suo peso di uomo che non ha nulla di divino nell’accezione alla quale siamo abituati per consuetudine. Qui il divino è l’umano.
Quello di Columbu quindi è un film puramente ed altissimamente cristologico che, nel raccontare la figura del Cristo, si sofferma con estrema compassione sulla sua natura umana: l’uomo sulla croce sente dolore, sanguina, ha freddo, ha sete. Ed è per questo che Su Re è un film autenticamente commovente, universalmente toccante, non importa se si è atei o credenti di qualsiasi culto, qui si racconta la morte di un uomo, di un figlio, il calvario di uno che viene “messo in croce perché ha creato troppa confusione”, fosse anche un povero pazzo. Uomo il Cristo, debole e remissivo, e uomini coloro che ne decretano la morte e la crocefissione, uomini poveri, ignoranti straccioni, contadini, uomini coloro che gli restano accanto sino alla fine. Non c’è il presagio della Chiesa ricca ed opulenta che abbiamo imparato a conoscere ma solo l’ovvia ombra della corruzione del potere politico: qui quello che veramente assale è un urlo di disperazione, verso le radici di un messaggio cattolico originario, vero, verso quella Chiesa “povera” di cui tanto si è parlato in questi giorni, una Chiesa umanizzata come tutto della storia di Cristo e del suo calvario è umanizzato in questo raro oggetto filmico.
Piccola nota a margine: Columbu offre un cameo proprio al Gavino Ledda di Padre Padrone, un altro uomo tenace e ostinato, legato alla terra amata ed odiata di Sardegna, che raccontò un altro calvario, quello della propria emancipazione affettiva e culturale.
Su Re è un film che si può anche detestare o non amare alla follia, per la sua imperfezione stilistica, per la sua volontà di rottura con qualunque “grazia” cinematografica, per la sua violenza espressiva, per alcune sgradevolezza estetiche, per non fare mai nulla, nemmeno per un istante, ostile come la terra di sassi che mostra e racconta, per accogliere lo spettatore che deve, anzi, lottare per entrare in un film che può essere tanto avvolgente quanto respingente. Ma Su Re è un film a dir poco potente, lacerante, un film che potrebbe aprire un discorso sul cinema italiano: un altro cinema è possibile e, piaccia o non piaccia “quel” cinema, questa è una meravigliosa conquista, una libertà che non sempre ci ricordiamo di avere.
Oltretutto Su Re è a tutti gli effetti un film uscito solo in lingua originale coi sottotitoli: ci vogliamo mettere anche questa tra le sue ostinate conquiste?