Ritorno a Monkey Island: pirati, isole e naufraghi
“La letteratura del secolo appena trascorso legge prevalentemente il mondo come l’isola di Robinson, un luogo di prigionia e solitudine, e tende anche a dimenticare il finale, il ritorno” scrive Roberto Mussapi nell’introduzione al suo La voce del mare. Storie di viaggi, isole e naufraghi, uscito a metà del 2022 per Marietti. E di viaggi in mare, isole e ritorni parla anche un videogioco piratesco uscito poco dopo questo saggio, Return to Monkey Island di Terrible Toybox e Devolver Digital.
Il libro di Mussapi, rielaborazione del precedente Inferni, mari, isole: storie di viaggi nella letteratura (Bruno Mondadori, 2002), attraversa la storia occidentale del mare e del racconto di mare. Qui il mare è insieme principio primigenio, abisso di morte e soglia dell’iniziazione, e il racconto del viaggio per mare è l’allegoria che “esprime con maggiore potenza la nostra avventura umana nel mondo e la natura metafisica della letteratura: andare oltre, verso terre lontane, per tornare e restituire l’esperienza vissuta in forma di racconto, la visione tradotta in poesia.”
Un ruolo primario nella formazione di questa letteratura lo ha l’impero britannico, “un impero disegnato sull’acqua, il primo e l’unico impero interamente equoreo dell’umanità, tracciato non su confini ma su rotte [...].” Di questo impero secondo Mussapi non rimangono “mura, valli, strade e pietre miliari;” restano, però, proprio le storie. “[D]irettamente da diari di bordo di vascelli corsari e da resoconti di avventure di mare” nascono La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di Daniel Defoe, I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson e La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge.
In questa letteratura britannica hanno un posto centrale le imprese di corsari e pirati, ma poi “l’aura dell’età dei corsari e della pirateria si espande oltre la rigorosa e legittima filiazione inglese, divenendo un patrimonio mitico fertilissimo nella letteratura e poi nel cinema.” E dopo ancora nel videogioco.
La serie di videogiochi pirateschi Monkey Island è stata inizialmente ideata da Ron Gilbert insieme a una squadra di cui dobbiamo almeno ricordare Dave Grossman, Tim Schafer, l’artista Gary Winnick e il compositore Michael Land. Conta sei capitoli, dall’originale The Secret of Monkey Island del 1990 di Lucasfilm Games fino al nuovo Return to Monkey Island da poco pubblicato da Devolver Digital su licenza di Disney, ora proprietaria di Lucasfilm.
The Secret of Monkey Island, come gli altri videogiochi della serie, è un “videogioco d’avventura.” L’espressione traduce l’inglese “Adventure game,” che sarebbe più corretto rendere in italiano con “videogioco in stile Adventure” perché il riferimento è al titolo dell’opera che è considerata la capostipite del filone: Adventure, o Colossal Cave Adventure, di William Crowther e Don Woods, del 1976. Nei videogiochi d’avventura avanziamo in una storia esplorando ambientazioni e risolvendo enigmi che bloccano la progressione narrativa, e spesso questi enigmi possono essere superati interagendo con oggetti o raccogliendoli per poi usarli correttamente con altri oggetti o con personaggi.
I videogiochi d’avventura erano inizialmente solo testuali, come appunto Colossal Cave Adventure. In queste “avventure testuali” ambientazioni, personaggi ed eventi vengono raccontati da paragrafi di testo, a cui rispondiamo scrivendo con la tastiera le azioni che vorremmo compiere in quella situazione, come se stessimo collaborando alla scrittura della storia attraverso il dialogo con la macchina.
The Secret of Monkey Island è invece una “avventura grafica”, e in particolare è una “avventura grafica punta-e-clicca” perché non dobbiamo scrivere azioni con la tastiera, ma giochiamo prevalentemente usando il solo mouse. Cliccando sull’ambientazione e su un elenco prefissato di azioni (“dare,” “usare,” “aprire,” “tirare”...), visibili in basso sullo schermo, possiamo muovere il protagonista, manipolare oggetti e compiere scelte nei dialoghi con gli altri personaggi. The Secret of Monkey Island mantiene uno stretto rapporto con la prosa dell’avventura testuale: è ancora un videogioco in cui agiamo attraverso parole, attraverso un inventario di verbi.
Siamo tra la fine del diciassettesimo e l’inizio del diciottesimo secolo. Il protagonista, un giovane uomo dall’improbabile nome di Guybrush Threepwood, arriva sull’isola di Mêlée (Mêlée Island) senza avere una storia o un passato. “Salve! Mi chiamo Guybrush Threepwood, e voglio fare il pirata!” sono le sue prime parole. All’inizio del gioco Guybrush è come noi, o meglio come il “videogiocatore implicito” (per dirla alla Umberto Eco) di The Secret of Monkey Island: è un ragazzo che ha letto storie di pirati e vuole diventarne parte, vuole diventare il pirata “uomo nuovo, liberato dalle catene dinastiche, feudali, civili, notarili e anche solo convenzionali della terraferma” descritto da Mussapi.
L’ambientazione piratesca di The Secret of Monkey Island viene dall’amore di Gilbert per l’attrazione Pirates of the Caribbean dei parchi Disney. Ma alla base dei suoi personaggi, della sua trama e dei suoi elementi fantastici c’è un romanzo: Mari stregati (On Stranger Tides) di Tim Powers del 1987. “I pirati di Monkey Island non sono come i pirati veri, che erano persone viscide e feroci” dichiarò Gilbert in un’intervista del 1990 apparsa sul primo numero della rivista ufficiale di LucasFilm Games, “The Adventurer”. “Questi sono pirati spacconi e che amano divertirsi, come quelli delle storie d’avventura con cui siamo tutti cresciuti.”
I pirati di Monkey Island, e in generale il mondo di questi videogiochi, sono però una versione comica e umoristica di quelli di cui abbiamo letto nei racconti pirateschi. Una delle tre prove di iniziazione che dobbiamo superare per essere considerati un pirata è trovare “il Leggendario Tesoro Perduto di Mêlée Island.” Ma la mappa per raggiungerlo è scritta come una lezione di ballo, il punto dove scavare è segnato per terra con una X e con una placca donata dalla locale camera di commercio e il tesoro è una T-shirt con scritto “Ho trovato il tesoro di Mêlée Island e l’unica ricompensa è questa T-shirt idiota!” Oppure, i duelli con la spada diventano in questi videogiochi duelli di insulti in cui dobbiamo imparare e sfoderare al momento opportuno le giuste risposte alle offese avversarie.
Mussapi lamenta “il tentativo [novecentesco] di smitizzazione del mito di avventura, conoscenza e mistero su cui si fonda la letteratura d’Occidente [...].” Ma The Secret of Monkey Island non diventa mai solo la parodia dissacrante di una storia di pirati. Può far ridere, ma sa anche evocare una certa malinconia, come se fosse ambientato sempre sull’orlo di un’estate che è appena iniziata e sta già per finire. E la misteriosa Monkey Island che dà il titolo alla serie è davvero l’isola magica alla fine del viaggio, non è solo uno scherzo, una battuta. Perché The Secret of Monkey Island sa che “non può esister ritorno senza una permanenza in un’isola magica,” come scrive Mussapi.
L’umorismo di Monkey Island contribuisce anzi a dare coerenza e profondità al racconto. I videogiochi d’avventura hanno spesso soluzioni bizzarre per i loro enigmi, che rischierebbero sennò di essere troppo banali e renderebbero i videogiochi troppo brevi. Si parla in certi casi di “moon logic,” cioè di puzzle che necessitano di una logica lunatic (folle) o aliena per essere risolti. Ma l’umorismo dei Monkey Island rende questi videogiochi più coerenti con la bizzarria dei loro enigmi rispetto ad altre avventure grafiche realistiche e seriose: l’intero mondo di Monkey Island è basato su una moon logic.
Inoltre, proprio scovare nuove battute e nuove buffe interazioni che potremmo sennò perderci ci spinge a investigare con ancora maggiore attenzione le isole dei Monkey Island. Questo è possibile anche grazie a un altro importante elemento della serie: a differenza di quello che normalmente accade nelle avventure grafiche dell’epoca, in questi videogiochi non è solitamente possibile né morire né rimanere permanentemente bloccati, cioè in generale non è (quasi) mai necessario dover ricominciare da un punto precedente la partita per correggere un errore. La consapevolezza di non rischiare di rovinare la nostra partita ci permette allora di sperimentare ed esplorare senza preoccupazioni. Giocare a The Secret of Monkey Island è come ascoltare un racconto interrompendolo, facendo domande, deviando il discorso per poi sempre tornare a proseguire la storia.
L’importanza del raccontare, delle storie di pirati, è il motore anche di Monkey Island 2: LeChuck's Revenge del 1991, gioco che fu sviluppato dalla stessa squadra del primo e quasi senza soluzione di continuità. Il videogioco è in gran parte un racconto fatto da Guybrush, e a sua volta questo racconto inizia con un Guybrush ormai pirata di successo che intorno a un falò racconta per l’ennesima volta gli eventi di The Secret of Monkey Island. Ma, a forza di sentire sempre la stessa storia, il pubblico si annoia, ed ecco perché il protagonista si mette nuovamente “per l’alto mare aperto”: non per desiderio di sfida e neanche per desiderio di ricchezze, ma per desiderio di nuove storie. Essere pirata vuol dire avere storie da raccontare, vuol dire essere storie che vengono raccontate.
Gilbert aveva in mente una trilogia ma, dopo i primi due episodi, la serie è continuata prevalentemente senza il contributo della squadra originale. The Secret of Monkey Island e Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge furono buoni successi, soprattutto in Europa, ma non sembrarono destinati a diventare classici, Gilbert se ne andò e fondò Humongous Entertainment nel 1992, mentre Grossman e Schafer si spostarono a lavorare a Day of the Tentacle seguito della precedente avventura grafica Maniac Mansion.
Il terzo episodio, The Curse of Monkey Island del 1997, fu diretto da Jonathan Ackley e Larry Ahern (che si occupò della direzione artistica). William “Bill” Tiller ne realizzò invece gli sfondi, che insieme al doppiaggio (fino a quel momento assente) contribuiscono a dare a The Curse of Monkey Island tono e aspetto da cartone animato. È un cambiamento che non va sottovalutato: con The Curse of Monkey Island la serie passa da videogiochi ancora fortemente legati alla prosa interattiva dell’avventura testuale al cartone animato interattivo, mentre le azioni/verbi selezionabili passano dalle dodici della prima versione di The Secret of Monkey Island alle tre (a cui si aggiunge la possibilità di muoversi nell’ambiente) di The Curse of Monkey Island.
Dopo The Curse of Monkey Island, Fuga da Monkey Island (Escape from Monkey Island) del 2000 e Tales of Monkey Island di Telltale Games (2009), Gilbert è tornato a dirigere e scrivere la serie, insieme a Grossman, con il nuovo Return to Monkey Island, mentre la direzione artistica è stata affidata a Rex Crowle, noto per il suo lavoro sul videogioco Knights and Bikes di Foam Sword Games. Un videogioco che ha molti elementi in comune con Monkey Island perché parla di fine dell’infanzia, parchi di divertimento, tesori e pirati. Il risultato ha visivamente il sapore del libro illustrato, o meglio del cartone animato interattivo con l’aspetto da libro illustrato.
La voce del mare e Return to Monkey Island sono entrambe opere su due diversi tipi di ritorno. C’è il ritorno a casa dopo l’avventura e l’esperienza dell’isola magica, cioè il ritorno che permette il racconto descritto ne La voce del mare e che permette a Guybrush, in Return to Monkey Island, di raccontare la storia di quando ha finalmente scoperto “il Segreto di Monkey Island.” Ma c’è anche un altro ritorno, perché il titolo del videogioco parla non del ritorno da Monkey Island ma del ritorno a Monkey Island, cioè del ritorno all’avventura. Ritorno che ne La voce del mare è il ritorno nostalgico a un’età dell’oro del romanzo e dell’umanità, a un’epoca in gran parte immaginaria fatta di uomini duri e donne pazienti. C’è in Mussapi il desiderio di tornare dall’altra parte della conradiana linea d’ombra che separa infanzia e vita adulta. È questo in fondo il desiderio del videogiocatore e del lettore: dopo ogni ritorno c’è sempre una nuova partenza, una nuova mappa del tesoro, un nuovo videogioco o un nuovo libro. Chi videogioca e chi legge è, come Ulisse, “un iniziato in perenne iniziazione.” Ecco, per Return to Monkey Island questo ritorno, il ritorno a Monkey Island, è un ritorno impossibile.
Un tema assai presente in La voce del mare è quello della “caliginosa e ammorbante bonaccia”. La bonaccia è “la dannazione più atroce” anche perché, a differenza della tempesta, “non consente opposizione,” ma solo attesa. La bonaccia è tanto centrale, secondo Mussapi, che quando “cessa di essere un pericolo con l’avvento del vapore” e “l’oceano [diventa] una pista [e] la nave un autocarro più o meno sicuro” questo si rivela fatale per la letteratura di mare. Anche nella serie Monkey Island, dove sembra comparire solo la più banale tempesta, è la bonaccia il vero nemico della navigazione.
In molte avventure testuali e grafiche, e soprattutto nei Monkey Island, il tempo scorre solamente quando ne risolviamo gli enigmi e avanziamo quindi nella narrazione. Il timore di chi gioca a un videogioco d’avventura è quindi quello di non capire come superare un puzzle e di restare bloccato, persino bloccato nel tempo. Dovrei anzi dire che questo era il timore di chi ci giocava nel passato, quando le soluzioni dei videogiochi andavano recuperate su riviste o pagando guide e chiamate ad apposite linee telefoniche ed era anche per questo comune rimanere bloccati per settimane, mesi e a volte anni in certi loro punti. Durante il recente evento IVIPRO DAYS 2022, Tony Warriner, che ha lavorato a importanti avventure grafiche come Beneath a Steel Sky (1994) e Broken Sword: Il segreto dei Templari (1996), ha persino affermato che “era una medaglia d’onore restare bloccati in un videogioco d’avventura negli anni 90”.
Restare bloccati in un videogioco d’azione vuol dire tentare ripetutamente di superare uno scontro o un ostacolo, vuol dire lottare, vuol dire affrontare la tempesta. È invece la bonaccia a preoccupare il pirata dell’avventura videoludica. Certo, la corrispondenza non è perfetta: spetta a noi scoprire la soluzione del puzzle, spezzare la calma dei venti e continuare la nostra navigazione, mentre la bonaccia ammette solo attesa. O forse il puzzle risolto equivale al compimento del rituale che ci riappacifica col mare e rompe la maledizione. Comunque, il peggior nemico dell’avventura (dell’avventura per mare, e del videogioco d’avventura) è l’immobilità e, contemporaneamente, questa condizione è necessaria all’esistenza stessa dell’avventura. Non esiste infatti il videogioco d’avventura, almeno come lo intendiamo noi a partire da Colossal Cave Adventure, senza il puzzle che ci blocca, come non esiste più il racconto di mare, o almeno il racconto di mare come inteso da Mussapi, con la fine della grande navigazione a vela e quindi del pericolo della bonaccia.
Oggi chi si blocca in un videogioco può immediatamente cercare su Google soluzioni complete e dettagliate, risposte precise e video che mostrano passo passo le azioni necessarie. Return to Monkey Island può solo prendere atto della trasformazione del videogioco d’avventura da veliero ad autocarro, e implementa un suo sistema di suggerimenti, ci svela come risolvere i puzzle che dobbiamo superare dandoci prima solo vaghi indizi e poi, se insistiamo, consigli sempre più chiari.
In Return to Monkey Island la bonaccia, insomma, non sembra più possibile, e così questo videogioco diventa anche il racconto dell’odierna impossibilità del racconto piratesco e della storia di mare. “Il gioco è una buffa avventura piratesca, come sempre,” scrivono Gilbert e Grossman nel messaggio finale del videogioco, “ma è anche una storia sul provare a recuperare il passato, con tutta la sua presunta forza e gloria giovanile. Il risultato sarà dolceamaro.”