Una riflessione psicologica / Il narcisismo estremo e il terrorista
L’irruzione improvvisa di una potenza ignota o la lenta e distillata penetrazione attraverso l’indottrinamento e l’addestramento: entrambe le vie mostrano di essere in grado di generare il desiderio di gloria che coinvolge e travolge le personalità dei terroristi suicidi.
I Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore di Nizza nel giorno anniversario della rivoluzione francese, il 14 luglio 2016, ha ricevuto una radicalizzazione rapida della sua scelta. Atta, il capo terrorista dell’attentato alle Torri gemelle aveva avuto una lunga preparazione. Percorsi diversi per esiti simili. La guerra cambia quando chi uccide non lo fa più per salvare se stesso. Tanto che se il terrorista suicida non muore si tende a considerare fallita l’operazione, come hanno già sostenuto Diego Gambetta e con lui Marco Belpoliti occupandosi del tema su doppiozero. L’azione terroristica suicida diventa allora una finalità trascendente basata sulla distruttività come fine ultimo. Uno dei suoi caratteri peculiari è la purezza che deriva dal compimento del sacrificio di se stessi. Dal mito dell’angelo vendicatore al narcisismo, le leve psichiche interiori, sollecitate dall’educazione, fanno parte della predisposizione delle personalità suicide. Forse, di conseguenza, non si può più neppure chiamarla guerra quella in corso, se non risponde a nessuno dei criteri con cui nel tempo è stato identificato quel fenomeno. Riprendendo quello che ha scritto Sergio Benvenuto: il vero fine del terrorismo non è vincere una guerra ma farci vivere nel terrore; se la guerra non è il fine, c’è da chiedersi se sia un fine a muovere il terrorismo suicida. Così come accade quando si vede qualcuno correre in motocicletta così all’impazzata viene da domandarsi se non stia sfidando la morte e se chi lo fa non abbia piuttosto paura di vivere. Era stato Lucio Battisti qualche anno fa a cantare: correre a fari spenti nella notte per vedere se è tanto difficile morire.
Siamo di fronte con ogni probabilità ad una "distruttività trascendente ", e a renderla tale concorrono molti fattori, il primo dei quali sembra essere, con molte probabilità, la simultaneità pervasiva e quasi metafisica della rete, con la sua incondizionata liberazione del desiderio fine a se stesso, con la spettacolarizzazione virale e la neutralizzazione del tempo e dello spazio. Il desiderio, si sa, è sostenuto da un’area emozionale di base, una di quelle manifestazioni che ci coinvolgono prima delle nostre intenzioni e della nostra volontà. Prima desideriamo, infatti, in termini di nanosecondi – una misura che la nostra mente non è in grado di cogliere – e poi sentiamo che stiamo desiderando. Ogni desiderio può essere filtrato o meno dalla riflessione e dalle relazioni. Può accadere che si esprima senza filtro e allora diventa azione prima del pensiero che potrebbe temperarlo. Quando l’aggressività umana si esprime in presa diretta può diventare immediatamente distruttiva e trascende, per così dire, il soggetto che la mette in atto. Non è quindi inutile se non agli occhi di chi non vive quell’esperienza autoesaltante e totalmente coinvolgente. La dimensione trascendente di quella distruttività è peraltro paradossale nel momento in cui l'efficacia e il riconoscimento della sua azione e soprattutto dei suoi protagonisti si situano nella reputazione immanente che genera. Insomma, pur non agendo per la propria fortuna terrena i terroristi suicidi finiscono per ottenere una elevata reputazione e un riconoscimento sorprendente persino nel mondo a cui appartengono le loro vittime.
Stefano Chiodi aveva posto, dopo Charlie Hebdo, le premesse per una lettura di quello che sta accadendo sostenendo che il terrorismo islamista rappresenta molto più di una deriva violenta e intollerante che sembrerebbe facile dismettere come rigurgito di una brutale irrazionalità. Lo “scopo inaccettabile” che muove i terroristi suicidi, di cui aveva parlato Chiodi, pone una domanda che egli stesso aveva formulato: Come può una forza che corrompe, uccide, umilia, depreda, sradica e nega alla vita ogni dignità apparire così seducente in nome di questa stessa vita? Emergono gli estremi di un’estetica della distruzione come possibile via per comprendere quello che succede. La cura nei preparativi e la scelta degli obiettivi, da Charlie Hebdo, al Bataclan, a Bruxelles o a Nizza, o nella serie di attentati nei paesi africani e fin dalle Torri Gemelle di New York, mostra una attenta selezione della rilevanza simbolica e mediatica degli effetti comunicativi delle azioni. Si tratta di bersagli con elevata attesa di risonanza e, si sa, tra estetica e terrore vi sono forti affinità relative alle dinamiche del sentire. Le stesse leve interiori che portano un osservatore a risuonare con un’opera mentre ripercorre il gesto dell’artista, sono quelle che fanno detonare in tutti e in tutto il mondo il gesto del terrorista.
Fare un gesto per un cielo deserto di dèi con un occhio alla celebrità nel mondo terreno, trasformando quest’ultimo in un deserto di relazioni, sembra questa la finalità perseguita dal terrorismo suicida.
L’incertezza e la manipolazione semplificatoria dei riferimenti religiosi che emergono dalle comunicazioni provenienti dagli ambienti del terrorismo non consentono di comprovare una centralità della religione nelle azioni di terrorismo suicida e distruttivo. Anche se la religione non è mai stata estranea alle guerre, in modi diretti e indiretti, in questo caso richiamare la religione pare proprio un paravento, uno specchio per allodole, ma forse non è esattamente così. La trascendenza della distruttività si presenta soprattutto come un rituale di autoesaltazione che eleva chi la pratica con componenti evidenti sacrificali ed eroiche. La veste religiosa, infatti, sembra solo appena ricoprire superficialmente le gesta terroristico-suicide. Ne costituisce forse una leva, una miccia, ma l'esplosivo è fatto d'altro. La ricerca narcisistica di protagonismo ad oltranza, per individui in crisi di legame ed educati nell'indifferenza, che acriticamente confondono sul piano affettivo il reale col virtuale, attrezzati ed equipaggiati con alti standard persino nell'abbigliamento, si presta efficacemente a servire interessi finanziari di scala planetaria dove il confine tra regolare e criminale non è più riconoscibile. La religione fa da collante educativo col suo potere di modellazione delle capacità neuroplastiche del corpo-cervello-mente umano. Noi possiamo essere coinvolti e fortemente influenzati dalle relazioni e dal contesto in modi di cui non sempre ci rendiamo conto: ci stupiamo piuttosto quando osserviamo come gli altri sono influenzati e coinvolti. Se poi quell’influenza e quel coinvolgimento riguardano contenuti e scelte a noi estranei, allora tendiamo a non comprendere come possa accadere.
Eppure il poeta latino Terenzio, ripreso da Michel de Montaigne, ha scritto: “Nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. I modi in cui si combinano le cose nella storia personale dei terroristi suicidi e nel sistema di cui fanno parte ci appare lontano perché non ne siamo parte, ma è un fatto che quella combinazione sia tremendamente efficace. Come il comunismo per Lenin era uguale a elettrificazione più soviet, per il terrorismo suicida sembra equivalere a desiderio distruttivo più gloria.
Che cosa cambia nello scenario dell'aggressività e della distruttività umane con il terrorismo suicida? A cambiare sembra soprattutto la natura nota della guerra come forma di aggressività distruttiva organizzata. La guerra è stata ed è una delle espressioni delle relazioni umane, messa in atto da parte di una specie che, col linguaggio e la competenza simbolica, è in grado di prevedere e sapere che cosa fa male – oltre che cosa fa bene – ai propri simili. Questa forma antagonistica convive, nelle relazioni umane, col conflitto inteso come incontro di differenze culturali, di individuazione, di interessi, di conoscenze. Convive naturalmente anche con l'accordo e la cosiddetta pace, e convive con l'indifferenza, intesa, quest'ultima, come una sospensione eccessiva della risonanza incarnata con gli altri. Oggi è forse l’indifferenza uno dei problemi più diffusi e la crisi di legame sociale ci riguarda tutti. Il vuoto di senso che crea ha certamente a che fare con le diversificate forme di adesione che tanti giovani nati e cresciuti in città europee ma a “mezza parete” tra culture e religioni di origine e culture di inserimento, manifestano verso il terrorismo suicida e la violenza. Le storie personali dei terroristi suicidi di Bruxelles o del Bataclan, ad esempio, sono idealtipiche di questa prospettiva.
Col terrorismo suicida, l'aggressività umana, come tratto costitutivo specie specifico, assume una connotazione peculiare e originale che merita di essere analizzata e che non è facile da comprendere. Mentre nella guerra e nelle sue forme note l'azione distruttiva contro l'altro era ed è condotta con l'attesa e la ricerca di uccidere senza essere uccisi, nel terrorismo suicida le cose non stanno così. La componente rituale della guerra e il suo piacere nascono dalla possibilità di liberarsi della paura del nemico per poter continuare poi a vivere "in pace", essendosene liberati. Nella guerra, in fondo, siamo di fronte a un intenso progetto di conservazione di sé, in cui sia la sostanza che l'intensità mirano alla sopravvivenza di se stessi e dei propri affini mediante la soppressione degli altri che sono nemici. In situazioni di guerra, insomma, la dinamica hospis/hostis è nettamente definita e l'altro diventa inospitabile e perciò insalvabile, ma per salvare ad ogni costo se stessi. L'esaltazione distruttiva che pure esiste è immanente e prevede la negazione dell'altro, con lo scopo principale di salvarsi. Una certa sacralità rituale è stata ed è presente nella guerra così come la conosciamo, ma nel terrorismo suicida l'autoesaltazione sperimenta un'escalation che è sostenuta da una metafisica della missione. Anche se si hanno elementi per ritenere che la componente religiosa trascendente lasci il posto a un narcisismo estremo, che si compiace dell'azione distruttiva in sé con una componente di mistica del terrore e dell'atto estremo, sempre più estremo e ben riuscito, da celebrare poi con la festa da parte del gruppo di riferimento dei martiri, di coloro che si sono martirizzati in un'estetica del terrore.
Nel terrorismo suicida la motivazione è, quindi, del tutto diversa da quella della guerra, o almeno così pare si possa ipotizzare. Una élite di individui letteralmente eletti, e in grado di sentirsi tali, consegna la propria vita a un sistema reputazionale molto potente, tanto potente da richiedere e ottenere che il sacrificio estremo sia vissuto come il supremo valore. Non è facile comprendere come sia possibile tutto questo. Per quanti sforzi si facciano, appare inaccessibile pensare e accettare che si possa uccidere per uccidere, che si possa colpire persone definite innocenti, che tra gli uccisi ci siano bambini. Tutte queste considerazioni trascurano due cose essenziali: che siamo esseri caratterizzati da neuroplasticità e che l’educazione plasma l’individuazione. Noi esseri umani non siamo, ma diventiamo e se ci chiediamo come si creano teste come quelle che praticano il terrorismo suicida, ebbene è opportuno rispondersi: come si creano tutte le altre teste, con le relazioni, con l’educazione e grazie alla neuroplasticità in quanto condizione necessaria ma non sufficiente, poiché è nelle relazioni che si forma l’individuazione e il cervello da solo non basta. Sappiamo infatti che è la relazione che fonda il soggetto e non viceversa; ci vuole un corpo in azione e in relazione con altri per ottenere un essere umano così come lo conosciamo, in tutte le sue manifestazioni. Il mondo interno fa da motore emozionale e spinge all’azione: può farlo, spesso, senza la mediazione della riflessione e quando accade comandano i processi emozionali allo stato immediato. Nel caso del terrorismo suicida e della sua distruttività trascendente siamo di fronte all’area emozionale del desiderio che nei terroristi sembra agire in modo immediato e senza freni. Reciproca alla loro azione è l’area della paura, che ormai comanda in tutti e crea nella maggioranza quel processo di “vittimizzazione secondaria” di cui abbiamo già avuto modo di parlare. La relazione tra chi semina il terrore suicidandosi e chi subisce quel terrore si basa in tal modo sul legame desiderio-paura. Del resto già Spinoza aveva, con un accento piuttosto eccezionale, come dice Lacan, sostenuto che “il desiderio è l’essenza stessa dell’uomo, nella misura in cui essa è concepita a partire da qualcuna delle sue affezioni, concepita come dominata da una qualsiasi delle sue affezioni e determinata da questa a fare qualcosa”. A proposito del desiderio è importante distinguere tra tendenza e volontà: mentre la volontà implica qualche forma di ordine e di finalità organizzata, il desiderio come tendenza è ribelle a ogni forma e si realizza nella sua pura espressione e manifestazione.
Nella distruttività trascendente del terrorismo suicida, in particolare negli esecutori finali, sembra esserci all’opera il desiderio come tendenza, catturato e canalizzato certamente, anche in modo immediato e contingente, dagli organizzatori mandanti, che fanno leva su relazioni educative lungamente strutturate, ma anche su reclutamenti immediati che si agganciano proficuamente a forme di disagio e di alienazione, grazie all’efficacia della rete e alla sua problematica potenza di penetrazione e coinvolgimento senza riflessione e senza dubbi. L’azione educativa penetrante e capillare insieme alla contingenza del disagio e dell’alienazione si mostrano alla base delle forme di reclutamento dei terroristi suicidi, facendo sì che ci vogliano anni o poche settimane per fare una testa che chi ha paura ed è terrorizzato definisce mal fatta, ma che mostra di avere reputazione elevata nei gruppi di riferimento a cui i terroristi appartengono e, comunque, una forte attrazione in termini di stile, di manifestazione di potenza e di presenza pervasiva reale e fantasmatica nel mondo quotidiano di chi ha paura.
Come risulta da una ricerca dell’IHS Jane’s Terrorism and Insurgency Centre, centro studi con sede a Englewood (Colorado, Stati Uniti), l’aumento esponenziale di morti per terrorismo suicida in Africa e nei paesi occidentali è stato del 750% dal 2009 al 2015, con l’emergere di nuove tendenze che hanno contribuito in maniera determinante alla moltiplicazione degli attentati. Mentre in Africa l’evoluzione del fenomeno sarebbe riconducibile a tre fattori: la collaborazione tra il gruppo nigeriano Boko haram e il Gruppo stato islamico (Is), l’espansione in Africa occidentale di al-Qaida nel Maghreb Islamico (Aqim) e la resilienza di al-Shabaab in Somalia, nei paesi europei e occidentali le fonti di adesione e reclutamento sono strettamente connesse al disagio dell’interazione tra culture e appartenenze delle seconde o terze generazioni e ai disagi e all’alienazione connessa al conflitto fra orientamenti culturali e problemi di integrazione. Nello specifico, in ogni caso, si registra un notevole potenziamento delle capacità di comunicazione, grazie alle elaborate tecniche utilizzate dai centri di organizzazione del terrorismo suicida, che si combina con la creazione di processi educativi mirati ed efficaci. I gruppi organizzatori producono video e messaggi audio nel quadro di una più complessa ed estesa strategia di consolidamento della propaganda jihadista, postando in rete filmati di attacchi e criticando duramente chi sostiene i governi centrali. Il tutto alternando l’arabo alle lingue locali. La funzione di collante ideologico svolta dalla religione in tutto questo richiede una riflessione attenta. Oltre alla tradizionale e costante connessione tra religione e violenza, in particolare in occidente, la crisi del sacro osservata negli ultimi decenni del ventesimo secolo, pare lasciare il posto a un forte ritorno di attenzione per inedite forme di sacralizzazione non sempre facilmente riconoscibili come tali. Rimane il fatto che il terreno, in particolare in certi contesti, sembra essersi fatto più fertile per adesioni acritiche e settarie a forme religiose.
La crisi di legame sociale, l’indifferenza e l’alienazione che caratterizzano la vita di parti ampie delle società occidentali, pare canalizzare la domanda di sacro, propria degli esseri umani, verso forme organizzate estreme e capaci di rispondere alla domanda di senso e di autorealizzazione, capaci di corrispondere al desiderio di protagonismo e di affermazione così sospeso e alienato. L’immediatezza, la simultaneità e la confusione fra reale e virtuale propria della pervasiva presenza dei social media, crea processi di connessione e adesione contingenti e lontani dalla riflessione e dalla responsabilità, generando forme inedite di azioni e comportamenti. Si creano per queste vie condizioni favorevoli e un humus adatto a fornire risposte a desideri di gloria, affermazione e rivalsa, a risentimenti e attese di nuovi eroismi, che preparano, probabilmente, a una disposizione a praticare le forme di distruttività trascendente che stanno trasformando le nostre vite e la nostra socialità.