Fortuna e storia di un titolo
Quando alla fine del 1963 Umberto Eco porta a Valentino Bompiani, suo editore, il dattiloscritto di quello poi che sarà Apocalittici e integrati, non sa ancora di aver coniato uno dei titoli più fortunati del secondo dopoguerra, una vera e propria formula, che dominerà in tutte le discussioni a seguire sui mass media: fumetti, televisione, computer, web. Un’endiadi che funziona ancora oggi per descrivere il campo dei pessimisti e degli ottimisti, dei critici e degli entusiasti.
In verità, quel titolo non è proprio opera del giovane studioso di estetica; se ne stava annidato in una piccola sezione finale. Eco vuole intitolare il libro Psicologia e pedagogia delle comunicazioni di massa. Bompiani, che di editoria se ne intende, lo guarda e gli dice: “Ma lei è matto”. Eco prova a correggere: “Diciamo allora, Il problema della cultura di massa”. Bompiani sfoglia il dattiloscritto e trova quel titoletto finale. “Eccolo!”. Eco replica. “Ma non c’entra nulla con il resto del libro”. “C’entra, c’entra”, risponde l’editore. Così l’autore è costretto a scrivere un’ampia introduzione per giustificare il titolo.
Sono passati cinquant’anni e questo è ancora uno dei libri più famosi del semiologo, ma forse uno dei meno amati da lui. Nel corso degli anni si è ben guardato dal rimetterci mano, come ha invece fatto con Opera aperta e altre opere successive. Il successo fu immediato, anche grazie alle recensioni critiche. Pietro Citati, nel suo pezzo su “il Giorno”, apparso nell’ottobre del 1964 e titolato “La Pavone e Superman a braccetto con Kant”, si mostra molto preoccupato. Eugenio Montale non si lascia sfuggire l’occasione per un pezzo su “il Corriere della sera”, articolo semi-apocalittico e di stampo pessimistico.
L’accoglienza della stampa comunista è invece un po’ più favorevole, anche se con qualche punta critica, quella di Vittorio Spinazzola su “Vie nuove”, settimanale del PCI. Se ne occupa persino il “Times Literaly Supplement” con un articolo abbinato a un fumetto ricopiato da Lichtenstein: un cane che fa “Sniff sniff sniff”. Forse ancora più che con Opera aperta, il libro della nascente neoavanguardia, apparso poco prima, è con Apocalittici e integrati che Eco diventa un intellettuale di rilievo nella cultura italiana, e non solo lì.
In Sudamerica è ancora oggi, ha detto di recente a un convegno dedicato al libro, una delle sue opere più note e citate. Ma di cosa parla questo libro? Del Kitsch, per esempio, prima che esca la celebre antologia di Gillo Dorfles del 1968. Dei fumetti, con una serrata analisi di Steve Canyon, Superman, e Charlie Brown, con un saggio davvero innovativo, ben presto tradotto in inglese. Poi di canzonette, della produzione meccanica della musica e della televisione (è uno dei primi studi, dieci anni dopo la nascita di questo mezzo). Il bersaglio polemico del libro è un intellettuale allora di moda, pubblicato dal medesimo editore, Elémire Zolla, campione degli apocalittici.
Come Eco è arrivato a occuparsi di questi temi ritenuti di cultura “bassa”? Grazie alla sua passione per i fumetti, per la letteratura popolare, in genere, per il rapporto tra parola e immagine, come ha rivelato molti anni dopo nelle pagine del romanzo semiautobiografico La misteriosa fiamma della regina Loana. Nel 1961-62 il giovane studioso era stato invitato a un convegno su “Demitizzazione e immagine” da Enrico Castelli, intellettuale e studioso oggi dimenticato. Vi devono partecipare Kerényi, Ricoeur e vari teologi. Eco pensa di parlare del mito nei fumetti.
Ha un armadio con decine e decine di copie di albi con le storie a colori di Superman. Sono un mito del nostro tempo, pensa. Così si porta dietro gli album e va a Roma. Posa la pila dei fumetti sul tavolo dei relatori e comincia a parlare. L’effetto è un interesse immediato, tanto che dal ripiano, racconta, spariscono alcuni album. Nel 1977, ricapitolando la storia della nascita del libro in una riedizione tascabile del volume, Eco spiega come sono nati i vari saggi del libro, e anche altri che non sono stati non inclusi, e come la vera ragione della pubblicazione fosse un concorso universitario per una cattedra di “Pedagogia e psicologia delle comunicazioni di massa”, che poi non vince.
La domanda che i lettori si fanno a partire dal momento della pubblicazione è: Eco è un apocalittico o integrato? Walter Pedullà su “l’Avanti” risponde che è un terzaforzista tra apocalittici e integrati: “un realista che accetta il dialogo e fa concessioni per non perdere tutto. E il suo libro è una sorta di splendido memoriale di Yalta sulla cultura di massa”. Forse in questo dilemma, rovesciato sulla cultura italiana, ma anche di riflesso su se stesso, sta la ragione del successo dell’opera. A distanza di tempo l’autore si chiederà perché non fu capito: perché ambiguo, problematico o dialettico? Forse i suoi critici e lettori avevano bisogno allora di una risposta a tutto tondo, bianca o nera, un sì oppure un no, giusto o sbagliato: “come se fossero stati inquinati dalla cultura di massa”.
L’osservazione di Eco è interessante, perché questa è ancora la situazione attuale che vige nella società italiana di fronte ai prodotti della cultura di massa: respingerli o assumerli? Web come peste, e prima la televisione, oppure indispensabile strumento di comunicazione? Social network sì o no? La schiera degli apocalittici è ancora folta; un esempio recente è il Premio Nobel Vargas Llosa che scaglia contro la cultura di massa; e tra gli integrati Carlo Freccero, guru televisivo, con il suo Televisione (Bollati Boringhieri). Leggendo la prefazione estorta da Bompiani, si capisce come Eco usi gli apocalittici contro gli integrati e viceversa, come trovi ragioni negli uni come negli altri, ma senza essere un terzaforzista, come sosteneva Walter Pedullà cinquanta anni fa.
Né apocalittici né integrati, questo sembra l’atteggiamento buono anche per il presente, che Eco, a quel tempo gran appassionato di cultura di massa, mostra in azione attraverso le sue intelligenti analisi (l’uso del personaggio come tema innovativo). Gli esempi sono numerosi. Prendiamo il Kitsch, questione che ha occupato molti autori, tra cui Milan Kundera e Italo Calvino, diventando un tormentone per la cultura contemporanea. Eco mostrava nel 1964 come le avanguardie artistiche avessero utilizzato il Kitsch, così come il Kitsch aveva fatto con l’alta cultura (nella definizione, anno 1939, del critico americano Greenberg, il Kitsch è ciò che usa gli effetti dell’arte). Un atteggiamento che Eco ha poi rinnovato con la nozione di “guerriglia semiologica”, altra formula entrata nel circuito della discussione culturale nel decennio successivo.
Eco è senza dubbio uno straordinario creatore di temi e formule – e anche di feticci culturali – che gli permettono, tra l’altro, di non farsi mai trovare là dove ci si aspetti: scarta sempre di un po’. La polemica tra apocalittici e integrati continua anche ora con risultati alterni, dato che nessuno riesce a sopravanzare gli avversari. Nella prefazione del 1964 l’autore fa notare come esistono proprio quei “concetti feticcio”, come “industria culturale”, allora di gran moda grazie ad Edgar Morin, di cui lui stesso ha fatto, più o meno volontariamente, uso. Scrivendo che l’industria culturale nasce con Gutenberg, Eco spiazza il dibattito, e allarga la prospettiva temporale.
La vera lezione, quella che resta attuale, è lo studio concreto dei prodotti culturali e dei modi in cui vengono consumati – aspetto importante –, indispensabile per capire il mondo che ci circonda. Sapere prima che giudicare. Gli apocalittici non lo fanno quasi mai, ma neppure gli integrati, entusiasti senza perché, non pare si cimentano frequentemente. Dopo cinquant’anni, nonostante il suo naturale invecchiamento – ma si legge ancora con piacere –, il libro resta una lezione di metodo pratico. Per fortuna sua, e nostra, non si è intitolato Psicologia e pedagogia delle comunicazioni di massa, ma se questo fosse stato il titolo, c’è da chiedersi se avrebbe avuto il medesimo effetto sui lettori. Colpo di genio o sfacciata fortuna? La dea bendata, si sa, aiuta quasi sempre gli audaci.
Pubblicato in precedenza su L’Espresso