XXVIII edizione, 2017 Lanzarote, Jardín de Cactus / César Manrique: fenomenologia del paesaggio
La costituzione del paesaggio vulcanico di Lanzarote a oggetto di contemplazione estetica creò le condizioni affinché lo sviluppo urbanistico dell’isola si realizzasse in modo ordinato, senza causare irreparabili danni all’ambiente. Fu proprio questo approccio conservazionista a conferire all’isola e alla sua orografia vulcanica un “valore aggiunto”.
Quando il Cabildo, la massima istituzione politica dell’isola, decise di affidare il progetto a César Manrique, prese la decisione giusta. Grazie all’avvedutezza di questa scelta, nel momento in cui l’industria turistica iniziò a svilupparsi sull’isola, i criteri estetici ed ecologici prevalsero su quelli economici. Non v’è dubbio che la battaglia intrapresa a partire dagli anni ottanta dai gruppi ecologisti presenti nell’isola sia stata favorita dall’opera di sensibilizzazione che Manrique aveva portato avanti vent’anni prima con un chiaro intento pedagogico.
César Manrique fu un pittore che, dopo essersi formato all’Accademia di Belle Arti di Madrid (1945-1950), si evolse verso un genere di astrazione materica che incorporava riferimenti simbolici dell’orografia vulcanica della sua isola natale. «Toda mi pintura es vulcanología y geología en su fundamento básico», recita uno dei suoi aforismi.
Il genius loci dell’isola fu sempre presente nel suo processo creativo, come risulta evidente dalla tematica sviluppata nei murales del Parador de Turismo di Arrecife (1950), opera della sua giovinezza in cui inizia a manifestarsi un’impostazione paesaggistica.
Anni dopo dichiarò che il modello che aveva ispirato il suo salto dalla rappresentazione dello spazio alla costruzione dello stesso, dalla natura rappresentata alla natura ricostruita secondo criteri estetici, era stato Claude Monet, il pittore che aveva fatto del suo giardino di Giverny una vera e propria opera d’arte.
Il tentativo di stabilire un nesso tra estetica e turismo fu l’intento eteronimo che dominò la sua evoluzione come artista. In diversi testi dell’epoca, pubblicati sulla stampa locale, César Manrique propose il suo progetto adducendo un’argomentazione socio-economica. Sosteneva che Lanzarote fosse la più povera tra le isole dell’arcipelago delle Canarie e che la carenza d’acqua avesse condizionato storicamente l’esistenza dei suoi abitanti.
Ed era vero. Non dobbiamo dimenticare che il paesaggio agricolo dell’isola, le cui immagini oggi suscitano una piacevole esperienza estetica con i terrazzamenti e le colture su sabbia, fu il frutto di un lungo processo adattivo e funzionale. Oggi vediamo questi paesaggi formati da piccoli “crateri” di sabbia come se fossero “giardini vulcanici”. Queste repliche in miniatura di altri crateri più grandi che coprono il territorio insulare, suscitano nello spettatore moderno un’analogia simbolica basata sul principio della geometria frattale. È opportuno però precisare che, generazione dopo generazione, i contadini hanno piantato le viti sotto la sabbia vulcanica solo per proteggere il raccolto dal vento e dal calore bruciante che arriva dal vicino deserto. Questo paesaggio, che originariamente non aveva alcun significato estetico, iniziò ad acquisirne per il turista che lo contemplava con sguardo “disinteressato”, come direbbe Immanuel Kant. Quando l’unica fonte di reddito della popolazione dell’isola erano i proventi dell’agricoltura e della pesca, il regno della necessità dominava tutti gli aspetti della vita dei suoi abitanti.
Ciononostante, gli abitanti dell’isola continuavano a essere poveri, incatenati al lavoro della terra e in perenne attesa delle piogge, e César Manrique non si rassegnava al fatto che conducessero un’esistenza senza speranze. Il suo sogno estetico aveva quindi una chiara dimensione sociale.
D’altra parte, il turismo senz’acqua non aveva alcun futuro come attività economica. Tutto cambiò quando sull’isola venne installato un impianto di depurazione dell’acqua. Tuttavia, questa condizione materiale non era sufficiente; era infatti necessario che il paesaggio vulcanico divenisse oggetto di contemplazione estetica. [...]
L’inquadratura di un frammento di natura costituisce la base della pittura di paesaggio sin dalle sue origini. Qualunque paesaggio, sia esso dipinto, contemplato o costruito, costituisce una selezione artificiale che funge da ritaglio visivo della natura. Lo sguardo estetico stabilisce una delimitazione simbolica delle immagini del mondo naturale, una delimitazione che chiamiamo paesaggio. È questa la relazione estetica che l’«occhio e lo spirito» instaurano con la natura, come asserisce Maurice Merleau-Ponty. Quando Manrique dipingeva un quadro che aveva come tema un frammento di natura vulcanica o interveniva sul paesaggio naturale, seguiva esattamente lo stesso procedimento. Non faceva altro che delimitare l’immagine. Nelle sue opere pittoriche, il significato simbolico
del paesaggio vulcanico si riduce alle textures e alla scala cromatica.
In realtà, i suoi quadri sono frammenti bidimensionali della natura, ma non sono paesaggi. Nella sua pittura si delinea una visione atomistica della natura vulcanica che si basa sul procedimento retorico della metonimia (la parte per il tutto) e non sulla metafora. Nello sviluppo della sua concezione ambientale e architettonica del paesaggio, egli propose un tipo di esperienza estetica del paesaggio che prescindeva tanto dalla mediazione simbolica e metaforica del paesaggio, quanto dalla descrizione, poiché ciò che rivestiva importanza era la scelta dell’ubicazione. Una volta stabilita l’inquadratura, bisognava soltanto incorniciarla.
Questa era per lui l’operazione estetica realmente significativa. A questo proposito, Eduardo Cáceres, l’architetto con il quale Manrique collaborò per realizzare il Mirador del Río, racconta che durante le loro passeggiate in campagna alla scoperta di posti singolari ed esempi di architettura popolare, l’artista confessava ai suoi amici e collaboratori il timore che gli interventi che aveva pianificato alterassero lo spirito del luogo. Affermava che il paesaggio vulcanico di Lanzarote necessitasse solo di un passe-partout. L’architetto Juan Manuel Palerm Salazar ha parlato dell’importanza delle fotografie di César Manrique nelle quali quest’ultimo posa sulle soglie degli usci, come se il contenuto di verità della sua stessa effigie affiorasse solo nella scelta di un’inquadratura architettonica significativa. Si tratta di un’interpretazione fenomenologica dell’atto di guardare. Quando il soggetto si mostra sulla soglia di una porta, non fa altro che enfatizzare l’importanza del suo sguardo e di quello di chi lo contempla. È esattamente questa l’esperienza che si vive quando ci si avvicina a una delle sue ampie pareti vetrate, senza profili verticali né telaio, che costituiscono gli elementi essenziali dei suoi magnifici miradores. Si potrebbe affermare che l’importante non è il panorama che si scorge,
né il giudizio che potremmo esprimere sulla bellezza del paesaggio contemplato, bensì l’inquadratura perfetta dalla posizione giusta.
Questo è ciò che dà senso e valore alla scelta del terreno su cui edificare. Ed è su questo che si basa il salto dalla pittura come spazio tridimensionale all’intervento architettonico e paesaggistico. Tuttavia, questo passaggio dallo spazio dipinto allo spazio costruito non lo indusse ad abbandonare l’opera pittorica, ma piuttosto a svilupparla in modo tridimensionale.
Nel 1966 César Manrique decise di lasciare New York (sebbene rimase legato al suo ambiente artistico fino al 1968, realizzando anche alcune mostre personali per le quali si era già impegnato). L’evento decisivo che cambiò il suo destino di artista fu l’incarico commissionatogli dal suo amico Juan Ramírez Cerdá, allora presidente del Cabildo di Lanzarote, il quale gli propose di realizzare un ambizioso progetto che trasformasse l’immagine dell’isola senza tradirne lo spirito. In una pagina del suo diario, datata «New York, 24 gennaio 1966», si legge: «Hoy por la mañana recibí con gran alegría el telegrama [...] sobre la inauguración del Jameo Chico [primera fase de los Jameos del Agua]. He sentido un profundo desconsuelo de no haber estado allí. Siempre lo había imaginado desde pequeño [...]. Pienso más intensamente que nunca en la isla. Creo que es donde está mi verdad».
Questa sfida non lo spaventò. Si sentiva in grado di affrontare le difficoltà che
il progetto che gli era stato affidato implicava. Era consapevole del fatto che avrebbe potuto ricevere molte critiche, poiché non aveva il titolo di architetto né alcuna esperienza professionale accreditata. Tuttavia, facendo sfoggio di una grande sicurezza in se stesso, rispose in anticipo a quanti dubitavano della sua competenza: «En otros aspectos del conocimiento humano soy un analfabeto. Ahora bien, en estética, en arquitectura, en urbanismo me considero una autoridad, porque lo estoy estudiando desde que nací y lo llevo dentro de mi sangre». Sovente aveva pensato al progetto globale del territorio di Lanzarote, ma la sua esecuzione richiedeva condizioni tecniche che era difficile rispettare. Il salto dall’idea alla sua realizzazione è sempre complicato.
Dato che sull’isola non vi erano ditte private che avessero la competenza tecnica per sviluppare un progetto di tale portata e complessità, il Cabildo dovette creare un’impresa edile dotata di capitale pubblico (Vías y Obras). Fu così che pian piano nacquero Los Jameos del Agua, il ristorante El Diablo nel Parco Nazionale di Timanfaya, il Monumento al Campesino, il Mirador del Río, il Museo Internacional de Arte Contemporáneo (miac, Castillo de San José) e il Jardín de Cactus. Ho omesso da questo elenco la Cueva de los Verdes, in quanto l’opera fu realizzata quando César Manrique si trovava a New York, da dove egli stesso riconobbe la paternità di Jesús Soto che in seguito divenne suo fedele collaboratore. [...] Nell’ambito dell’architettura privata, è opportuno citare anche le sue abitazioni di Tahíche (1968) e di Haría (1988), che alla morte dell’artista vennero incorporate nel patrimonio della Fondazione César Manrique, trasformandosi così in spazi pubblici. Possiamo quindi parlare di otto centri pubblici, che fungono da chakra del corpo dell’isola.
Si circondò di un’équipe di collaboratori (muratori, falegnami, scalpellini, giardinieri e altri ancora) e, quando fu necessario, ricorse a professionisti altamente qualificati (geometri, architetti e ingegneri). Si comportava come se fosse un direttore d’orchestra che compone la partitura e, al tempo stesso, sceglie i musicisti che dovranno interpretarla. In occasione della commemorazione del decimo anniversario della morte dell’artista, Eduardo Cáceres elogiò sulla stampa locale la sua capacità di creare un’atmosfera amichevole tra tecnici e operai, un’atmosfera che si fondava sull’importanza che egli attribuiva a valori etici come l’«umanità e l’impegno nel lavoro». Il grado di coinvolgimento dei suoi collaboratori nel progetto era frutto del rapporto affettivo che egli instaurava con ciascuno di loro. Allo stesso tempo, però, si atteneva a criteri rigorosi per quanto concerneva la finitura dei lavori e il trattamento dei materiali, tanto che i suoi artigiani dovevano sopportare stoicamente i suoi furiosi rimproveri se facevano qualcosa di sbagliato. Io stesso fui testimone, ad esempio, di come si scagliò contro uno dei suoi falegnami perché il legno che si accingeva a lavorare non era sufficientemente trattato.
Cáceres ricorda le passeggiate tra i campi dell’isola che Manrique faceva, una volta terminati i lavori in loco, sempre in compagnia dei suoi più stretti collaboratori (Luis Morales, Jesús Soto e lo stesso Cáceres). Il ritratto commemorativo che quest’ultimo pubblicò, e al quale si fa qui riferimento, aveva un titolo significativo: La pedagogía como actitud. Infatti, César Manrique fece sempre pedagogia e, grazie al suo enorme carisma (qualità non molto frequente in un artista), riuscì a contagiare il popolo con il suo entusiasmo. La sua passione era la produzione dell’arte e dell’architettura, ma sapeva che la soddisfazione personale che un’opera ben fatta può suscitare non era sufficiente. Voleva fomentare coscienza estetica nei suoi concittadini e impegno nei suoi operai. Occorre anche dire che era implacabile quando si scontrava con la malafede di qualche politico corrotto che voleva soltanto arricchirsi con le attività immobiliari, a costo di distruggere il paesaggio.
Agiva quindi come il profeta visionario che di fatto era e, servendosi del carisma che gli garantiva la presenza sui mezzi di comunicazione, smascherava le intenzioni e rimproverava la condotta di quei politici corrotti che non potevano far altro che sopportare tale vergogna. Tuttavia l’intento pedagogico rimaneva per lui in primo piano.
Il paesaggio di Lanzarote presenta anche un aspetto antropico, che comprende
le tecniche di coltivazione e le abitazioni rurali. Questo ambito rappresenta un’altra delle fonti di ispirazione di cui si nutrì César Manrique per sviluppare le sue idee sul paesaggio. Prima dell’avvento del turismo, la cultura contadina aveva rivestito un ruolo centrale nell’isola, come si evince dai begli esempi di architettura rurale che a quei tempi ancora si conservavano (oggi ne restano meno). Queste umili costruzioni presentano alcune varianti significative rispetto alle tipologie di architettura spontanea che si osservano in altre isole dell’arcipelago.
La più rilevante consiste nell’uso della calce nei paramenti e nelle coperture, e nell’assenza di materiali “ricchi” come il duro e nobile legno del pino delle Canarie (tea) che si usa nelle coperture in stile mudéjar e nei balconi dell’architettura domestica di Tenerife, Gran Canaria e La Palma. Consapevole del fatto che l’irruzione del turismo metteva in pericolo la conservazione di questi esempi di architettura popolare dell’isola, César Manrique ritenne che fosse necessario catalogarli. Il tema del vernacolo, con il quale venne sempre identificato, lo portò a realizzare un lavoro di scoperta dei fondamenti storico-artistici e antropologici senza precedenti nella trattatistica architettonica spagnola. L’opera di raccolta delle immagini ebbe inizio sotto la sua direzione nel 1971 attraverso sistematici lavori sul campo e culminò nella stesura di un libro, Lanzarote, arquitectura inédita (1974), al quale collaborarono anche Fachico Rojas (fotografo) e Juan Ramírez de Lucas (etnografo e scrittore), che figurano come coautori accanto a César Manrique, sebbene la direzione e l’iniziativa di questo progetto editoriale fossero di sua esclusiva pertinenza. [...]
L’osservazione dello spazio naturale che lo indusse a meditare sulle connotazioni estetiche dell’orografia vulcanica, fu fonte di ispirazione anche per alcune originali soluzioni costruttive, come i pavimenti formati da un puzzle di lastre di roccia di origine vulcanica.
Si ispirò anche al giardino giapponese e all’estetica dell’espressionismo architettonico tedesco, di radice romantica. Mi riferisco sia al giardino secco dei templi shintoisti, sia al concetto di grotta che Bruno Taut, il grande architetto visionario dell’espressionismo tedesco, propose nel suo libro Alpine Architektur (1919). Tuttavia, per capire l’opera di César Manrique, non è tanto opportuno cercare riferimenti nell’arte contemporanea, quanto piuttosto analizzare la preistoria delle isole. In un’opera della sua giovinezza, i già citati murali del Parador de Turismo di Lanzarote, ad Arrecife (1950), Manrique propose una visione del paesaggio insulare avente come tema alcuni eventi naturali, come le eruzioni vulcaniche, o climatologici (il vento e il sole), e l’effetto degli stessi sulla vita degli abitanti dell’isola. Unitamente alle immagini della natura, che hanno una chiara dimensione paesaggistica, rappresentava anche aspetti della cultura materiale degli antichi abitanti dell’isola, con i loro costumi e i loro miti. Fu Sebastián Jiménez Sánchez, un archeologo di Las Palmas legato al Museo Canario, a elaborare il programma iconografico di questi murali. Com’è noto, gli aborigeni delle isole Canarie, non disponendo di strumenti in ferro, edificarono poche costruzioni isolate e dimorarono nelle caverne o nei rifugi naturali trovati lungo i pendii delle montagne. Ebbene, nella concezione paesaggistica e architettonica
dei suoi miradores, vi sono interessanti reminiscenze dell’habitat dei primi abitanti delle isole.
Il più importante tra gli edifici scavati nella roccia è il Mirador del Río (ultimato nel 1973). In quest’opera risulta evidente la duplice influenza: da una parte l’espressionismo, dall’altra l’habitat degli abitanti preistorici dell’isola. Per quanto concerne i cosiddetti jameos, si tratta di reliquie di antiche eruzioni: il crollo delle volte del tunnel lavico diede origine a delle cavità all’interno delle quali i sedimenti spesso permettevano lo sviluppo di vegetazioni arbustive. Fu l’immagine di un albero di fico che cresceva in uno di questi incavi che diede a Manrique la prova che in quel luogo del villaggio di Tahíche esisteva un tunnel di lava all’interno del quale poter costruire la sua abitazione. Da qui ebbe origine la sua architettura sotterranea. Queste cavità costituiscono una sorta di maestosi pozzi di luce che conferiscono alla casa un’illuminazione naturale. A volte, come nel caso dei Jameos del Agua, si servì della grandezza di queste cavità per progettare giardini e piscine che producevano l’effetto di un’oasi nel mezzo dell’arido malpaís. Queste isole nell’isola sono rifugi paradisiaci protetti dal vento e dal sole bruciante.
Le due tipologie sopra citate, il tunnel lavico e il mirador, svolgono due funzioni: l’abitare sotto terra e l’osservazione del paesaggio dalla cima delle montagne. Nelle suddette tipologie, le aperture sono fondamentali. Sappiamo che in passato i jameos e i tunnel lavici vennero utilizzati dagli abitanti dell’isola come rifugi per nascondersi dai pirati barbareschi che invadevano regolarmente l’isola. Attualmente, però, gli usi di questi spazi sono altri. Dal fondo di questi tunnel a volte si aprono dei pozzi di luce, i jameos appunto. Al calar della notte, si trasformano in osservatori del cielo stellato, “paesaggio del cielo” nella notte atlantica. Nella sua casa di Tahíche che, come abbiamo detto, era stata in origine un tunnel di lava, César Manrique contemplava le stelle con il suo telescopio e pensava che, dopo la sua morte, il suo corpo sarebbe divenuto parte di quella “polvere innamorata”. In quei momenti si sentiva pervaso da un profondo sentimento religioso di ispirazione panteista. Manrique non era un uomo di grande cultura, ma aveva letto Teilhard de Chardin e, come questi, si interessava alla paleontologia. E nella sua pittura sono presenti immagini di fossili sepolti sotto il letto vulcanico.
Nei suoi miradores il concetto di “apertura” rappresenta l’asse intorno al quale si articola l’esperienza contemplativa del paesaggio. Qui l’occhio si apre a tre panoramiche o estensioni che rispondono all’estetica del sublime: il cielo, il suolo lavico e l’oceano. Anche il paesaggio contemplato però “si apre” al soggetto che lo ammira. Nell’atto di mostrarsi, la natura si offre come dono. La relazione tra soggetto e oggetto è riflessiva e la natura agisce come se fosse il soggetto. In nessuno degli altri spazi che egli progettò, questa relazione riflessiva è tanto eloquente come lo è nel Mirador del Río.
L’approccio fenomenologico qui acquisisce un valore paradigmatico. Vi sono però altre varianti di questa esperienza di contemplazione. Il ristorante della Montaña del Fuego si apre al mare di lava pietrificata del Parco naturale di Timanfaya, ed è come un’isola panoramica nel mezzo della colata vulcanica.
Dalla terrazza del caffè del Jardín de Cactus (1990), che è un punto panoramico interno, possiamo ammirare l’ampio patrimonio di cactacee e di altre piante grasse che aveva raccolto durante i suoi viaggi in diverse parti del mondo e che, esposte in terrazze, si esibiscono come fossero attori sul palcoscenico di un teatro. Questo spazio contiene un chiaro riferimento simbolico all’estetica delle avanguardie; non a caso, i cactus e le piante grasse furono uno dei motivi iconografici ricorrenti della fotografia e delle arti figurative degli anni venti in Europa, e non esattamente per le loro connotazioni naturalistiche, quanto piuttosto per la struttura geometrica ed esatta che conferisce loro l’aspetto di artefatti che costituiscono un correlato simbolico del mondo delle macchine.
Le pareti di pietra dei gradoni si adattano alle irregolarità del terreno creando
una sorta di perpetuum mobile che si struttura secondo un rigoroso progetto geometrico. Questo muro ondulante non aspira a creare un’illusione estetica naturalistica. L’organicità non esclude un contenuto di verità immanente che offre allo spettatore una spiegazione plausibile circa le tecniche costruttive utilizzate dai contadini delle Canarie per adattare l’aspra orografia delle isole ai lavori agricoli. La tecnologia agricola dei costruttori delle pareti costituisce un fenomeno antropico e culturale che l’artista interpreta ed espone in uno spazio che funge da anfiteatro della natura, con le sue gradinate e i suoi palcoscenici. Ma non tutto è finzione nell’immagine architettonica di questo singolare teatro-giardino. Per César Manrique l’arte era al contempo un gioco e una cosa seria, ed è per questo che nell’opera si combinano la dimensione ludica e quella cognitiva.
La pratica secolare della coltivazione a terrazza viene presentata come un gioco e, allo stesso tempo, come un fenomeno della cui bellezza funzionale gli abitanti dell’isola non erano pienamente consapevoli. La bellezza non nasce dall’artificio, bensì dalla riflessione e dall’adattamento all’orografia. L’immagine verticale del mulino a vento si erge presiedendo il complesso come se fosse la torre di una cattedrale (si veda il significato simbolico delle case del popolo nell’architettura dell’espressionismo tedesco in cui la torre con l’orologio, che regolava i turni di lavoro, giocava il ruolo di elemento di coesione sociale per analogia con le torri delle chiese medievali). In questo caso, l’immagine del mulino è un elemento simbolico del culto della dea della natura, elemento che garantisce, inoltre, il sostentamento degli abitanti dell’isola poiché il luogo in cui si inforna il pane nostro di tutti i giorni, ci ricorda il nesso tra l’uomo e la natura alla quale esso appartiene e da cui dipende la sua sussistenza. La pertinenza di tale allegoria è evidente in una società come quella di Lanzarote che, nel cambiare il proprio modello economico dall’agricoltura al turismo, stava dimenticando le proprie origini contadine.
A volte i cambi d’uso si verificano a partire da un ritrovamento fortuito. Nel 1976, César Manrique intuì che una delle pareti basaltiche dei Jameos del Agua nascondeva una grande cavità, e aveva ragione. Oggi, questo spazio scoperto o rinvenuto è un auditorium monumentale. A tal riguardo è opportuno parlare di un caso di alumbramiento, termine utilizzato alle Canarie per indicare il rinvenimento di acque raccolte nel sottosuolo, in gallerie o pozzi. Questa scoperta, frutto del caso, permette a una verità naturale che era rimasta nascosta di manifestarsi. È così che la natura si mostra dinanzi a noi come fenomeno essenziale, che sia il cielo stellato visto dall’interno di un jameo, la vegetazione a terrazze oppure l’isola La Graciosa che fluttua nell’oceano, come se fosse l’isola fantasma che rimane viva nell’immaginario popolare con il nome di Ínsula de San Borondón (versione della leggenda medievale di San Brendano e delle sue navigazioni). [...]
A proposito dell’importanza simbolica delle transizioni nella sua opera architettonica, vorrei citare nuovamente il carattere enigmatico dei suoi ritratti fotografici in cui appare in posa sulla soglia di una porta. Cos’è una porta se non un simbolo della conoscenza come passaggio da uno stato all’altro, da uno spazio all’altro? Vediamo quindi come il progetto dell’isola risponde a una finalità che non è compatibile con l’immagine edonista e frivola che egli stesso sovente proiettava nelle sue apparizioni pubbliche. Questa dimensione iniziatica è evidente se osserviamo una delle sue ultime opere, Los Juguetes del Viento, una serie di sculture mobili installate nelle rotatorie dell’isola. Considerando che Manrique non era favorevole a interrompere con facciate o monumenti la panoramica orizzontale dell’isola, cosa lo indusse a erigere questi cippi che ostentano indubbiamente un significato monumentale, giacché sono visibili anche da grande distanza? In risposta, non si può addurre l’argomentazione che erano necessari per ordinare il traffico stradale. Niente di più banale poiché, sebbene rispondano a una volontà di ordinamento, il loro significato è simbolico. Nonostante il pezzo centrale del Monumento al Campesino, che il suo autore chiamò originariamente Fecundidad, non sia una scultura mobile, si può affermare che esso inauguri questa rete di cippi o totem distribuiti su tutta l’isola. Non è un caso che questo monumento alla fecondità si trovi nel centro geografico dell’isola. Sebbene alluda all’uomo che coltiva la terra, l’opera è dedicata alla dea dell’acqua, la quale amministra una risorsa che, data la sua scarsità sull’isola, determina la vita dei suoi abitanti. Queste sculture mobili, con il loro meccanismo di giunti e pale, sono associate a un altro elemento della natura, il vento, importante per Lanzarote tanto quanto l’acqua. L’isola è sferzata dai venti alisei che, a causa dell’assenza di montagne di una certa altezza, soffiano con insolita forza durante tutto l’anno. Tuttavia, così come i contadini di Lanzarote ottennero abbondanti vantaggi per i loro raccolti, lo stesso accade con il vento. Si può dire che non sia stato “addomesticato” soltanto il fuoco ma anche il vento, incanalando mediante alcune piccole palizzate la corrente che soffia sull’isola, attraversandola da parte a parte, e che i nativi chiamano el río perché, in effetti, è un fiume di vento il cui contenuto di sostanze nutrienti assicura la fertilità dei raccolti. In riferimento al significato dei Juguetes del Viento, alcuni storici e critici d’arte si limitano a segnalare la relazione morfologica con i mobiles dell’artista nordamericano Alexander Calder. Tuttavia, il contenuto di verità di queste immagini può trasmetterlo completamente soltanto un approccio di antropologia simbolica. È necessario quindi parlare di totem consacrati al dio del vento, sebbene io faccia riferimento a questo concetto antropologico in modo analogico. La poetica degli elementi sviluppata da Manrique si ispirava al mondo materiale e creava immagini con un potente afflato simbolico. Ciò non significa che César Manrique praticasse la religione animista o che fosse un adoratore del vento o del fuoco, ma soltanto che egli voleva che nelle sue opere ambientali si riconoscesse il significato simbolico di questi elementi che appartengono al mondo naturale. Bisogna dunque parlare di totem che fungono da segni o promemoria di una realtà che ha segnato la vita degli abitanti dell’isola dalla preistoria fino ai giorni nostri.
Ernst Haeckel, creatore del termine “ecologia” e fondatore di questa scienza, si recò a Lanzarote nel 1867 e vi rimase tre mesi, durante i quali realizzò diversi lavori sulla fauna marina. Egli aveva una spiccata sensibilità artistica e nei suoi viaggi portava sempre con sé un cavalletto e una scatola con matite, pennelli e acquerelli, come il tanto ammirato Alexander von Humboldt, il quale aveva visitato le isole Canarie nella prima tappa del suo viaggio nelle regioni equinoziali. Entrambi credevano che esistesse una relazione indissolubile tra arte e natura. Haeckel era monista e non faceva distinzione tra spirito e materia, tra mondo organico e inorganico. È noto che i suoi disegni delle meduse esercitarono una grande influenza sull’Art Nouveau. Anche César Manrique credeva in questa relazione, ma mentre Haeckel, in quanto scienziato, arrivò all’arte a partire dalla conoscenza della natura, Manrique, in quanto artista, fece il percorso inverso scoprendo i segreti del mondo naturale a partire dall’arte. È da qui che deriva il senso analogico di tutta la sua opera. Nei testi che ci ha lasciato risulta evidente la sua concezione monista della natura, che condivideva con Haeckel e Teilhard de Chardin. Quest’ultimo, come abbiamo visto, credeva che la materia non si distruggesse bensì che si trasformasse.
Manrique professava queste idee e le difendeva con la stessa convinzione con la quale respingeva il pensiero materialista che concepisce la natura come una fonte di risorse passibili di essere sfruttate, facendo sì che la “ricchezza delle nazioni” (titolo del famoso libro di Adam Smith, che è la bibbia del liberalismo economico) dipendesse dallo sfruttamento delle risorse naturali. César Manrique rifiutò questa nefasta relazione tra ricchezza e natura, così come aveva fatto prima di lui John Ruskin, il quale nel XIX secolo aveva coniato un motto che Manrique fece suo: «There is no wealth but life» (non c’è altra ricchezza che la vita). Non so se Manrique lesse le Sette lampade dell’architettura, il grande libro di Ruskin, ma in ogni caso avrebbe sostenuto che la “lampada della vita”, la più importante di tutte, debba rimanere sempre accesa. Manrique temeva forse che la fiamma di questa lampada si stesse spegnendo a Lanzarote? Credo di sì. La causa di questo “oscuramento” era la conseguenza, a suo parere, degli attacchi che allora si commettevano contro l’integrità della natura e che egli riteneva vere e proprie profanazioni. E, poiché la nozione del profano implica la nozione del sacro, è evidente che egli attribuiva questo valore allo spazio insulare. Ne è prova il fatto che quando veniva a sapere che qualcuno osava profanare il tempio della natura, del quale si sentiva sommo sacerdote, niente e nessuno poteva contenere la sua santa ira. Questo spiega l’importanza che egli attribuiva alla scelta del luogo sul quale edificare uno di questi centri turistici o alla designazione delle rotatorie sulle quali installare le sculture mobili.
La scelta dell’ubicazione è un fatto trascendentale nell’architettura religiosa di tutte le epoche. Di conseguenza, non è rischioso affermare che i centri turistici fanno parte di una rete di luoghi a cui Manrique attribuiva un valore sacro, luoghi che formano una sola opera che è una sorta di cartografia esoterica dello spazio naturale dell’isola,in opposizione alla cartografia esoterica che deriva dall’uso turistico di questi spazi.
La sua fede panteista dettò il suo progetto, ma alla fine della sua vita percepì che tale progetto poteva essere interpretato in chiave identitaria e, per smontare questa accusa, realizzò alcuni murali di grandi dimensioni che intitolò Banderas del Cosmos (1985).
Queste opere vennero presentate per la prima volta in occasione dell’inaugurazione dell’osservatorio astronomico di La Palma, che fa parte di una delle reti di ricerca astronomica più importanti al mondo. In questo modo proclamava inequivocabilmente che la sua religione era cosmica e che Lanzarote era soltanto il luogo dal quale egli venerava l’autore (che lo si chiami dio o cosmocratore) dell’ordine segreto che governa l’universo e la cui bellezza altro non è che il modo in cui questo ordine si fa visibile.
Testo tratto dal saggio di Fernando Castro Borrego in corso di pubblicazione in Lanzarote, Jardín de Cactus. Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, ventottesima edizione, a cura di Patrizia Boschiero, Luigi Latini, Juan Manuel Palerm Salazar, Fondazione Benetton Studi Ricerche (traduzione dallo spagnolo all’italiano di Francesca Nasetti).