Speciale

Expo: Milano da bere, Milano da mangiare

25 Ottobre 2015

Ho un ricordo nefasto degli anni della Milano da bere, oggi associati agli anni Ottanta, in realtà cominciati nel 1985 e terminati sotto i colpi di Tangentopoli tra il 1992 e il '93. Trionfo dell'effimero, della spensieratezza, degli stilisti assurti a maître à penser, di uomini senza qualità (Cesare Cadeo a passeggio per via della Spiga), increduli del denaro facile che entrava (e usciva) dalle loro tasche. Un'amica torinese, che visse la Milano di quegli anni, cercò di farmi vedere l'altro lato della medaglia: le esplosioni di creatività, il dadaismo di alcuni personaggi, l'improbabile come fonte di divertimento. Non mi persuase, ma mi offrì un altro punto di vista.


Ora è il tempo della Milano da mangiare, anticipata dall'apertura di Eataly nel 2014, che vive un successo che non ha conosciuto flessioni, è proseguita nelle visite a Expo che sono divenute soprattutto l'occasione per scoprire cibi di terre lontane. Forse una forma di neocolonialismo che ha il suo simbolo nel Crocoburger, addentabile dopo circa due ore di coda, al prezzo di 15 euro che comprendono patatine fritte e una bibita al baobab. Lo offre lo stand dello Zimbabwe, ma pare sia gestito da svelti libanesi (absit iniuria verbis). Di minor successo lo Zebraburger. L'esotismo a buon (insomma...) mercato è una delle chiavi di successo di tutte le Esposizioni universali, ma il fenomeno della Milano da mangiare si avverte soprattutto nel centro cittadino, a parte il già ricordato successo del Mercato Metropolitano. A scalzare boutique in affanno dopo anni di vacche magre sono arrivati una serie di negozi monomarca legati all'alimentare: i più diffusi sono i cioccolatieri di lusso (non si userà più l'espressione, molto milanese, detto di chi fa una magra, "far la figura del cioccolataio"?), seguono le salsamenterie con cucina dove si vendono prosciutti, formaggi ecc., continua il successo dell'ultimo piano de La Rinascente (per certi versi ancora un termometro della città, legato però oggi ai flussi turistici). I mesi di Expo hanno offerto anche la possibilità di mangiare "on the roof", sul tetto della Galleria, di Banca Intesa (si mormora che alcuni dirigenti siano vistosamente ingrassati dopo decine di pranzi di lavoro) in piazza della Scala e in cima alla Triennale. Ristoranti con chef stellati, a prezzi proibitivi, ma che hanno lasciato un'impronta a questi mesi, così come il Refettorio Ambrosiano, un esperimento che produrrà un documentari. La corsa verso il cibo ha prodotto libri, dibattiti, convegni seguiti da più o meno riusciti buffet. Perché il cibo? A parte i nobili propositi di nutrire il pianeta, non è difficile aggiungere che il cibo produce identità, differenze e riti condivisi e, traducendolo nei termini di Expo, le diverse sfumature di un mondo globalizzato. Cosa altro è il Crocoburger?


Parlando di Milano, la città che ha introdotto i supermercati in Italia (il carrello dell'Esselunga è l'essenza di come si mangia nelle case dei milanesi), il cibo del Carosello e degli spot (la coppa del nonno, il mulino bianco, la valle degli orti), i primi fast food, i "paninari", i panini giusti da accoppiare ai Negroni sbagliati, è certamente un progresso un'attenzione, si spera non modaiola, a quello che si mangia. Dal basso crescono i GAS (Gruppi d'Acquisto Solidale) che favoriscono i piccoli produttori, a loro volta presenti nei mercatini "bio" che si sono diffusi in città. Forse è arrivato il tempo in cui a Milano non si mangerà più distrattamente, lodando ristoranti pessimi perché a casa ormai si mangia male, oppure sfamandosi agli happy Hour con mezzi tramezzini intinti in salse improbabili. L'Expo potrebbe aver offerto un canale di diffusione a questo rinnovato interesse.


Vorrei chiudere con una storiella, molto milanese, che raccontava ai noi nipoti nostra nonna (ma probabilmente risale a qualche generazione prima). Me la ricordo così: un soldato di Napoleone passa davanti a un fruttivendolo e vede un mucchio di noci. Chiede: «Comment
s'appelent-ils?» Risposta: «Se pelen no, se schichen». «Comment?» «Coi man. Coi pé. Come te voereut!» «Je ne comprends pas.» «Se te voereut minga comprál, lassa pur stà». C'è bisogno di tradurre?

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