Gesù o Paolo?
Perché Paolo di Tarso dovrebbe ancora riguardarci? Per quale motivo l’autore delle celebri lettere (o le più iconiche “epistole”), destinate a quelle popolazioni dai nomi perlopiù esotici e a noi così distanti nel tempo e nelle sensibilità culturali, dovrebbe ancora interrogarci? Paolo con i suoi innumerevoli volti che via via gli sono stati attribuiti nei secoli; impugnato, talvolta, per giustificare le repressioni dottrinali più violente che hanno attraversato la storia della cristianità, altre per legittimare eresie e scismi. Paolo l’ebreo, il convertito, l’apostata, il chiamato, il persecutore, l’apostolo, il martire, il santo; per alcuni il geniale inventore del cristianesimo, per altri il più perverso falsificatore della parola di Gesù di Nazareth.
Si appellavano a Paolo i luterani in difesa del principio per cui ciò che conta per la salvezza sia soltanto la fede; facevano altrettanto i papisti, per dimostrare che la fede necessita sempre delle proprie opere. Ed era ancora Paolo, in fondo, a parlare. Spinoza, il filosofo “maledetto”, cita Paolo quando deve dimostrare in che senso intendere il rispetto delle leggi (ma lo cita anche, seppur sottovoce, per protestare contro il peso coercitivo di ogni legislazione).
Per non parlare dell’uso che ne faranno Agostino, Lutero, Hegel, Schelling, Heidegger o Schmitt. Quando poi nel Novecento sorgerà quel vasto dibattito sui rapporti tra ebraismo e cristianesimo, Paolo tornerà di nuovo a inquietare come vera pietra di scandalo: difensore pertinace della legge mosaica per alcuni, origine e ispiratore perpetuo di tutta la storia dell’antigiudaismo, per altri. Affari da studiosi o da dibattiti accademici, si direbbe. Soprattutto in un’epoca come la nostra, in cui i processi di secolarizzazione appaiono sempre più compiuti e la teologia politica qualcosa di definitivamente “liquidato”. E allora, perché tutto questo dovrebbe ancora interrogare il nostro presente?
È la domanda che si pone – e ci pone – il filosofo Vincenzo Vitiello nel suo Nel silenzio del Padre. Cristianesimo e storia. Da Paolo a Gesù (Salerno editrice, 2023), libro che costituisce «l’esito di una “riflessione” su Paolo di Tarso maturata nell’arco di più di trent’anni di studi sul cristianesimo, sollecitati dalla crisi del nostro presente» (p. 7). Interrogare Paolo, dunque, per interrogare la crisi del nostro tempo. C’è da chiedersi anzitutto quale sia il significato di questa crisi. Vitiello ci spiega che la crisi in cui viviamo ha a che fare con un elemento portante del pensiero; quel pensiero sul quale l’Europa ha costruito la propria riflessione filosofica, le proprie scienze, i propri traguardi tecnologici, la propria “potenza” e per mezzo del quale ha dominato il mondo per più di un millennio.
Crisi che si manifesta nella scissione tra sapere e potere, tra la conoscenza del mondo e la potenza che ha determinato per secoli quel sapere. Nietzsche denunciò profeticamente l’avvento di questa crisi, che si consumò poi con la devastazione del Novecento. Una crisi che giunge fino all’“immagine infranta” (per richiamare il titolo di un libro di Vitiello di qualche anno fa) del tempo e del mondo che abitiamo. Di questa crisi “strutturale”, Vitiello intende anzitutto mappare i significati e le tensioni che la attraversano: una crisi del pensiero e delle forme teoretiche, storiche, politiche e, dunque, anche teologiche, che lo hanno caratterizzato nel corso dei secoli.
Del resto Vitiello è un filosofo che costruisce mappe, fedele a quel primato dello spazio – ermeneutico, prima di tutto, e poi storico – che caratterizza la propria prospettiva filosofica, da lui definita “topologia”. Come scriveva in un passo introduttivo di uno dei suoi testi più celebri, Topologia del moderno (testo in cui indicava il significato della propria proposta filosofica, edito da Marietti nel 1992): «ogni punto è centro – ed insieme periferia. In topologia non si danno relazioni fisse, direzioni univoche, itinerari prestabiliti.
Lo spazio è aperto a ogni movimento. Distanze temporali e storiche posso rivelare più essenziali prossimità e vicinanze cronologiche più profonde lontananze» (p. 8). Per Vitiello, topologia e metodo topologico costituiscono anzitutto una modalità di leggere e interrogare i testi, mappando le tensioni che li attraversano. E dunque, anche una maniera per “abitarli”, come tanti luoghi (topoi) portatori di tensioni irrisolte, esplicite o meno, sempre aperti a nuovi significati; e insieme, quindi, mai davvero “esauriti”, poiché continuamente differenti dal significato che ogni lettura, ogni prassi interpretativa (ogni “presente”) conferisce loro.
Di questa mappatura, Vitiello non indica solo i tratti, ma saggia anche la consistenza, con l’unico mezzo di cui disporrebbe un cartografo preoccupato di verificare la validità delle proprie mappe: ossia, mettendosi in viaggio. Così queste mappe vengono costantemente riformulate, costantemente riscritte: dove inizialmente apparivano isole remote, si scoprono ora più vasti arcipelaghi (proprio come accadrà, lo vedremo a breve, nelle sue molteplici interpretazioni di Paolo). «La topologia» – continuava Vitiello in quelle stesse pagine – «non è che un continuo esercizio di decostruzione, che è insieme di ri-costruzione, [e dunque] non può non de-costruire se stessa – e invitare a farlo» (p. 9).
Una mossa, quella della topologia, con cui Vitiello intendeva mettere fuori gioco tanto gli esiti più deterministici della storia degli effetti (Wirkungsgeschichte), quanto il ricorso a facili storicismi di ritorno; come pure le istanze ultimative di un pensiero che, posto di fronte ai limiti assoluti della propria “debolezza”, non si avvedeva in realtà di ribadire, in una maniera tutt’altro che “debole”, la sua pretesa auto-fondativa. D’altro canto, per Vitiello, un pensiero che conosce la propria finitezza è tutto tranne che finito. Il vero limite del pensiero – lo ha scritto tante volte – è di non poter conoscere il proprio limite. Crisi, dunque, segnata da un nichilismo filosofico compiuto.
Senza dubbio: ma del più radicale, e quindi anche del più oltraggioso, poiché costitutivamente religioso, costitutivamente rivolto alla vuotezza che lo costituisce. Ed è proprio nella riflessione sulla natura del pensiero e della sua pretesa auto-fondativa che si palesano, per Vitiello, le implicazioni più profonde tra filosofia ed esperienza religiosa. O, per usare un termine che gli è più prossimo: tra la filosofia ed l’esperienza del «sacro». Un sacro, questo, che nulla ha a che vedere con qualsivoglia pretesa confessionale, ancor meno mistica, ma che costituisce propriamente la vicenda millenaria di Europa; in modo particolare, in quell’espressione più compita che gli fu conferita dal cristianesimo. Quel cristianesimo che proprio Paolo contribuì a istituire.
Nel silenzio del Padre. Una prima indicazione dei percorsi presenti nel libro, ci è fornita dal sottotitolo: Cristianesimo e storia. Da Paolo a Gesù. Il Paolo che incontriamo nella prima parte del libro («Paolo e Gesù») è quel Paolo che il cristianesimo storico innalzò a proprio alfiere indiscusso. Un Paolo che indica il senso dell’annuncio del Messia crocifisso nel suo compimento storico: «il Regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc, 17.21). La venuta del Cristo è così l’evento a partire dal quale il tempo assume il suo significato: solo ora che la storia è stata giudicata dalla venuta del Cristo, solo ora che il tempo della salvezza è stato inaugurato, solo ora che vi è un prima e un dopo Cristo, la storia diventa il luogo a partire dal quale la salvezza si manifesta e si realizza. Vitiello rintraccia questa “fondazione” paolina del tempo storico (e quindi, della storia come orizzonte della salvezza cristiana, fuori dalla quale non vi è altra salvezza possibile) proprio nella preferenza che Paolo accorda alla profezia sulla glossolalia. Ci troviamo nella Prima lettera ai Corinzi.
Paolo spiega che la profezia in quanto parola edificante, è la modalità di comunicazione da preferire all’interno delle assemblee, in quanto essa è capace di “edificare” gli altri, cioè di dare fondamento alla comunità (al contrario, la glossolalia resta una parola individuale, intima, propria del singolo con il proprio Dio, com’è intima – rifletterà Vitiello in un altro luogo del libro – la preghiera “nel segreto” prescritta dal rabbi di Nazareth…). In questa preferenza per la profezia, è possibile comprendere la preoccupazione principale di Paolo: edificare la nuova comunità, dare fondamento al “nuovo Israele”.
All’interno di questo topos indicato dal Paolo fondatore del cristianesimo storico, Vitiello ci fa scorgere tutti gli altri volti che contribuiranno alla costruzione di questa “versione” del cristianesimo piegato alla potenza del proprio senso storico: il volto di Agostino e Lutero, per citarne solo alcuni, ma soprattutto quello del più grande “paolino” della modernità, ovvero Hegel. Un Paolo questo, secondo Vitiello, profondamente distante dalla parola di abbandono del Cristo crocifisso. Vitiello cita la conclusione del libro X delle Confessiones di Agostino (lo fa più volte e in passaggi differenti del libro, come una spia di tensioni che via via si palesano): «Loderanno Dio quelli che ne sentiranno la mancanza».
Ma in questa mancanza, in questo tempo dell’assenza di Dio, si presenta un rischio immane. Non basta per Vitiello contrapporre al pieno il vuoto. Volto del cristianesimo storico è – anche – la pretesa kenotica tanto della secolarizzazione hegeliana quanto del pensiero mistico: «Vero è che diverso è stato nel corso dei secoli, ed è a tutt’oggi, il modo di sentire la “mancanza” di Dio. Troppo spesso la imitatio Christi celava, nella denuncia della propria debolezza spinta sino al disprezzo di sé, una superiore hybris: il convincimento, cioè, di essere in Dio, di essere uno con Dio. È stato, ed è, tale pensiero il vero pericolo dei mistici che, dopo aver denunciato la luciferina superbia umana di voler comprendere Dio con l’intelletto, saltano la separazione tra l’Infinito di Dio e il finito dell’uomo, proclamando che non nel conoscere, ma nell’essere l’uomo è uno con Dio» (p. 92).
Un cristianesimo che diviene verità storica, che riconosce la propria verità e la impone agli altri talvolta con violenze immani (come è accaduto innumerevoli volte) tradisce per Vitiello il senso più proprio di quella verità che si era presentata in forma interrogativa: «e voi chi dite ch’io sia?» (Mc, 8. 27).
«Gesù, o Paolo», dunque, come titola la seconda parte del libro. E qui Vitiello si propone di condurre Paolo «oltre il cristianesimo storico», riprendendo la domanda che la filosofa María Zambrano poneva nel suo testo del ’45, L’agonia dell’Europa: è possibile pensare un altro cristianesimo per “Europa”? Così Vitiello ci indica un altro volto di Paolo: quello dell’apostolo che chiede di essere imitato «come io imito Cristo». In questa imitazione non sta la hybris del farsi modello di riferimento per l’edificazione della comunità. Al contrario, sottolinea Vitiello, si presenta come atto di profonda umiltà, con la quale Paolo affida il senso della propria comunità all’“apertura” verso un altro: immanente ad essa – in quanto, incarnato e crocifisso – e insieme sempre da-venire, poiché assente e irriducibile a ogni pretesa appropriativa, come lo straniero sulla via per Emmaus che, una volta riconosciuto, «sparì dalla loro vista» (Lc, 24.31).
Non si fanno religioni con l’immagine di questo Cristo. Qui il mistero del male e della sua (impossibile?) redenzione diventa il cuore della riflessione di Vitiello (Kant e il tema della legge, la presenza costante di queste pagine densissime e cariche di questioni). «Qui l’aspra difficoltà di pensare il cristianesimo. Perché “pensare” il cristianesimo è “fare esperienza” di una contraddizione immanente: tra continuità e rottura. Tra agápe, l’‘amore’, e máchaira, la ‘spada’» (p. 141). E ancora: «la centralità di Paolo nel cristianesimo è “doppia”: non lo si può trascinare “fuori” dal cristianesimo storico senza rendere incomprensibile l’evoluzione del cristianesimo; non lo si può tirare tutto dentro il cristianesimo storico senza rinunciare alla possibilità che la parola di Gesù, il Cristo, abbia ancora ascolto nel nostro tempo» (p. 142).
Nel silenzio del Padre diventa così il luogo stesso della condizione del finito, sotteso alla mutezza del mistero della sofferenza e del male. Grido di abbandono che non cerca risoluzione, che non pretende di indicare escatologie o redenzioni ulteriori (come Vitiello ci mostra accadere persino in un pensiero dell’“assurdo” come quello di Barth o addirittura di Kierkegaard). Un grido che non fa della sofferenza la scoperta di un nuovo e più alto senso, bensì la possibilità di lasciarsi interrogare (forse come mai avvenuto prima) dalla parola di colui che, interrogando gli altri, interroga sulla propria sempre possibile verità, in quanto verità “donata” da altri: e voi chi dite ch’io sia?