Giacinto Scianna
Quando dissi a mio padre, che mi sognava ingegnere o medico, che volevo fare il fotografo, ne rimase impietrito. Dopo un lungo, angosciato silenzio, mi disse: Fotografo? Ma che mestiere è? E ripeteva: ma che mestiere è? E poi aggiunse, misteriosamente: uno che ammazza i vivi e resuscita i morti.
Capii molto tempo dopo che questa frase di così profonda portata filosofica aveva un’origine storica e biografica precisa. Quando mio padre era bambino c’era a Bagheria, paesone agricolo, un solo fotografo; si chiamava Coglitore. Farsi fare il ritratto non apparteneva ancora alle consuetudini sociali. Accadeva che molti vecchi in età avanzata non avessero un loro ritratto fotografico. Allora magari i figli, con aria di innocente affetto suggerivano: papà, ma perché non ti fai fare una bella fotografia? I vecchi capivano benissimo dove volevano andare a parare e, un po’ per diffidenza ancestrale islamica nei confronti delle immagini, un po’ per scaramanzia, si rifiutavano.
Così succedeva che morissero e che di loro non ci fosse un’immagine da conservare come ricordo o da mettere sulla tomba. Allora chiamavano Coglitore e Coglitore faceva il ritratto al morto. Poi, con grande perizia di ritoccatore, disegnava gli occhi sul negativo. Era bravissimo, e quando consegnava il risultato della sua arte commentava con orgoglio: non pare vivo?
Il guaio è, però, che tanto aveva perfezionato questa specializzazione, da rimanerne condizionato. Con la conseguenza che i suoi ritratti dei vivi avevano invariabilmente un’aria inquietantemente cadaverica.
Questo ritratto del mio bisnonno Giacinto Baldassare non si sa se sia stato fatto da Coglitore ma mio padre ricordava benissimo che suo padre gli aveva raccontato che gli era stato fatto da morto.
Fotografo: uno che ammazza i vivi e resuscita i morti.