Autobiografia di uno spettatore / Godard secondo Hazanavicius

16 Novembre 2017

Nel 1967 e 1968, quando ero studente alla Sorbona, andavo spesso a Parigi in un cinema vasto e un po’ fatiscente della Rive Gauche, specializzato in vecchi film muti. L’accompagnamento musicale dei film veniva fatto da un anziano pianista in sala, che seguiva uno spartito. Questo cinema era spesso pieno: non di vecchi nostalgici del muto, ma per lo più di giovani. Perché per tutti noi cinefili – e quanti lo eravamo allora! – il cinema faceva corpo con la sua storia. Mi chiedo se allora in altre metropoli ci fosse un cinema rétro del genere.

È questa passione storica degli amanti del cinema a rendere intelligibile un film come Le Redoutable (Il mio Godard) di Michel Hazanavicius, finora alquanto maltrattato dalla critica. La critica più sofisticata non ama Hazanavicius, considerato regista troppo “leggero” e commerciale, insomma un anti-Godard. Il solo recensirlo è un passo falso. In effetti Hazanavicius dice di non odiare né amare particolarmente Godard (Michel Hazanavicius: «Godard n’a jamais cherché à être sympathique», apparso su Le Monde, 12 settembre 2017), ma proprio per questo trovo interessante che un non-godardiano faccia un film – il primo, a quanto ne sappia – su Godard. Non esprimerò un giudizio obiettivo (esistono giudizi obiettivi?) sul film: prima di tutto perché non sono un critico, e poi perché mi sento troppo parte del contenuto del film per essere obiettivo. Nel 1968 (epoca in cui si svolge il film) avevo diciannove anni ed ero appassionato di cinema, scrivevo su riviste di critica cinematografica, tentai di girare un film. E ovviamente adoravo Jean-Luc Godard. Ero uno degli studenti “arrabbiati” dell’epoca. Questa pellicola prende in fondo in giro anche me, e non si giudica chi ti prende in giro.

 

Da sinistra: Stacy Martin, Louis Garrel, Berenice Bejo e Michel Hazanavicius alla prima di Le redoutable a Cannes 2017.


Hazanavicius è nato nel 1967, quindi ha ricostruito quegli anni attraverso film e video: è un film fatto a partire da altri film. Hazanavicius ha sempre tentato un metacinema storico, un cinema sul cinema che fu. Con Le Redoutable ha cercato di ripetere il colpo di The Artist (2011), un film muto sul cinema muto. In questa sua ultima fatica, ha provato a fare un film alla maniera godardiana sul cineasta Godard, e su come Godard ha filmato quell’epoca.

Oggi molti praticano il pastiche, riempiono i film di citazioni di “classici”. Per esempio molti hanno detestato La grande bellezza di Sorrentino perché sarebbe una scopiazzatura di La dolce vita: ma il regista voleva fare proprio una scopiazzatura. Rifare La dolce vita cercando però di enunciare il “non detto” del film di Fellini: che “la grande bellezza” è una montatura, una turlupinatura, che viviamo in una “dolce vita” inventata dal cinema. Traboccano di citazioni i film di Quentin Tarantino: Django unchained rifà lo “spaghetti-western”, per esempio. Mi pare che Hazanavicius abbia colto il lato ilare, farsesco, del cinema di Godard; non a caso gli fa dire – perché Godard lo ha detto – che per lui tutto il cinema è merda, tranne Jerry Lewis, i Marx brothers e Laurel & Hardy. Il cinema comico americano. In effetti, questo sembra un film su Godard girato da Jerry Lewis.

 

Il punto è che il cinema di Godard degli anni '60 era a sua volta un pastiche. À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro), il suo film d'esordio, rifaceva il noir americano con un distanziamento europeo. Già allora il cinema che preferivamo ci appariva un cinema di riflessione e di riflesso, nel senso che era una riflessione sul cinema e rifletteva altro cinema. A quell’epoca un mio amico disse: “Dopo tutto, il cinema europeo è solo una riflessione sul cinema americano”. Perché il vero cinema era quello americano, ci era già chiaro all’epoca: industria del divertimento, prima di tutto. A noi europei restava una pensosa parodia di Hollywood. Operazione esplicita, del resto, in Le Mépris (Il disprezzo): un film su come viene costruito un film storico-mitologico americano.

In Le Redoutable ci sono anche citazioni alla terza potenza. Ad esempio, Jean-Luc (Louis Garrel) e sua moglie Anne (Stacy Martin) vanno a cinema a vedere La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, e guardano la bellissima scena in cui Renée Falconetti dalla testa rasata (Giovanna d’Arco) piange, mentre Antonin Artaud (nella parte di un monaco) le parla. È lo stesso spezzone che Godard ci aveva fatto vedere in Vivre sa vie (Questa è la mia vita), quando la protagonista, la prostituta Nana (Anna Karina), piange mentre guarda proprio quel film al cinema. Hazanavicius cita Godard che cita Dreyer. E si potrebbe continuare con questa mise en abyme.

 

 

Questo film non è affatto una agiografia dell’uomo Godard, tutt’altro. Ho l’impressione che molte critiche negative al film siano una reazione a un atto che appare di Lesa Maestà: si voleva un’agiografia di Godard. Da decenni il cinema anglo-americano ci ha abituati a biografie di personaggi famosi che sono in realtà “scritti su santi”. Tra le più recenti, quella di Alan Turing, di Stephen Hawking, del matematico Srinivasa Ramanujan, di Aung San Suu Kyi, e di tantissimi altri. 

 

Invece, lo sguardo del Redoutable su Jean-Luc è quello dell’allora sua moglie Anne Wiazemsky, dal cui libro autobiografico (Un an après del 2015) il film è tratto, e che descrive il suo calvario matrimoniale con il “maestro”. Insomma, è dichiaratamente un film di gossip. Il titolo si riferisce al primo sottomarino atomico francese, Le Redoutable, che fu messo in mare nel 1967. Redoutable significa formidabile, ma anche temibile, pericoloso, minaccioso. Anne e Michel ci presentano il Godard di allora, a seguito della sua svolta maoista nel 1967, come formidabile e temibile, un bisbetico tutto genio e molesta sregolatezza, fanatizzato da un sinistrismo allora dilagante, aggressivo e arrogante con tutti, in particolare con i suoi migliori amici. Il film ci fa vedere come Godard riesca a mandare su tutte le furie persino Bernardo Bertolucci, che pure l’aveva ampiamente sostenuto in Italia. Si aggiunge a tutto ciò una sorta di delirio di gelosia nei confronti della moglie, di cui era continuamente l’arcigno censore. Ho incontrato qualche volta Godard in situazioni pubbliche, una volta anche in privato, e devo dire che l’immagine che mi sono fatta di lui corrisponde abbastanza a quella che ne dà il film. 

Ho conosciuto all’epoca tanti piccoli Godard: sempre pronti a biasimarti come “piccolo borghese”, demolitivi di qualsiasi opera di successo popolare, persone che odiavano totalmente il mondo in cui vivevano. Era la faccia torva dell’angelica ingenuità di quell’epoca. Ad esempio, il film ci ricorda che dopo aver girato La cinese – una pellicola su un gruppo di giovani maoisti francesi – Godard credette seriamente che il film sarebbe piaciuto nella Cina di Mao e lo propose all’ambasciata cinese. Non si rendeva minimamente conto di quale distanza abissale ci fosse tra l’estetica edificante e kitsch della Rivoluzione culturale che divampava all’epoca, e l’avanguardia cinematografica francese! E difatti i cinesi gli sbatterono letteralmente il film in faccia.

 

Godard nel 1968.


Il regista presenta Godard come la grande star cinematografica dell’epoca. In verità l’amore per Godard era molto legato alla variabile anagrafica. Nel 1968 si doveva essere sotto i trent'anni per apprezzarlo veramente. Alberto Moravia, classe 1907, che faceva anche il critico cinematografico con molta buona volontà, era alquanto tiepido nei confronti di Jean-Luc, anche se questi aveva girato un film da un suo romanzo, Il disprezzo. Bernardo Bertolucci, nato nel 1941, invece lo ammirava. Per noi giovani, Godard era il Picasso del cinema ed era normale che fosse detestato come ai suoi tempi fu detestato Picasso. Goffredo Fofi (nato nel 1937), per esempio, ha sempre deriso Godard. Così per alcuni anni molti giovani registi italiani e francesi si misero a scimmiottare Godard a tutto spiano: ci cascò anche Bertolucci, che nel 1968, con Partner, girò un film godardiano, fallito. Ma alcuni registi hanno godardizzato fino alla fine degli anni '70: i primi film di Nanni Moretti, ad esempio, che gli dettero subito grande successo, devono molto a una stilistica godardiana.

 

Certo non ci piaceva solo lui. Apprezzavamo altri registi francesi della nouvelle vague, in particolare Truffaut e Rohmer. Alain Resnais era un mito: due film pre-68 come Hiroshima mon amour e L'année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad), antecedenti a Godard, ci erano apparsi come una svolta definitiva nel cinema. In realtà le svolte non sono mai definitive, le avanguardie dell’epoca sono passate come sono passate tante altre avanguardie del XX secolo, cimeli di un passato glorioso e in parte irripetibile. Tutti allora ci sentivamo figli legittimi del dadaismo e del surrealismo, per cui i nostri “classici” erano Un chien andalou e L’âge d’or di Buñuel e Dalí. Altrettanto amato di Godard era infatti Luis Buñuel: sapevamo che film come El angel exterminador (L’angelo sterminatore) e Belle de jour (Bella di giorno) sarebbero rimasti nella storia del cinema. 

 

 

Le Redoutable rifà molte di quelle trasgressioni godardiane che spezzavano continuamente le regole della disciplina cinematografica. Il film è diviso in capitoli numerati, come faceva Godard; vira talvolta dal positivo al negativo della pellicola; dà ai movimenti e alle parole dei personaggi una forma quasi geometrica, stilizzata; mette in rilievo le scritte sui muri e i manifesti murali per commentare il film; una fotografia tersa, senza chiaroscuri, quasi da commercial; ecc. Manca nel film però un tratto che all’epoca ci colpiva. Talvolta Godard faceva lunghe carrellate sui boulevard parigini accompagnate da una musica severa, drammatica, lenta, che dava al paesaggio un alone tragico e profondo; poi, d’un tratto, il sonoro si interrompeva e la carrellata continuava come in un film completamente muto. Dall’emozione data dalla sovrapposizione alle immagini di una colonna sonora “nobile” si passava all’improvviso a realizzare il fatto che, dopo tutto, si trattava solo di pellicola cinematografica “ignobile”. Non si passava dal suono al silenzio – anche il silenzio ha una sua sonorità, può spaccarti le orecchie – ma dalla musica al non-suono. Era Verfremdungseffekt, brechtiano effetto di estraniazione, che Godard praticava per dis-ipnotizzarci dal fascino del sonoro e riportarci alla realtà materiale del cinema: pellicola impressionata che scorre. Ci metteva sempre sotto al naso quel che allora si chiamava il significante.

 

Con Godard, e anche con altri autori all’epoca per noi preziosi – Antonioni, Pasolini, Resnais, Ingmar Bergman, Bertolucci, Oshima, Rocha, Jonas Mekas, Straub… – pensavamo che il cinema non fosse più solo un’arte di svago per famiglie il sabato sera, ma che fosse ormai entrato tra le grandi arti moderne del XX secolo. Il cinema produceva opere al livello del futurismo, dell’espressionismo, del cubismo, del suprematismo, della pop art… Così il cinema – e poi sarà la volta di altri audiovisivi – fu la figlia autentica, il rampollo magnifico, del secolo breve. L’arte della mia generazione, che chiamerei “generazione cinema”. Hazanavicius ha voluto fare un film sulla “generazione cinema”, che non è la sua.

 

Godard con Jean-Paul Belmondo sul set di “Pierrot le Fou”.


Le redoutable ci mostra Godard all’inizio del suo declino; il grande Godard che ricordiamo tutti precede in effetti il '68. Oggi i giovani che si interessano di cinema conoscono di lui quasi solo A bout de souffle e Le Mépris, che vengono prima di quell’epoca. Ma a noi piacevano anche certi suoi film diciamo minori, come Les carabiniers, il delizioso Alphaville (Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville) e certamente Pierrot le fou (Il bandito delle 11). Poi, negli anni '70 Godard si immerse in un radicalismo sia politico che cinematografico, girò una serie di film con Jean-Pierre Gorin che si volevano strumenti militanti. Allora a Parigi si commentavano sarcasticamente con: “Però, come è bravo questo Jean-Pierre Gorin!”, ma li si andava a vedere solo perché erano firmati anche da Godard. Comunque Godard ci captava con la sua parola, alle banalità del comunismo maoista mescolava una pirotecnia di paradossi ironici, ci sorprendeva con giudizi drastici ma folgoranti. Una miscela unica di schematismo ideologico e di beffardo surrealismo.

Dopo la sua lunga sparizione nel gorgo dell’iper-avanguardia militante e coriacea, negli anni '80 ha ricominciato a fare film interessanti. Alcuni sono anche belli. 

 

“The Dreamers”, 2003.


Le redoutable è anche un film sul '68. Si sono fatti pochi buoni film sul maggio '68 perché il maggio fu di per sé una specie di film. E non solo perché fu molto fotogenico. Il prossimo anno assisteremo a varie rievocazioni, in tutte le salse, per il cinquantenario. Il film più noto sul maggio '68, finora, è di uno scozzese e di un italiano. Ed è singolare che sia un film su giovani che non fanno il '68. Gilbert Adair, scrittore scozzese, ha scritto il romanzo The Holy Innocents, base per il film di Bernardo Bertolucci The Dreamers del 2003. Sia nel romanzo che nel film il protagonista è uno studente americano a Parigi che si lega a una coppia di gemelli parigini, un ragazzo e una ragazza ventenni. Tutti e tre condividono una passione totalizzante: il cinema. Nel maggio del 1968 si rinchiudono in casa, approfittando dell’assenza dei genitori, e intessono una relazione erotica a tre, il tutto intervallato da quiz di storia del cinema a cui si abbandonano. Chiusi in questa alcova incestuosa e cinefila, i ragazzi non si rendono affatto conto di quel che accade fuori. In un certo senso, è un film su un maggio mancato, a cui si sostituisce un’estasi cinematografica. Ma non ci fu quest’estasi anche in chi invece, come me, partecipò attivamente al movimento? Non fu la Rivoluzione – significante maître all’epoca – il dream che il cinema nutriva?

Non è un caso che anche Hazanavicius oggi rievochi il maggio attraverso il cinema. Il maggio è inscindibile da quello che il cinema rappresentava allora per noi: era l’arte attraverso cui sentivamo, percepivamo, interpretavamo il mondo. Il mondo sembrava tutto soggetto per un film. Il maggio '68 fu costruito – spontaneamente, inconsapevolmente – come una sceneggiatura. Uno degli slogan del '68, “Prendete i vostri sogni per realtà”, descrive perfettamente ciò che accade grazie al cinema. Nel '68, in Francia come altrove, la Storia ha imitato l’Arte.

 

Godard ha virtualmente chiuso la sua carriera con le monumentali Histoire(s) du cinéma, una Summa enciclopedica alternativa della storia del cinema, dai fratelli Lumière fino a certe strabilianti mostruosità di oggi. Il cinema come settima arte del Novecento sembra concludersi con una grande ricapitolazione storica di se stesso. Certo il cinema andrà avanti, cambierà ancora, forse si diluirà nelle serie televisive. Ma Hazanavicius, regista popolare, coglie come una prima chiusura storica del genere. Il secolo breve, il mio secolo, è stato anche il secolo lungo del cinema.

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