Globalizzazione e nuove differenze / Good bye Europa?
L’Europa sembra fasciarsi la testa prima che la vittoria alle presidenziali di Marine Le Pen non gliela rompa sul serio, ma indubbiamente oggi più che mai appare verosimile la disgregazione dell’unità europea. Si immaginano vari scenari nel futuro, anche quello di qualche guerra tra Francia e Germania. Sono francamente stupito dal fatto che milioni di risparmiatori italiani o francesi o spagnoli non abbiano già provveduto a portare i loro risparmi in qualche banca tedesca, prevedendo la fine dell’euro.
I padri fondatori dell’unità europea avevano un’idea precisa e audace: che bisognasse puntare dapprima sul libero scambio economico tra i paesi europei per far maturare, poco a poco, un’unità politica tra loro. Un esperimento più unico che raro nella storia. Per oltre 60 anni il carro dell’economia in effetti sembra aver trascinato i buoi della politica in Europa.
Poi il processo si è spezzato nel 2005, quando il progetto di Costituzione europea è stato bocciato da francesi e olandesi. È evidente che il rigetto dell’unità europea viene dal basso – demagoghi come Le Pen, Farage, Gewiert, Petry, Salvini e altri sfruttano un sentimento diffuso di cui si fanno portavoce, “I am your voice”. Ora, gli anti-europei, come i trumpisti americani, sono per lo più persone diciamo decentralizzate nella società: sono i più poveri, i meno colti, chi abita nelle zone rurali o nelle piccole città, i più anziani. È una tipologia di persone che sfugge quindi a una classificazione di tipo marxista, non si tratta di una classe sociale con una sua funzione specifica; io direi che si tratta della parte che si sente in qualche modo perdente di una nazione. Sembra quasi la realizzazione della strategia di Lin Piao negli anni ’60, “le campagne accerchiano le città”, se tra gli accerchianti mettiamo ovviamente i “campagnoli” anche delle città. Ma è possibile che perdenti coalizzati finiscano col vincere?
Gli economisti e sociologi “corretti” hanno fatto a gara nel terrorizzare gli elettori dei vari paesi dicendo che il protezionismo porterà a una catastrofe economica. Ma non bisogna mai fidarsi delle profezie degli economisti, di qualsiasi scuola, dato che di solito si dimostrano sbagliate. Non darei per scontato che la Gran Bretagna ne uscirà con le ossa rotte per aver lasciato l’Europa, così come non credo che il protezionismo sia sempre e comunque dannoso. Nei paesi più poveri il protezionismo può permettere lo sviluppo di industrie nazionali ancora molto fragili, che altrimenti verrebbero presto spazzate via dalla forza delle multinazionali. In certe fasi il protezionismo è inevitabile. E del resto l’Europa è protezionista nei confronti di chi non è nell’Unione, contribuendo quindi ad affamare molti paesi poveri.
Immaginiamo che il protezionismo americano e britannico rafforzi invece le economie dei due paesi; ipotesi da non escludere affatto. Questo certo non farebbe cambiare idea a un vero libero-scambista, costui è tale non perché sia dimostrato che il protezionismo è sempre dannoso. Il libero scambio è prima di tutto una filosofia morale, che punta all’universalizzazione etica e culturale del mondo. È l’ideale moderno della società aperta di Popper. Il secolo XX, malgrado fascismi e nazionalismi, sarà ricordato come il secolo ossessionato dall’apertura. Non credo sia un caso che un filosofo abissalmente distante da Popper come Heidegger abbia definito il soggetto umano – Dasein lo chiama lui – come “l’aperto”. E sempre più in arte, sulla scia di Eco, si è parlato di opera aperta. Gli esempi della passione aperturista si potrebbero moltiplicare. L’accoglienza degli immigrati è un corollario di questo assioma di apertura.
Ma oggi assistiamo a una “rivolta delle masse” – come diceva Ortega y Gasset – contro la filosofia dell’apertura. Anche perché l’apertura popperiana poi si è risolta in una liquidità baumaniana, così gran parte della gente non vuole affogare in questo liquido, rinchiudendosi nei propri castelli, nazionali o regionali.
I padri fondatori dell’Europa puntavano su un’apertura universale di tipo liberale alternativa a quella socialista. Perché ovviamente anche il socialismo e il comunismo sono internazionalisti, lo si canta pure, “E l’internazionale / sarà l’umanità”. L’universalismo liberale punta sul libero scambio, ovvero sulla capacità che ha il mercato di amalgamare gli esseri umani, di creare un’omogeneità culturale e di valori. La globalizzazione, intesa come costituirsi di un unico grande mercato mondiale, è vista come un’opportunità straordinaria per creare vaste unità meta-nazionali, e l’Europa avrebbe fatto da modello. Ma controspinte poderose stanno sfidando questo progetto.
In effetti la progressiva unità economica dell’Europa, fino all’euro, non ha portato a una vera unità politica e culturale. In Italia, per esempio, solo una minoranza sa veramente quali paesi facciano parte dell’Unione, quanti abbiano adottato l’euro, ecc. Non esiste alcun patriottismo europeo, prova ne sia che nelle manifestazioni sportive internazionali si tifa spesso per una squadra non-europea contro una squadra europea. Quanto a me, credo che il mio europeismo sia di nicchia. Quando viaggio e tiro fuori un passaporto dove è scritto UNIONE EUROPEA, lo confesso, ne sono fiero. Essere solo italiano mi parrebbe alquanto micragnoso, meloniano (da Meloni). Ma si vede che tanti europei non sono affatto fieri del loro passaporto, forse perché molti non ce l’hanno nemmeno, dato che non viaggiano.
Non ci sono forze armate europee, ci sono 27 paesi con 27 eserciti, data la mancanza di politica estera comune. Lo si è ben visto nel 2003, quando alcuni paesi europei si sono schierati con Bush per la guerra in Iraq, e altri decisamente contro. Ogni tanto si evoca il tema della Difesa comune come se fosse una questione tecnica, ma un esercito e una politica estera comuni sono elementi fondamentali di un’unità politica. Ne sono a un tempo la condizione e l’espressione. Avere forze armate comuni significa che qualcuno è disposto a morire per l’Europa. Ci sono militari europei che giurano sulla bandiera europea? Se, come diceva Carl Schmitt, la politica si fonda sull’opposizione tra amico e nemico, un’unità politica implica che si abbiano gli stessi amici e gli stessi nemici. Se ogni regione italiana avesse un suo piccolo esercito e quindi una propria politica estera, potremmo ben dire che l’Italia si è disgregata, anche se avesse un solo sistema fiscale e un solo presidente della Repubblica.
L’Europa non diventerà mai un’unità politica vera fino a che non avrà un presidente o premier riconosciuto. In realtà i cosiddetti leader europei – la cancelliera tedesca, il presidente francese, il premier italiano, ecc. – sono leader solo del proprio paese, in ultima istanza devono rispondere al proprio elettorato e basta. Quindi, ogni leader fa gli interessi del proprio paese, non dell’Europa. Ad esempio, la fragilità genetica dell’euro è dovuta al fatto che ogni paese ha sue regole fiscali. Ora, si è calcolato che un’unione fiscale della zona euro costerebbe alla Germania il 5% del proprio prodotto interno lordo. Quale leader politico tedesco potrebbe convincere i tedeschi a rinunciare al 5% del proprio prodotto, anche se peraltro la Germania è uno dei paesi che più ha tratto vantaggio dall’euro? La Germania, come ogni altro paese, cerca di massimizzare i benefici dati dall’euro e di minimizzare i costi che esso comporta.
Eleggere un presidente dell’Europa significherebbe una rinuncia di sovranità da parte di ogni stato che nessuno, all’ora attuale, sembra disposto a concedere; e i popoli ancor meno dei loro politici. E proprio perché l’Europa manca di un capo e di un governo unici che essa appare burocratica, fiscale, ottusa: mancando di un cuore politico, è percepita come un meccanismo senza cuore. Così l’Europa sembra una specie di Equitalia che viene a farci i conti in tasca e a bacchettarci sulle dita se sgarriamo. I paladini dell’Europa dicono ingenuamente: “L’Europa ci ricorda di rispettare i patti che noi stessi abbiamo sottoscritto.” Ma a ciò si può sempre replicare “Abbiamo fatto male a sottoscrivere quei patti!” Proprio perché non c’è autorità sovranazionale dell’Europa, essa viene percepita come una macchina petulante e dispotica.
Ma come eleggere un vero presidente dell’Europa? Dovrebbe parlare tutte le lingue europee per essere apprezzato da tutti, e le lingue europee sono decine. Un leader è amato e odiato, ma per esserlo deve parlare una lingua comprensibile a tutti. Chi in Italia può amare o odiare Jean-Claude Juncker, un eurocrate che non parla italiano?
Anni fa era esploso un movimento di sinistra anti-globalista, che attaccava la tendenziale unificazione del pianeta su una base liberista, fondata cioè sul libero scambio mercantile. Eppure, come abbiamo ricordato, la sinistra è sempre stata fondamentalmente globalizzante: si denunciava un certo tipo di unificazione planetaria per contrapporvi un’altra unificazione. Socialismo e liberalismo oggi si scoprono molto più affini di quanto non credessero: entrambi credono nell’apertura. Non a caso in Francia quelli che noi chiamiamo no global vengono chiamati alter-mondialistes, “mondialisti altrimenti”. Non era la globalizzazione in sé quindi a essere contestata, ma il primato capitalista di essa. Da qui l’ambivalenza irrisolta della sinistra radicale e marxista nei confronti dell’unità europea: salutata da una parte come un’istanza internazionalista che unifica in qualche modo le classi lavoratrici, dall’altra vista come cosa di cui diffidare perché fondata su basi liberali. Nel referendum in Gran Bretagna Corbyn è stato disfatto da questa ambivalenza.
Il vero anti-globalismo oggi caratterizza la destra reazionaria e il cosiddetto populismo, che non hanno nulla a che vedere con la destra liberale. Questa destra reazionaria, che chiamerei identitaria, è stata sempre contraria all’immigrazione, mentre quella liberale ovviamente è favorevole. Alcuni identitari contro le migrazioni evocano l’entropia della termodinamica: se le culture si mescolano questo porta a una sorta di polpettone indifferenziato. Le culture sono come una vernice bianca e una vernice nera divise da una sbarra: se si toglie la sbarra, si avrà un’unica vernice grigia. Questo era del resto l’argomento cardine dei segregazionisti razziali americani: neri e bianchi non devono mescolarsi perché la cultura nera ha un suo valore che va preservato, gli spirituals, il jazz, la danza… l’integrazione la distruggerebbe. L’anti-globalismo reazionario denuncia questo grigiore di un mondo che Pasolini chiamava “omologato” (e in effetti le idee di Pasolini erano, sotto una vernice marxista, una forma di pensiero reazionario anti-moderno). Mondo omologato che poi abbiamo chiamato “liquido”. Le culture non sarebbero come l’acqua e l’olio, ma come l’acqua e il caffè, a meno che non le si separi artificialmente.
A molti di questi temi anti-entropia è sensibile anche una certa sinistra radicale, a dispetto dell’internazionalismo socialista. Anche certa sinistra culturale denuncia la globalizzazione dei consumi: tutti mangiamo da McDonald, tutti ascoltiamo musica americana e andiamo a vedere film commerciali americani, tutti usiamo gli stessi Ipad e Iphone, ecc. (e aggiungo: tutti nel mondo adottano il design italiano, tutti mangiano alla cinese e all’italiana, tutti preferiscono auto giapponesi e tedesche, ecc.). Molti di sinistra pensano con nostalgia agli amerindi di un tempo, con i loro riti e le loro piume, mentre oggi tanti Native Americans sono grassottelli che bevono birra davanti al televisore e detengono casinò. La sinistra sogna la persistenza di differenze non ordinali ma orizzontali, non differenze tra ricchi e poveri, tra superiori e inferiori, bensì tra diversi etnicamente. Ma è un’illusione, perché le differenze etniche, di costume, implicano per lo più differenze anche ordinali.
Eppure, la globalizzazione omologante produce anche nuove differenze. La talpa della differenza scava sotto il terreno unificato dell’universalizzazione. Insomma, il pericolo dell’entropia è fasullo. Il punto è che molti sociologi e politologi non riescono a vedere le nuove differenze, che si presentano all’inizio come folkloriche e irrilevanti. Chi si era accorto del prosperare del fondamentalismo islamico prima della rivoluzione iraniana del 1979? E chi aveva visto l’emergere di un conflitto Nord/Sud in Italia che poi la Lega ha portato drammaticamente alla ribalta? Chi aveva preso sul serio la predicazione arruffata di Grillo, che avrebbe portato alla rottura del bipolarismo sinistra/destra? Le nuove differenze appaiono fatti di costume, eppure poi cambiano il mondo.
Un evidente effetto differenziante della globalizzazione è l’esplodere delle diseguaglianze, che già Marx ed Engels avevano visto alla loro epoca. Il libero mercato non porta a comprimere tutti in un ceto medio, ma crea enormi sperequazioni. Comunque, il dilatarsi delle differenze economiche porta con sé anche nuove differenze politiche e culturali.
Questo è vero anche per il passato. Pensiamo che ad esempio l’impero romano abbia globalizzato i paesi a esso sottoposti. Ma poi l’impero si è differenziato in uno d’Oriente a prevalenza greca, e uno d’Occidente a prevalenza latina. E nell’impero è emersa la formidabile differenza cristiana, che ha diviso trasversalmente una élite dominante cristiana da una massa soprattutto rurale rimasta pagana.
Quanto a oggi, penso che l’irrompere della jihad contro l’Occidente sia un effetto della globalizzazione. Prima del 1979 non percepivamo chiaramente il mondo islamico come un insieme. C’erano paesi come la Turchia e l’Iran dello shah che sembravano avviati verso modernizzazione e occidentalizzazione irreversibili. C’era poi il nazionalismo arabo, ovvero il sogno nasseriano di unificare tutti i paesi arabi in uno solo in chiave laica. E c’era il socialismo arabo, che cercava di unire nazionalismo con socialismo. Oggi alcune di queste differenze sono scomparse, nessuno parla più di unità araba per esempio, mentre vediamo l’Islam come una differenza globale rispetto al mondo cristiano-ebraico.
Anche all’interno del mondo islamico si sono scavate differenze micidiali. Ad esempio, quanti di noi in Occidente si ricordavano che i mussulmani sono divisi in sunniti e sciiti? Oggi il Medio Oriente è percorso da una guerra tra sunniti e sciiti impensabile fino a pochi decenni fa. Quella che chiamerei la Rivoluzione islamica non è, come si dice, un ritorno al passato contro la globalizzazione, ma è un effetto di quest’ultima.
Il formarsi di nuovi stati, la frammentazione di unità più grandi – come accadde con l’India, e poi con l’Unione Sovietica e con la Jugoslavia – non sono processi anti-globalizzanti, ma sotto-prodotti della globalizzazione. Il separatismo catalano e basco in Spagna e quello scozzese in Gran Bretagna, ad esempio, non predicano l’uscita dall’Europa, anzi. L’Inghilterra ha votato per la Brexit, la Scozia per Remain. La globalizzazione in effetti ricombina in modo diverso gli elementi, ma non annulla solo vecchie differenze, ne crea anche di nuove.
Nel mondo si vengono a creare sotto-culture trasversali, che attraversano le singole nazioni. Attraverso il web si formano sotto-culture internazionali che per ora vediamo solo come note di folklore, ma che potrebbero diventare culture a sé. Ad esempio, esistono teorie complottiste che attraversano tutto il mondo, come quella secondo cui le scie degli aerei sono operazioni per cambiare il clima. Sette New Age si diffondono in tutto il mondo, pur restando separate, e derise, nel contesto in cui fioriscono. Del resto, l’ISIS e altri fondamentalisti islamici si servono del web creando così una sotto-cultura mondiale trasversale. Lo stesso fondamentalismo islamico è globalizzato, dato che colpisce in tutti i paesi del mondo, dagli Stati Uniti al Bangla Desh, da Parigi a Istanbul. Le culture anti-globaliste sono esse stesse globalizzate.
Siccome insegno in Ucraina, ho potuto osservare la veloce ucrainizzazione di questo paese post-sovietico. Ho amici ucraini che parlano perfettamente inglese, hanno viaggiato per l’Europa, collaborano a riviste europee, e che politicamente sono molto nazionalisti, detestano la Russia e Putin, cercano di parlare tra loro ucraino e non più russo, ecc. Proprio perché sono globalizzati, tengono a ridare vita e slancio alla cultura ucraina.
Anche in Italia la differenza prospera. Si prenda il padrone del bar dove vado di solito a prendere il caffè: è evidente che economicamente parlando lui ha bisogno di me, e io di lui, diciamo che siamo interdipendenti. Eppure so che viviamo in mondi spirituali non solo diversi, opposti: io sono per i diritti dei gay e delle donne, per la laicizzazione della società, per una certa sinistra, sono contro ogni tipo di superstizione, non sono credente, sono per l’Europa unita e per l’euro, favorevole all’immigrazione, do valore alla cultura; lui detesta i gay e vorrebbe proibire l’aborto, pensa che la società debba essere cattolicizzata, vota per partiti di destra, è contro l’Europa unita e contro l’euro, crede nei complotti ed è superstizioso, vorrebbe bloccare qualsiasi immigrazione, non dà alcun valore alla cultura ma solo agli affari. Spiritualmente, viviamo in due universi diversi. Viviamo vicini nello stesso mondo fisico, ma separati in esso.