Guy Bourdin, storyteller della moda
Anni Settanta. Cambia la moda e con essa la fotografia. Non vale più la tradizionale formula della modella che mostra l’abito: s’iniziano a costruire atmosfere e racconti, anziché limitarsi a presentare vestiti valorizzati da abili composizioni formali o da luci suadenti. E Guy Bourdin (Parigi 1928-1991), assieme all’amico-nemico Helmut Newton, rivoluzionerà le foto di moda grazie a immagini che giocano tra erotismo e thriller, tra l’assurdo e il visionario, in un profluvio inesauribile d’idee sempre nuove, capaci di assorbire stimoli anche dal cinema e dalla pittura. Considerato un “maestro” ispiratore anche da molti autori contemporanei ultra-affermati, tra cui Nick Knight e David LaChapelle, il suo lavoro è stato esposto nei musei più prestigiosi, come il Victoria & Albert Museum di Londra, il Jeu de Paume di Parigi, il National Art Museum of China o il Tokyo Metropolitan Museum of Photography. Ora, grazie all’impegno di Armani nel promuovere la cultura fotografica contemporanea di qualità, si possono finalmente vedere le sue opere anche in Italia presso l’Armani/Silos di Milano (Guy Bourdin, Storyteller, fino al 31 agosto, orari: mercoledì-domenica 11-19).
Curatissima, questa mostra presenta una selezione di cento fotografie, tra scatti iconici e fotografie meno conosciute, come quelle da lui realizzate in bianco e nero. Noto soprattutto per le sue pirotecniche immagini a colori e per la sua lunga e proficua collaborazione con Vogue Paris, Guy Bourdin infatti non abbandonò mai quel bianco e nero che l’aveva “iniziato” alla fotografia quando a Dakar, tra il 1948-49, giovane militare di leva, si trovò a prestare servizio nell’aeronautica militare francese. Bianco e nero che proseguì a usare, come rivela anche il libro Untouched (Steidl, 2017) dedicato alle sue immagini degli anni ’50, dove ritrae le persone che incontrava per le strade di Parigi. D’altra parte sarà a Parigi, grazie al suo interesse per i surrealisti e all’incontro con Man Ray, che Bourdin imparerà l’arte del paradosso, dell’ambiguità e della libertà creativa permessa dalla fotografia.
E ai surrealisti, amanti del gioco ambiguo tra donne e manichini, tra umano e artificiale, farà appunto riferimento una sua immagine del 1984 per Vogue Paris, rivista con cui collaborerà moltissimo. Dentro una vetrina vediamo un gruppo di bellissime donne-manichino, “nude” ma con tanto di rossetto e cuffie da nuoto, come intente a osservare incuriosite due splendide ragazze che, indifferenti di tutto, camminano trionfanti per strada in costume da bagno. Con questa foto Guy Bourdin rovescia in un solo scatto la logica abituale tra chi guarda e chi è guardato. Qui sono infatti le spoglie donne-manichino a “guardare” invidiose e malinconiche le due modelle un po’ cyborg, dotate, loro sì, di seducenti costumi da bagno e capaci di camminare a passo trionfale, incuranti degli sguardi altrui e delle vetrine che avrebbero dovuto catturare la loro attenzione.
Facile, inoltre, che Bourdin conoscesse l’immagine Sans titre (1928) di Umbo, altro grande della fotografia surrealista, in cui quest’ultimo mostra solo le gambe di un manichino con indosso un paio di seducenti pantofoline fru-fru. Che abbia conosciuto o meno tale immagine, resta il fatto che Bourdin, per pubblicizzare le scarpe di Charles Jourdan (con cui collaborerà praticamente per tutta la vita) crea una serie surreale di immagini in cui camminano nel mondo, tra boschi, spiagge e ambienti urbani, gambette di manichini dotate delle magnifiche calzature del “suo” stilista. Già le scarpe, davvero un soggetto non facile per qualsiasi fotografo, ma che lui riesce a giocarsi alla grande, senza mai cadere nel banale, creando immagini simili a frame di film avvincenti, a volte noir, a volte polizieschi. D’altra parte Alfred Hitchcock era uno dei suoi miti. In un’immagine vediamo così una donna distesa a terra, travolta da un grande quadro che le è crollato addosso: della vittima non vediamo il volto, ma gli occhi ci cadono subito sulle sue gambe sporgenti da sotto il quadro, e soprattutto sui piedi ben calzati con seducenti scarpette blu in perfetto pendant coloristico con la marina raffigurata nel quadro assassino.
In un’altra, vera e propria sintesi della sequenza di un film poliziesco, una donna fugge con sottobraccio una scarpa gigante inseguita dalla polizia sotto il ponte di Brooklyn. In una successiva, ancor più iconica, una modella sgambettante, dotata di scarpe nere con tacco luccicante, sembra venire inghiottita da una misteriosa feritoia aperta tra un muro giallo acceso e un pavimento rosso fuoco. Altro esempio del suo stile unico e variegato: foto del 1972, sedute al tavolino di un bar, seminascoste da una sorta di velo, tanto da essere simili a ombre cinesi, due donne forse si corteggiano con delicatezza oppure si tratta di una madre intenta a incoraggiare la figlia carezzandole lievemente il mento? Che cosa significa, che sta succedendo? Mistero, sembra di essere di fronte al fotogramma di un film dove qualcosa accadrà, ma non sappiamo che cosa.
L’unica certezza è che il telo che vela ambiguamente la scena non copre tutta l’immagine: si ferma infatti all’altezza delle loro caviglie, ed ecco che il nostro sguardo viene catturato dai loro piedi ben calzati che si sfiorano a vicenda. E potremmo andare avanti con altri esempi uno più diverso dell’altro, uno più raffinato, ironico e irriverente dell’altro, ma tutti capaci di coinvolgere l’immaginario degli spettatori e di stupire.
Sì, perché Guy Bourdin è un vero Storyteller – come recita il titolo della mostra all’Armani Silos – dove ogni immagine suggerisce una storia tra l’assurdo e il giocoso, dove è impossibile non venire catturati dalla malia inquietante e sorprendente dei suoi scatti ipercurati e ipervividi. Autore apprezzatissimo, ma dal carattere difficile – tanto da rifiutare bizzarramente il Grand Prix National de la Photographie nel 1985 – a lui erano concesse sperimentazioni ardite con situazioni tra l’assurdo e l’improbabile, dove abiti e scarpe, smalti o rossetti, diventano quasi dei pretesti per le sue narrazioni. Però attenzione, malgrado le sue messe in scena misteriose ed eccentriche, Bourdin non perde mai la capacità di far cadere il nostro sguardo là dove vuole, ovvero sul “prodotto” che è invitato a presentare.
Tra le sue innumerevoli sperimentazioni visive, una va senz’altro evidenziata perché mette in gioco, in modo come sempre spiazzante, lo stesso medium fotografico. Invece di buttare via le polaroid che, nell’epoca dell’analogico, erano usate per verificare la qualità dell’immagine prima dello scatto definitivo, lui le usa all’interno delle sue stesse fotografie. Bourdin mette cioè all’interno di una rappresentazione un’altra rappresentazione: realizzando una sorta di mise en abyme, mostra come le fotografie stesse siano “virtuali”. Ecco un esempio: in una fotografia del 1978 – tanto significativa essere stata scelta per la copertina del libro di David Campany Sulle fotografie (Einaudi, 2020) – una mano in primo piano, con smalto rosso acceso, mostra la polaroid in bianco e nero di una strada dove cammina una modella. Tale fotografia copre il corpo della modella “vera” per evidenziarne solo i piedi con le mitiche calzature di Charles Jourdan; al contempo sottolinea che lo scatto della polaroid è stato fatto proprio lì, in quel viale con le vetrine spoglie. Insomma egli nasconde con una fotografia quello che vuole evidenziare in un’altra fotografia. In questo modo rende manifesto il mezzo tecnico con cui lavora duplicandolo: infila infatti una fotografia dentro l’altra, per rivelare l’ambiguità del medium fotografico nel suo rapporto con la realtà. Ma lo fa, diversamente da molti seriosi artisti concettuali, come sempre in modo giocoso e carico di humour.
Lui, che amava tanto il cinema, purtroppo non saprà mai di essere entrato come protagonista in un film della sua amica Agnés Varda, icona della Nouvelle Vague parigina, ovvero Visage, Villages: opera del 2017, quando Bourdin era già scomparso da molti anni. Questo film è una sorta di road movie in cui la regista si sposta per la Francia insieme al fotografo JR, noto per i suoi monumentali interventi fotografici di arte pubblica (si possono vedere i suoi lavori fine al 16 luglio nella mostra JR.Déplacé-e-s presso le Gallerie d’Italia di Torino: qui la recensione di Carola Allemandi). Ebbene, tra un viaggio e l’altro i due artisti giungono sulle coste della Normandia, là dove Agnés Varda era stata in compagnia dell’amico Guy Bourdin. Lì, in quel luogo a lui caro, decidono di riprodurre una foto, scattata da Varda nel 1954, del giovane Guy Boudin mentre pensoso e un po’ malinconico osserva il mare in lontananza appoggiato a una cabina: una di quelle cabine ordinate e tutte uguali che poi appariranno in molte sue opere. JR ingrandisce tale immagine come ama fare, poi i due artisti la riproducono giganteggiante sulla parete di un vecchio bunker caduto dalle cime di una falesia.
“La foto aveva uno sviluppo in un certo modo, ma JR l’ha rovesciata e a un tratto sembrava una sorta di culla, una magnifica pietra tombale col ritratto del mio amico” – aveva raccontato Varda. Si tratta di un’operazione destinata a scomparire, effimera, perché le maree potenti dell’Atlantico presto o tardi la sommergeranno, eppure basterà quel gesto per immortalare il suo ricordo e il suo sguardo. Uno sguardo che, come quello di molti altri artisti depressi e tenebrosi, quasi per contrasto saprà creare un profluvio di fotografie sfavillanti, giocosamente erotiche o un po’ noir, simili a scene di film mai realizzati: immagini surreali e iper colorate, cui ancora oggi fanno riferimento molti autori di moda e non solo.
In copertina, Vogue Paris, May 1984 © 2023, The Guy Bourdin Estate.