Giulia Niccolai, lo stupore come conoscenza

27 Dicembre 2023

Lei nasce in una famiglia anticonformista, madre americana sofisticata, padre italiano ingegnere. Già da adolescente – e siamo negli anni Cinquanta –, non si sente dire dalla mamma: “non uscire la sera da sola, torna alle dieci, non dopo”, come invece accadeva alle nostrane fanciulle, ammesso che potessero mai uscire di casa la sera. No, lei, e parliamo di Giulia Niccolai – fotografa, scrittrice, poetessa, artista, poi monaca buddhista – già a diciannove anni (e in quel tempo la maggior età si raggiungeva a ventuno anni, prima bisognava ottenere “il permesso” dai genitori) viaggia per il mondo facendo la fotografa. Nel ’53, per il foto-settimanale “Le Ore”, realizza il suo primo reportage Il Carnevale di Monaco; nel ’54 se ne va da sola negli Stati Uniti. Naturalmente parla un inglese fluente e si sente a casa, mentre in quegli anni nelle scuole italiane si studiava abitualmente il francese e dell’inglese i più si limitavano a balbettare frasi sconnesse. Il suo avvicinamento alla fotografia è una sorta di corso accelerato: già a otto anni si nutre di immagini di ottimo livello sfogliando “Life”, a cui la madre era abbonata; a dieci è già certa di voler fare la fotografa; ancora giovincella frequenta il bar Jamaica e conosce il meglio dei fotografi italiani impegnati nel fotogiornalismo, da Mario Dondero a Ugo Mulas e Uliano Lucas; poi impara a sviluppare i negativi nella camera oscura di Giancolombo, in compagnia di un giovanissimo Carlo Orsi; è pure dotata di un’ottima macchina fotografica a pozzetto formato 6x6, una Rolleicord da fare invidia. Come se non bastasse, appena finito il liceo le viene affidato il compito di fare il libro-strenna Borghi e città d’Italia, viaggiando tra luoghi e paesi ancora poco conosciuti dai turisti. 

A New York, tanto per continuare a essere fortunata, viene notata dal fotografo Leo Stashin che le fa conoscere gli ultimi membri della Photo League (organizzazione fotografica chiusa nel 1951 perché accusata di simpatie comuniste). I suoi associati si proponevano di unire una documentazione sociale impegnata politicamente con l’immediatezza della street photography, e Giulia impara da loro a fotografare in modo spontaneo, senza mettere in posa le persone, senza trucchi e manipolazioni. Indomita e tenace, autonoma e indipendente, con un approccio fotografico che non scimmiotta quello altrui, inizia a vendere le sue fotografie a numerose riviste, le pubblica in volumi, vince premi, viene invitata a esporre in mostre importanti. Giuseppe Turroni, uno dei critici di fotografia più influenti dell’epoca, include addirittura alcune sue immagini nel libro Nuova fotografia italiana (1959) assieme a quelle dei notissimi Gianni Berengo Gardin, Mario De Biasi, Mario Giacomelli (tanto per citare alcuni nomi). Del suo lavoro scrive che vi trova «la forza di un autentico temperamento, dotato di lucide capacità d’intuizione (…) A noi sembra che la Niccolai abbia trovato la via di una “narrazione” asciutta e calibrata, positiva e senza alcuna influenza estranea». 

Poi, a distanza di pochi anni, il disastro. Nel 1961 per “La Settimana Incom” fa un reportage dedicato a Wilma Rudolph, la velocista americana che, con le sue tre medaglie d’oro vinte alle Olimpiadi di Roma nel 1960, veniva chiamata la “gazzella nera”. Giulia la fotografa e la conosce a Nashville, dove abita schiacciata dal razzismo dominante. Scopre che questa eroina del mondo della corsa in realtà è una donna insicura e afflitta da molteplici problemi psicologici perché lo sport agonistico l’ha svuotata e usata come una macchina da record e basta. Giulia vorrebbe che ne uscisse un servizio giornalistico di denuncia, invece la rivista stravolge il senso delle sue immagini e vi aggiunge un testo in stile american dreams, con la povera ragazza nera, per di più colpita da poliomelite in giovane età, che diviene la star della corsa, in un fantastico happy end. Tale episodio di manipolazione, unito ad altre motivazioni, la spinge ad abbandonare la fotografia per la scrittura. Un abbandono vero e proprio, e non tanto per dire: stipa negativi e fotografie in alcune valige e le abbandona al loro destino. Poi inizia un nuovo capitolo della sua vita. La scrittura, a cui già guardava con interesse, la sta aspettando e alla scrittura lei dedicherà tutta la seconda parte della sua vita (a parte un’interruzione per il troppo impegno richiestole quando divenne monaca buddhista). Diventa una grande traduttrice, una grande poetessa “visiva”, una scrittrice e una saggista, la chiamano di qua e di là a fare letture pubbliche, la intervistano in molti, tesse amicizie importanti come quella con Giorgio Manganelli, mentre con il suo compagno Adriano Spatola promuove la rivista d’avanguardia “Tam Tam”. 

Nessuno si ricorda più che da giovane era stata anche una brava fotografa? Non proprio: Uliano Lucas e Tatiana Agliani, nel loro libro dedicato alla storia del fotogiornalismo italiano (La realtà e lo sguardo. Storia del fotogiornalismo in Italia; Einaudi, 2015) se ne ricordano e le dedicano alcune righe, ma soprattutto pubblicano una sua foto di New York, datata 1954. E poi, per così dire, il miracolo: Silvia Mazzucchelli, studiosa di fotografia e firma ben nota di Doppiozero, vede questa fotografia e s’incuriosisce. La conosceva come poetessa e ora la scopre fotografa, che mistero ci sarà dietro? Così le viene il desiderio di conoscere Giulia: la incontra, le dedica il suo tempo, ne diventa complice e amica. Scopre la sua storia e la convince a recuperare le sue tre valige fotografiche, polverose e dimenticate. Poi Silvia studia con zelo e stupore i suoi negativi: Giulia ha pure fotografato John Fitzgerald Kennedy standogli a un palmo di naso... Le due amiche, tra un pranzetto e l’altro, pomeriggio dopo pomeriggio, progettano un libro da fare assieme: decidono che ogni immagine debba avere un commento di Giulia; stabiliscono quali foto pubblicare, facendo una selezione “fior da fiore” tra i suoi servizi: quello che l’ha portata ad attraversare l’Italia da Nord a Sud; gli USA fotografati nel ’54 e poi tra il ’60 e il ’61; il reportage dedicato a Milano; la Roma della “dolce vita”, dove ritrae scrittori, registi e attori... E la nostra molteplice autrice, nonostante gli anni avanzati, con la sua solita freschezza, aggiunge per ogni fotografia testi che scavano negli anni passati, quasi aprisse un baule magico. Come scrive Silvia Mazzucchelli nell’ampia introduzione che ripercorre la sua storia: «I ricordi non si ammantano di nostalgia, sfociano in schegge di memoria, di solito colorate dal suo humour sapido e leggero». Tra la Giulia che ha scattato le fotografie e la Giulia che la commenta anni dopo si crea una relazione a intreccio: la scrittrice che le racconta ce le fa vedere e sentire attraverso le sue parole, così come le sue immagini ci rimandano, magari per vie un po’ labirintiche, ai suoi molteplici testi. Giulia scivola nell’immagine è, non a caso, il titolo scelto da Marco Belpoliti per la sua postfazione al libro Giulia Niccolai, Un intenso sentimento di stupore (a cura di Silvia Mazzucchelli, postfazione di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino, 2023, PP. 133, € 38,00): lei entra in ogni sua immagine, “ci scivola dentro” per farla riaffiorare davanti a noi come un’epifania. 

Un libro con un titolo più che mai indovinato e perfetto per un’autrice che, in uno dei suoi Frisbee (poesie da lanciare), scriverà: «Credo che la magia / ci sfiori in continuazione. / È colpa nostra / se non la riconosciamo. / Se non l’apprezziamo. / Se la parola “magia” / ci è troppo estranea, / potete usare ‘sincronicità’» (Riga 45. Giulia Niccolai, a cura di Alessandro Giammei, Nunzia Palmieri, Marco Belpoliti, Quodlibet, 2023) E lei la magia, nelle sue immagini, la sapeva invece vedere anche nei volti, nei luoghi in apparenza più normali. Lo stupore la seguiva nel mondo. Il punctum che “punge” lo spettatore, così come racconta Roland Barthes, lei lo cerca e lo trova nel mondo che osserva, lei sempre avida di incontri, di coincidenze un po’ bizzarre e un po’ umoristiche, come i giochi di parole che tanto amava. Ad Ascoli Piceno scatta la foto a un ceramista immerso nel vaso che sta creando con il tornio. Buffamente Giulia nota che le linee del vaso in fattura paiono identiche e fatte della stessa materia dei suoi capelli un po’ impastati, forse con la brillantina che all’epoca si usava in abbondanza. Poi, nel suo testo, ci aggiunge una riflessione da vera buddhista qual era divenuta: «la faccia del ceramista che entra nel vaso mi ha fatto percepire il senso di essere tutt’uno con il soggetto, perché si è tutt’uno con il tempo. E questo produce stupore. Lo stupore è abolire la distanza con ciò che si fotografa, poiché la sintonia è totale». Ed eccoci ritornati allo stupore, all’assenza di barriere tra lei e il mondo, come se già in nuce fosse protesa a superare – così insegna il buddhismo – ogni dualismo, ogni barriera tra il sé e l’altro da sé, tra maschile e femminile. Non a caso il maestro Taisen Deshimaru scrive: «Il nostro corpo e l’universale sono unità. Il nostro ego e l’universale sono unità (…) La comunione è fonte di amore, di forza, di gioia» (Il vero Zen, SE, 1993). 

Ma torniamo alle sue fotografie: sempre per il suo servizio Borghi e città d’Italia e sempre ad Ascoli viene attratta da due semplici, ampi portoni a volta. Che cosa glieli fa notare e che cosa ci comunicano? Lei è colpita dalla loro composizione armoniosa e geometrica, ma anche dal fatto che siano dotati di sedili in marmo, come se volessero invitare «a un dialogo immaginario tra abitante e passante.» – scrive nel suo commento all’immagine. E in più, nonostante la loro vistosa ampiezza, tali portoni presentano usci così stretti da apparire quasi assurdi. Insomma questa foto frontale, ben composta nella sua assoluta semplicità, funziona come le sue poesie Frisbees: lei le lancia e a noi viene voglia di rilanciargliele. Queste porticine sono forse un test di grassezza? Coloro che sono intenzionati a entrare, come faranno, nel caso fossero troppo “cicciotti”? Poi va a Tempio Pausania, in Sardegna, e fotografa una processione di donne. Altro “punctum”, altra stranezza fiabesca in questo caso colta al volo: il costume nero di queste antiche matrone è curiosamente dotato di una doppia gonna che, gonfiata dal vento, loro tengono sollevata sulla testa. Viste da dietro paiono fantasmi e masse oscure prive di corpi concreti, quasi una bizzarra anticipazione del chador iraniano. Altra fotografia che ci suggerisce un analogo effetto “rilancio”. Giulia si trova a New York, dove è appena terminata una celebrazione poco distante dalla Statua delle Libertà. Nella sua immagine, in alto vediamo garrire al vento un lembo di bandiera degli States, mentre in basso due eleganti signore parlottano tra loro sorridenti. Quella in primo piano mette in mostra sul cappellino due piume che, a Giulia – come lei stessa scrive – ricordano i raggi sulla testa della statua.

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Sarà, ma a noi fanno venire in mente i Lakota Sioux con i loro copricapi cerimoniali circonfusi di piume. Forse – viene da pensare – i Lakota gliene hanno lanciate due nel cappellino, così, giusto per ricordare che negli USA ci sono anche loro e che, mentre venivano pressoché sterminati senza un briciolo di pietà, la Statua della Libertà o non era stata ancora costruita o guardava altrove. Ma torniamo alla foto di Kennedy che tanto ha colpito Silvia Mazzucchelli. La nostra ragazza fotografa era negli USA durante la convention per la designazione dei candidati alla presidenza del Partito democratico e di quello repubblicano. Nixon ha un’espressione cattiva, che lei definisce «cagnesca». John Fitzgerald Kennedy invece, appena eletto a candidato presidente del Partito democratico, sorride come dominato da una invincibile serenità e sicurezza. Così, lei gli scatta una gran bella foto “ufficiale”; ma anche qui c’è qualcosa di anomalo, come un piccolo witz che s’intrufola nell’immagine, scompaginando il tono paludato. Il futuro presidente degli Stati Uniti ha infatti un ciuffetto di capelli che si erge dispettoso, come un cornino nella sua chioma ben pettinata: «È un piccolo dettaglio che, nella sua involontaria comicità, diventa profondamente affettuoso», commenta lei, nel testo per questa fotografia. 

Insomma, negli anni in cui i fotogiornalisti italiani più che interrogare la realtà, vederne le complessità e le contraddizioni, erano protesi a “prendere posizione”, a denunciare i mali del mondo armati di certezze su chi era l’oppresso e chi l’oppressore, Giulia Niccolai non ha verità da proporre, ma una montagna di interrogativi e curiosità venate di humour e simpatia per chi incontra. Lei si tuffa nella realtà e, come scrive Silvia Mazzucchelli nell’introduzione: «Tuffarsi significa adire la profondità mentre si lascia indietro la gravità». Significa osservare la realtà dal punto di vista della leggerezza lasciando aperti imprevedibili significati, rapportarsi al mondo con la gioia e l'entusiasmo di poterlo raccontare grazie a un tocco empatico e vitale; cogliere insomma il mondo lo così com’è, senza artifici. 

D’altra parte, più avanti negli anni, nella poesia Positivo & Negativo, scriverà: «Ogni cosa può accadere / avere un senso o non averlo // Non ha verità da proporre / mantiene aperto il significato / il senso nasce nominando le cose.» E lei fotografa, e poi nomina le cose lasciandole aperte, sempre pronte a entrare in una «vertigine di inversioni / infinite e diverse» (in: Riga 45). Neanche i seriosi e impegnati fotografi della Photo League la trasformano in una fotografa militante impegnata a mostrare solo la segregazione razziale o le ingiustizie sociali. Se mai le sue foto da street photographer, con la sua capacità di relazionarsi giocosamente a bambini e adulti, neri o bianchi che siano, ricordano quelle di Helen Levitt, non a caso una donna pure lei. Difficile che non rimanga impressa nella nostra memoria un’immagine in cui due ragazzini, con abiti che le ricordano quelli di due gangster, giocano davanti al suo obbiettivo guardandosi in cagnesco in modo aggressivo, divertiti di entrare nella parte dei cattivi. «Ogni volta lo penso: i ragazzini sono i soggetti che preferisco!» , scrive. Tant’è che l’unica sua foto che terrà sempre appesa in soggiorno è quella di un bambino nero che avrebbe chiaramente voluto giocare con lei e che ridendo «si era tirato il giubbetto in testa come per invitarmi a fare altrettanto.»

Quando decide di fotografare Milano, anziché dedicarsi alle avventarsi sulle periferie e alla realtà operaia – come facevano molti fotografi – progetta insieme al giornalista e scrittore Giancarlo Fusco un libro, purtroppo mai uscito, con un titolo che è già tutto un programma all’insegna della leggerezza e del divertimento: Milano calda. Nel suo reportage «non c’è la Milano operaia e neorealista di Mulas, o quella drammatica di Luchino Visconti di Rocco e i suoi fratelli», scrive giustamente Marco Belpoliti nella postfazione al libro. Insomma lei fa un ritratto della città lombarda durante il boom economico, ma vista dalla parte di chi restava a bollire nell’afa padana e cercava un po’ di refrigerio dove lo riusciva a trovare. E quali erano i posti migliori per sfuggire al caldo e trovare momenti di divertimento?

Naturalmente i Navigli e soprattutto l’Idroscalo. Ed ecco l’Idroscalo gremito di biciclette, ma dove qualcuno poteva permettersi di arrivarci con la famosa Seicento, segno di un’ascesa sociale ai suoi albori. In una fotografia si vedono gruppi di ragazzi che si stanno spogliando e nota che la forma e il colore delle mutande sono ancora rigorosamente bianche. Insomma niente loghi e griffe ben in vista, come usa oggi, e neppure tatuaggi in stile Maori, ma bianchi corpi magrolini, senza bicipiti “scolpiti” nelle palestre. Tutto ha un tono ancora casereccio: partite a carte nei prati, pranzi sotto gli alberi con il cibo fatto a casa dalla mamma, giochi col pallone e pure balli al ritmo frenetico di un rock and roll sparato da un gigantesco juke-box. In quest’ultima immagine, che non a caso campeggia nella copertina del libro, sembra esserci tutto lo spirito di Giulia Niccolai. Lei coglie infatti, come in un momento magico, due ragazzi che ballano scatenati e, in quei giochi di coincidenze spiazzanti che Giulia tanto amava, uno ha il costume nero e l’altro bianco, uno indossa le scarpe e l’altro è a piedi nudi. Pure nei ritratti fatti a metà degli anni Sessanta, cioè pochi anni prima che si trasformi in scrittrice e poetessa, non rinuncia al suo tocco un po’ ironico e giocoso basato su curiose coincidenze. Così Alberto Moravia, che in campo letterario rappresentava il massimo del potere, lo fotografa assorto nei suoi pensieri, ma dominato dalla maschera di un demone sorridente con tanto di corna appeso sul muro accanto a un tenero ritratto di Elsa Morante con il suo gatto. Del dandy e narciso Alberto Arbasino sceglie di pubblicare nel libro una foto rigorosamente non ufficiale, mentre con sguardo sbarazzino e un po’ buffo guarda per aria tra l’annoiato e il distratto. 

Con la sua capacità di osservare la realtà con stupore e entusiasmo, quasi si trovasse in una variante dell’amato mondo di Alice nel paese delle meraviglie, in queste fotografie il regno quotidiano della piatta normalità si carica di magie, di incontri inattesi e piccole stranezze umoristiche. Come scrive Chiara Portesine in un suo saggio pubblicato sul già citato numero di “Riga”: «La poesia niccolaiana (…) produce esorcismi alfabetici e incantesimi della forma per dimostrare come la Legge autoritaria del senso possa essere continuamente revocata – con un grazioso lancio di fresbee che restituisce al mittente qualsiasi Significato assoluto, in una piroetta di significati plurali e giocosamente perturbanti». E lo stesso si potrebbe dire per le immagini raccolte in questo libro, tutto dedicato ai suoi esordi di fotografa. In ogni suo scatto si nota la sua gioia di vivere, che lei ha fame di conoscenza, di vicinanza, di “magie e sincronie”, come le chiama. Con il suo sguardo avido e curioso, esente da ogni ideologia, toglie la maiuscola alle sue immagini e le rilancia in un gioco di nonsense, buffo-sense, senza perdere la capacità di entrare in profondità nella realtà, di vederne le pieghe e i dettagli. Il tutto aggiungendoci un tocco di freschezza come un ingrediente che non può mai mancare. 

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