I cani ci guardano (e io sono un po’ imbarazzato)
Cosa ci dice Franco Marcoaldi in Baldo e Ribaldo (La nave di Teseo)? Quello che troviamo nel sottotitolo: i cani ci guardano. Lo sguardo del cane ha spesso attirato l’attenzione degli scrittori. Pirandello in Uno, nessuno e centomila lo considera un altro inquietante punto di vista sul mondo. Calvino, in uno scritto giovanile, Soggezione di un cane, ammette che lo sguardo del cane fisso su di lui mentre si rade lo imbarazza, per cui, per evitare di girare “nudo e barbuto per i boschi”, preferisce sbarazzarsi dell’animale.
Marcoaldi afferma che negli “occhi liquidi e profondi” di Baldo, il suo setter gordon, si ha l’impressione di “naufragarci”. I suoi, sostiene, sono occhi “che prendono all’amo lo sguardo che li cerca e trascinano dentro l’enigma di chi ti senti fratello, prossimo, amico, epperò rimane irraggiungibile”. Gli occhi del cane sembrano aprire varchi verso mondi inesplorati ed è difficile non rimanerne affascinati. Anche perché il cane stesso fa di tutto per catturarci.
Anche se spesso ce lo dimentichiamo, i nostri millenari compagni di viaggio non staccano mai gli occhi da quello che facciamo. Uomo, a cui Marcoaldi delega il compito di dialogare con Baldo, ci fa notare che i cani osservano ogni nostro gesto, colgono ogni segno di insofferenza, ogni variazione d’umore. Da quando abbiamo domesticato il lupo, la nostra vita si svolge sotto il loro occhio. Siamo costantemente sorvegliati. Come mai? L’esperienza lo insegna a tutti i padroni. I cani non vorrebbero mai perderci. La loro vita ha senso se ci vedono, se siamo insieme a loro, se non interrompiamo il contatto.
Lo sguardo del cane esprime l’amore sconfinato, purissimo ed esclusivo (il cane non possiede altro che il proprio padrone) che prova per noi. Si tratta di un “amore gratuito”, che “non prevede il desiderio perverso di plasmare l’amato”. Ma lo sguardo manifesta anche altro, un potere ipnotico che ci costringe a condurre la nostra mente attraverso “praterie sconfinate di domande senza sbocco”. Lo sguardo del cane che ci osserva è destrutturante, incrina le certezze, capovolge il mondo, determina interrogativi.
Il momento decisivo è quello in cui gli sguardi si incontrano, quando uomo e cane si abbandonano reciprocamente all’ “ambiguo gioco degli occhi, pieno di trabocchetti, tenero e pericoloso”. In quel momento si ha “la netta sensazione di ritrovarsi a casa”. Ma la casa è il “creato, dove tutte le nature possono liberamente scambiarsi le parti, e dare finalmente corso alla stagione dell’immaginazione e della fratellanza universale”.
Lo scambio di sguardi – le domande che l’occhio del cane porta con sé – diventa il mezzo attraverso cui si mette in atto la metamorfosi, il più straordinario risultato che si può ottenere con la convivenza tra esseri viventi di specie diverse. I cani sono allora metamorfanti, secondo un’espressione coniata da Alberto Asor Rosa alcuni anni fa. Inducono al cambiamento, allo sradicamento dalle abitudini. Si tratta di una fantasticheria? Solo in parte, perché davvero tra cane e padrone può scoccare la scintilla che permette di valicare i confini tra specie.
È la strada verso il post-umano, su cui Alberto Marchesini ha a lungo riflettuto, parlando del “potere coniugativo” dello sguardo del cane. Marcoaldi descrive la metamorfosi come un atto compiuto innanzitutto con il corpo. Uomo “lappa nel piatto come fosse la ciotola dei cani”, si sdraia per terra su un prato, corre a quattro zampe. Talvolta si addormenta vicino a Baldo, abbracciato. Dal corpo si passa alla mente. Si assomiglia al proprio cane, come dice il più trito dei luoghi comuni. Uomo infatti si è inselvatichito, ha preso le distanze dalle occasioni mondane, ha sempre più amato la solitudine, la vita senza simulazioni e dissimulazioni.
Per questa via è arrivato alla sapienza, capendo “che la serenità non si raggiunge corteggiando l’abbondanza o addirittura il superfluo, ma accettando ciò che si è e ciò che si ha”. L’incontro definisce i contorni di “un nuovo spazio mentale ed emotivo, all’interno del quale sarebbe apparsa un’inedita e fantastica creatura – in parte umana, in parte canina – che ha finito per occupare il proscenio della narrazione”. Ma non è tutto. La forza dello sguardo ha il potere di svalutare la parola, lo stigma dei sapiens. A farne le spese è però quel “parlare per parlare” che annienta il vero pensiero. O quel linguaggio mosso unicamente dall’utilitarismo che “pregiudica la possibilità di toccare la potenza dell’invisibile”. Agli animali finiamo così col chiedere “silenzio e calore”, il ritrovamento di noi stessi attraverso la loro presenza.
L’esito di questo percorso – per sua natura inevitabilmente irregolare, costellato di deviazioni e di incertezze, di lunghi periodi di apprendistato e di reciproche incomprensioni – è il libro stesso di Marcoaldi. Secondo una tradizione letteraria che ha nobili precedenti – dal cane Argo di Italo Svevo al Flush di Virginia Woolf, al Mr Bones di Paul Auster – dare al cane il ruolo di narratore, scriverne una pseudo-autobiografia, significa sommare il suo punto di vista a quello umano, attraverso uno stordente gioco di specchi e discese empatiche nell’io canino. Ancora una volta, soprattutto, significa diventare il suo sguardo. Operazione che può dirsi riuscita soltanto se la metamorfosi è davvero avvenuta. Baldo e poi il suo successore Ribaldo sono di fatto Canuomini (attingendo ancora ad Asor Rosa), di cui l’umano scrivente (Uomo) e l’umano personaggio (Donna) diventano gli strumenti per esprimere stati d’animo che sono loro e del cane con cui convivono.
L’antropomorfismo, a questo livello, non è più un rischio. Semmai è una condizione tanto inevitabile quanto necessaria. Non possiamo rinunciare ad essere uomini, ma possiamo rinunciare all’idea di essere soltanto uomini. A fronte di questo processo supponiamo che in chi scrive non ci sia stata la fatica della immedesimazione, dell’infingimento. La strada della metamorfosi, superate le distanze degli inizi, è fatta di consonanze che non si studiano a tavolino, di intuizioni che vanno oltre le pianificazioni. Diventare cane significa allora capire. Cosa? Tra gli istinti, il “desiderio-dovere” di esprimere improvvisamente l’amore (con “la seduta di leccatura”). Oppure tutta la passione per gli odori. O le idiosincrasie – Baldo detesta i cani di piccola taglia, “nove volte su dieci complessati e nevrotici”.
O, ancora, il vero e proprio culto della ripetizione e, all’opposto, il sincero odio del cambiamento. Ma vuol dire anche comprendere la forza dei richiami carnali (Nina) e la necessità di accettare i limiti che solo il dio-padrone può imporre. E, soprattutto, la metamorfosi porta a comprendere che essere cane significa vivere soltanto nel momento, in un eterno presente da cui è bandita ogni altra dimensione. Essere vicini a un cane serve quindi a riposizionarci nel mondo, ad accettare la vita, facendo piazza pulita degli inutili pesi. In Animali in versi (di cui è recentemente stata pubblicata da Einaudi una versione accresciuta) Marcoaldi spiega che la relazione col cane contribuisce a svuotare l’io, a pensare meno a se stessi.
Ma anche a scordarsi “di essere una macchina di sopraffazione e guerra”. Non è perciò un’impresa alla portata di tutti. Solo i veri “canari” ci riescono, perché solo loro hanno capito che al mondo siamo “tutti fratelli, tutti compagni”. Con coloro che non appartengono alla categoria e vivono “nel terrore di essere contaminati da altre creature, sporcati da altri mondi” il discorso è invece chiuso in partenza.
Riprendendo la storia di Baldo – pubblicata per la prima volta qualche anno fa – attraverso quella del suo “successore” Ribaldo (da cui lo separa un carattere ribelle e una marcata tendenza all’insubordinazione), Marcoaldi affida la narrazione a “un folletto, un coboldo dei boschi”. La morte dell’animale (e dei suoi compagni di specie, Nina, Pozzo) non ha interrotto la metamorfosi, anzi l’ha resa più salda. Baldo è nella mente dello scrittore, ne è diventato il pensiero. Con Canetti, Marcoaldi sente che il vero peccato originale sta allora soltanto nell’“originaria rottura tra mondo umano e mondo naturale”. È lì che si deve intervenire per ridare il passo giusto alla nostra vita, quella piccola e individuale, e quella macroscopica, di tutti.