Il Dottor Mercurio in volo: ricordo di Antonio Caronia
E' un’amicizia che risale a trent’anni fa, esatti esatti. E adesso dove sei, Dottor Mercurio? Da quale lontano universo ci guardi ora?
Nel 1983 avevamo appena fondato la compagnia, che negli anni a venire avrebbe semplificato il proprio nome in Teatro delle Albe, ma che all’origine portava una sigla “barocca”, per dirla con Oliviero Ponte di Pino: Albe di Verhaeren. Scegliemmo quel nome per fare un omaggio a Vsevolov Mejerchold, il grande maestro della regia, allo spettacolo mitico (appunto Les Aubes, scritto da Emile Verhaeren) con cui aveva inaugurato il suo nuovo corso rivoluzionario nel 1917. Ma quel nome, svincolato dalla conoscenza storica, sembrava anche alludere alle albe di un pianeta misterioso, Verhaeren, un nome quindi che evocava la science-fiction del tempo, gli scenari di quella fantascienza che tenne a debutto il nostro percorso teatrale.
Infatti eravamo all’epoca immersi nella lettura delle opere di Philip Kindred Dick, e da quella magmatica narrativa, sospesa tra visioni del futuro e lo scavo in un inquietante presente, stavamo traendo ispirazione per i nostri primi spettacoli. E fu al debutto di uno di essi, Mondi paralleli, che un amico ci avvertì: “Arriva Caronia!”. La frase suonava minacciosa, e l’amico ci spiegò, a noi ragazzini ignari, chi era Antonio Caronia: il più autorevole critico letterario di fantascienza, ma anche, sempre a detta del nostro amico, un feroce stroncatore. Noi ci preparammo in fretta e furia andando a leggerci quel gioiello che era Un’ambigua utopia, una guida critica ai “labirinti della fantascienza”, e lo aspettamo a piè fermo. Antonio arrivò, e anziché stroncarci scrisse un pezzo bellissimo: fu l’inizio di un’amicizia importante, perché Antonio non era solo un uomo di cultura straordinaria: fu di lì a poco per noi “il Dottor Mercurio”, un maestro di ironia e sguardo obliquo sulle cose, capace di dotte disquisizioni matematiche (su cui si era laureato) come di battute fulminanti.
Capace di tenere vivo nel suo pensiero e nel suo agire la fiamma di un’utopia politica che, per quanto “ambigua” e ripensata criticamente, trovava in autori come Dick e Ballard (di cui era sapiente traduttore) gli alfieri di chi non cede alla banalità delle mode, ma affronta il mondo e lo scruta in profondità, alla ricerca della linea di tensione che vibra tra la verità e l’oppressione. Pensammo insieme un progetto, Verso l’alba, in cui, sempre in quegli anni ’80 che volevano liberarsi in fretta da ogni “superata” nozione di “impegno”, chiamavamo gli spettatori a misurarsi con le inquietudini del tempo presente, a partire da figure come quella del presidente-robot di un romanzo di Dick, I simulacri, a partire dall’ “immaginario malato” della società di massa che la miglior fantascienza indagava, a partire dalle trasformazioni che le nuove tecnologie imprimevano alla velocità del “progresso”. E in Verso l’alba in cui ci si aggirava tra spettacoli e conferenze e performances in strada, avevamo trasformato Antonio in un Dottor Mercurio con le alucce di carta sul capello (le stesse alucce le fornivamo a ogni spettatore), e Antonio era la “guida” eretica che conduceva i presenti a orientarsi in quel labirinto di segni.
Aveva il piacere della scena, Antonio: e ci divertimmo tanto a farlo entrare anche sul palcoscenico in Effetti Rushmore, uno spettacolo anche quello dedicato a Dick, e sempre con la maschera del Dottor Mercurio, filosofo e dio della scrittura e dei “messaggi”, con le sue risate squillanti, con il suo intercalare autoironico in genovese. E il suo interesse per il teatro aveva nel corpo dell’attore il suo fuoco centrale: il corpo-cyborg, il corpo-virtuale, il corpo-trasformato, il corpo sempre e comunque incancellabile.
Adesso che sei volato via, caro Mercurio, continua a mandarceli i tuoi messaggi, mentre noi ci rileggeremo i tuoi libri e terremo viva l’eco della tua intelligenza sottile. Sei volato via, non sei scomparso: tu stesso ci insegnavi che nulla va mai radicalmente “perso”. Che misteriosamente ci si continua a parlare, varcando la soglia dell’invisibile.