Speciale

Il raid come iniziazione e contenimento

27 Novembre 2011

Il carbonaro Giuseppe Mazzini, intuendo ormai con chiarezza i limiti delle vecchie sette, stende nel 1831 la prima versione della Istruzione generale per gli affratellati nella Giovane Italia in cui si vanno organizzando una struttura centrale e delle congregazioni provinciali. Tenendo fede al proprio nome vengono ammessi nella associazione solo membri con meno di quarant’anni e la si definisce, secondo la nota filosofia mazziniana ma pure mostrando ancora la centralità della giovinezza, “non setta, o partito ma credenza e apostolato”. L’educazione e l’adesione giovanili sono le premesse per creare un corpo omogeneo di affiliati necessario per un’ulteriore diffusione delle idee e, giunti al dunque, per l’insurrezione a cui doveva fare seguito una guerra per bande che conducesse fino alla definitiva rivoluzione nazionale. Mazzini risale agli esempi dei Paesi Bassi contro Filippo II, degli Americani contro l’Inghilterra, dei Greci contro l’Impero Ottomano fino a Spagna, Germania, Russia contro Napoleone. In particolare si sofferma sul 2 maggio 1808 quando, a seguito di alcune fucilazioni francesi a Madrid, l’Alcalde della piccola Mostoles per primo incitò gli Spagnoli a una generale sollevazione. All’appello rispose una spontanea guerra di popolo, organizzata poi dalla Giunta di Siviglia che armò cittadini e contadini inquadrandoli in bande da contrapporre coscientemente agli eserciti regolari, cosicché:

 

I Francesi erano padroni del luogo ove posavano il piede, non d’altro; e in quello erano assaliti ad ogni ora, e per ogni parte. Era un nemico astuto, accanito, feroce, invisibile. Sboccava dai lati, alle spalle, rare volte di fronte, e quelle volte non era che per indugiare le mosse del Francese, per numerarlo spiegato e calcolarne le forze: poi si dileguava rapido, com’era giunto, per riapparire altrove. Attaccava notturnamente, furiosamente, e fuggiva. Non v’era via d’averlo a battaglia, di serrarlo, di affogarlo nelle vaste linee de’ corpi […] Gli assalti erano spessi e variati, non decisivi, ma proficui tutti. Si schifava battaglia, ma si faceva paventarla ogni giorno. Il soldato era costretto a star sull’armi continuamente; se la stanchezza lo segregava dal grosso del suo corpo, era spento. Poi si faceva guerra ai convogli: si troncavano le comunicazioni: s’arrestavano i corrieri: si vietavano le vettovaglie.

 

Il pensatore genovese considera questo tipo di guerra, guerriglia di raid ispiratagli dal nobile piemontese Carlo Bianco che scrisse esule nel 1830 Della guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia, del tutto adatta alla conformazione fisica, lunga e ricchissima di rilievi, dell’Italia. Sostiene inoltre che i moti falliti nel vano tentativo di tenere le città, Alessandria o Bologna, avrebbero avuto ben altro esito sfruttando le montagne del Piemonte, del Genovesato, gli Appennini con “piccole colonne mobili cacciate in tutte le direzioni” e con “centro in ogni dove e nessuna circonferenza segnata”, specie se si tiene conto del nemico, “lo stupido, lento, pesante austriaco. “Negli anni successivi, sull’onda dei moti europei del 1830-31, nasce sulle medesime basi la Giovane Europa che, il 15 aprile 1834, vede la sottoscrizione d’un atto di fratellanza tra i rivoluzionari delle tre nazioni – Italia, Germania, Polonia – più povere, arretrate e sottomesse ma anche desiderose di riscatto. La centralità giovanile si trasferisce così a livello dei popoli, interessando “le giovani nazioni d’Europa” con una formulazione per cui Mazzini voleva contrapporre al vecchio ordinamento austro-russo della Restaurazione, al superato giacobinismo francese e all’egoismo inglese, il fresco spirito della cultura romantico-patriottica.

 

Il ribollire dell’animus pugnandi dei giovani, che può diventare così dannoso quando è rivolto verso l’interno, si pone quindi per altri versi quale serbatoio da cui attingere prontamente in casi di particolare difficoltà per la comunità riversando le forze aggressive verso l’esterno. Quando c’è da trovare un manipolo di volontari per un’azione disperata che può salvare la comunità ecco che, dall’antichità fino ad oggi, ad alzarsi sono sempre le mani dei più giovani. Nel conflitto aereo risolutivo della seconda guerra mondiale, per esempio, si affrontavano le ultime generazioni americane e giapponesi. Il rischiosissimo mestiere di pilota fu abbracciato volontariamente negli Usa, sul crinale d’anni decisivo del conflitto, da giovani assai diversi per provenienza geografica, classe sociale ed educazione. Il senso d’avventura che promanava dall’aria, insieme alle paghe elevate ed alla possibilità di rapide promozioni, faceva da sirena irresistibile e da collante generazionale. Sull’altro fronte i kamikaze erano chiamati “ciliegi in fiore” perché cadevano anzitempo appena sbocciati, comunque tutti sotto i venticinque anni, ma anche più acerbi. L’ammiraglio Onischi, ideatore ed organizzatore del “vento divino”, nei suoi decisi discorsi agli ufficiali della Flotta Aerea dichiarava convinto che “se il Giappone può essere salvato, lo sarà soltanto per opera dei giovani, degli uomini di trent’anni o anche meno”, anche perché “non sono i giovani a lamentarsi o a protestare, ma, in genere, sono i più anziani che spesso criticano l’operato dei superiori”. Il suo ultimo messaggio, preparato prima dell’harakiri, viene dunque indirizzato alla gioventù “tesoro della nazione”, mentre quando gli si chiedeva un saggio della sua perizia di calligrafo scriveva di preferenza la frase “La purezza della gioventù sarà l’introduzione al Vento Divino”.

 

Anche le organizzazioni terroristiche di oggi utilizzano per le loro azioni suicide giovani in cui il bisogno di purezza e di assoluto si mescola talvolta al rancore ed all’emarginazione. Il giovane è il soggetto che per eccellenza può essere plasmato, magari fin dall’infanzia in una scuola integralista, da una predicazione infiammata che lo coglie nel suo rabbioso sbandamento di un’età più avanzata, infine dalla forza delle immagini e degli esempi lontani. Studenti delle università pachistane o afghane, diseredati dei campi palestinesi, dis-integrati delle metropoli occidentali formano quella galassia islamica che grava come minaccia nei brutti sogni dell’occidente. L’aspetto asciutto e temprato del guerriero che si muove e arringa da luoghi impervi, il look semplice da mujaheddin centroasiatico di Osama Bin Laden, il suo arabo forbito, oracolare e arcaizzante sono allora tratti esotici “anche e soprattutto per un giovane saudita, marocchino, yemenita, che aspirano a spogliarsi degli abiti occidentali e coprire il volto con un velo leggero di pashmina, e fuggire lontano dalle metropoli e dalle bidonville schifose del mondo arabo moderno. Andare ai monti, come nuovi partigiani della Fede. Ascendere. Purificarsi. Se necessario, morire recitando a memoria una Sura coranica” (A. Castelvecchi).

 

Se il partigiano nazionalista o comunista, “il rivoluzionario è un uomo perduto in partenza. Non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome. Un unico interesse l’assorbe e ne esclude ogni altro, un unico pensiero, un’unica passione, la rivoluzione” (M. Confino), tanto più l’attentatore suicida è sprofondato dentro la sua morte redentrice che ne tiene l’anima e ne muove il corpo. Il fattore religioso, allora ancora imperfetto, ha raggiunto oggi la sua entelechia; Dio, a cui sono cari i giovani, accoglierà i frammenti dispersi dei raider.

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