Marco Baliani / Il teatro dei corpi narranti
Una lectio magistralis bolognese - Roberta Ferraresi
Autore, attore, regista fra i maggiori in Italia, Marco Baliani è stato ed è uno dei protagonisti degli ultimi quarant'anni del nostro Nuovo Teatro. Ne ha accompagnato le diverse “ondate” avanzando per ciascuna tendenza proposte, idee, posizioni in dialogo col presente e sempre però anche – si potrebbe dire – “sfasate”, anticipatrici rispetto al proprio tempo. Dopo una ricognizione dei differenti ruoli e approcci assunti dall'artista dalla fine degli anni Settanta, “maestro” è la parola con cui Cristina Valenti – docente e studiosa, presidente e direttrice dell'Associazione Scenario – ha concluso la propria presentazione dell'artista alla lectio magistralis che si è tenuta al Dipartimento delle Arti dell'Università di Bologna nel contesto di Interscenario 6: sia per condurre l'attenzione sulla persistenza dell'attività pedagogica all'interno del suo intero percorso, sia per sottolineare in senso più ampio e lato la capacità di Baliani di porsi come interlocutore attento, lucido, presente sull'orizzonte dei mutamenti in atto nei linguaggi e nelle pratiche artistiche, tracciando spesse volte ipotesi di lavoro e di percorso non previste. Per esempio, con l'idea di legare originalmente teatro di ricerca e teatro per ragazzi – un binomio per tanto tempo intentato – o anche scardinando l'originaria esclusività del teatro per l'infanzia in una direzione a lungo tabù e oggi consolidata col nome di tout public; fondando in una delle fasi di – almeno presunta – stagnazione del Nuovo il Premio Scenario (1987), a tutt'oggi ancora riferimento assoluto per le nuove generazioni teatrali come occasione di visibilità, crescita, confronto. E infine inventando in un momento di spiccata separazione fra i teatri cosiddetti ufficiale e di ricerca un nuovo discorso performativo poi posto sotto la formula della “narrazione” capace di nutrirsi sia di tradizione sia di sperimentazione, di combinare il fertile patrimonio della processualità con la necessità della sua apertura al pubblico nel quadro dell'esito scenico. Tutte coordinate che negli ultimi anni sono andate a riplasmarsi in grandi progetti spettacolari a carattere corale ideati e diretti da Baliani, segno più recente della sua cifra poetica e politica.
La pedagogia, accogliendo la proposta di Cristina Valenti, è forse uno dei più intensi fili che percorre più o meno sotterraneamente l'intero percorso di Baliani, maestro d'attori, della parola, di linguaggi, di adulti, giovani e bambini, dentro e fuori i palcoscenici – non solo italiani – degli ultimi quarant'anni. Ed è forse il concetto che può aiutare ad avvicinarne e comprenderne l'opera nel complesso, tanto più che la lectio tenuta all'Università di Bologna si è svolta proprio nei termini di un (auto-)svelamento del metodo di lavoro, una sorta di apertura del laboratorio di creazione in cui l'autore e regista si è impegnato negli ultimi anni.
Il metodo di un lavoro corale
Ditemi prima i vostri nomi è il titolo che Baliani ha scelto per questo incontro. Ed è da qui che comincia, da quella che descrive come la prima tappa del suo lavoro per la costruzione dei racconti corali che segnano e distinguono le sue ultime opere sceniche (da Corvi di luna, presentato al festival di Santarcangelo nel 1990 al Pinocchio nero creato a Nairobi dal 2002, fino all'ultima Mandragola): cioè dalla richiesta, di fronte a un nuovo gruppo d'attori, di presentarsi tramite il proprio nome. Non si tratta di un fatto formale o pratico, quanto dell'autentico innesco del percorso creativo: è chiedendo approfondimenti sul significato, la motivazione, la scelta del nome di ciascuno che – svela l'artista – si può inaugurare il processo di strutturazione di un gruppo, che è anzitutto fondato sull'ascolto – ascolto inteso nel senso ampio e lato dell'intera sensorialità –, sulla capacità dei singoli di ascoltarsi fra loro e di costruire una fiducia reciproca, sulla valorizzazione delle individualità ma intese in relazione con l'altro. Il suo primo interesse, riflette Baliani, non è tanto rispetto all'attore, ma a quello che c'è dietro: cioè per la persona, l'esperienza umana di cui ciascuno è portatore.
Il gruppo dev'essere poi continuamente nutrito di domande ed esercizi diversi, ma sempre orientati dalle coordinate dell'attenzione reciproca (Baliani parla della creazione di una “rete elettrica” fra i partecipanti). Ed è parallelamente importante a suo avviso cercare di non fissare, di non inquadrare nulla in questa fase, coltivando quello che definisce una sorta di “lavoro a tentoni” di cui non è chiaro l'orizzonte ultimo, ma da cui – una volta innestato a un certo punto il tema del lavoro in questione – è possibile “catturare” già dei pezzi di una possibile drammaturgia.
È così che il gruppo, dopo diversi giorni di lavoro, può diventare autore, dopo essersi convertito – come lo definisce l'artista – in una sorta di “equipaggio”, con una propria identità e linguaggio. Ma a questo punto – avverte – è sostanziale ricordare che un simile processo dev'essere anche portato all'esterno, deve coinvolgere non solo chi lo fa, ma anche il pubblico, in una concezione della drammaturgia che – richiamando e superando la tradizionale polarità della ricerca che distingue la fase del processo creativo e quella dell'esito scenico – afferma fondarsi nella relazione con lo spettatore, che è chiamato sì a vedere lo spettacolo ma anche – e questa è una delle peculiarità – quello che c'è dietro, cioè il processo, il percorso che ha condotto alla sua realizzazione.
Il deposito della drammaturgia
Per quanto riguarda la costruzione della drammaturgia, Baliani rivendica la centralità di questo tipo di lavoro condiviso con gli attori, di cui il regista fa parte. Non accoglie l'idea di un “attore-interprete”, a cui convenzionalmente si affida un testo da dire in scena: rilancia con la proposta di un attore “artigiano-artista” a tutto campo, richiamando anche la predilezione per il lavoro su testi non preventivi, non già scritti – forse al limite riscritti –, nonché la fase di deflagrazione di un possibile nuovo approccio alla questione della testualità, aperto e plurale, che si è affacciato sulle scene italiane fra anni Settanta e Ottanta e che però ormai avverte come rientrato e appunto l'elaborazione dell'idea di testo come pluralità linguistica (a partire, come afferma, dal fatto che “le parole esistono per essere agite da un corpo”).
Nel suo approccio la nozione di “testo” non si connette – come vuole la tradizione – con il concetto di “tessitura”: la scrittura, riflette, è soltanto una parte, anche se certo importante, del processo di costruzione di un'opera scenica. La concezione di testualità che Baliani propone è invece quella di un “insieme di linguaggi compositi”, facendo riferimento a un'idea di “textum” che connette alla parola che definisce il quartiere romano di Testaccio – un deposito di cocci, rivela, sopra cui poi si è sviluppata la città. Il senso è quello di un accumulo di frammenti fra cui poi operare una selezione “per far in modo che poi vi possa fiorire sopra qualcosa”.
Embrioni di poetica
Un percorso di questo tipo – con la persona al centro, attore o spettatore che sia, e le relazioni che fra essi si possono costruire – conduce al confronto con le mutate condizioni socio-antropologiche che dominano la vita quotidiana, per esempio rispetto alle radicalmente nuove modalità identitarie e relazionali stabilite dalla pervasività dell'innovazione tecnologica. Secondo Baliani “il pubblico ormai è abituato” a questo tipo di fruizione, ha assorbito una sorta di “capacità di montaggio del mondo”, e a suo avviso è indispensabile “farci i conti teatralmente”. Per esempio, in relazione alle nuove modalità di vita, percezione, fruizione, il racconto intenso in senso tradizionale, in rapporto al canone dialogico e lineare, non sarebbe più possibile: ma oltre a guardare avanti, Baliani spiega che si trova anche a guardare indietro, al passato, cioè per esempio alle formelle della porta del Battistero di Firenze plasmate dal Ghiberti o ai dipinti di Bosch, “dove l'occhio non è obbligato a seguire una linea” predeterminata, dove accadono più cose in spazi e tempi differenti.
È l'inizio di una nuova ricerca, quello su cui si sofferma in chiusura l'artista: che intende riprendere e sviluppare i presupposti del rapporto fra narrazione e dramma – Baliani lo chiama “tempo spezzato” – su cui aveva riflettuto qualche anno fa in un contributo pubblicato su “Prove di drammaturgia” (n. 2/2013) in cui sono presenti in nuce tanti dei nodi scavati nella lectio magistralis bolognese. Ed è un segno indubbiamente forte il fatto che l'approccio di uno dei fondatori del teatro di narrazione, forma riconosciuta soprattutto per la “solitudine” drammaturgica e scenica dei suoi interpreti, progressivamente sia andato a deflagrare verso le modalità della creazione collettiva. Ma oggi si tratta anche di andare oltre. Con l'obiettivo, ancora e di nuovo, di suscitare nello spettatore quello che definisce un “risveglio”, uno “spiazzamento”, un “sussulto”, ma non nel senso – avverte – di “épater le bourgeois” com'era negli anni Settanta, ma per far sì che anche lo spettatore lavori, resti inquieto, sempre all'erta (“Ci sono tanti misteri in uno spettacolo teatrale. Tenerli tutti insieme e farli fibrillare nello spettatore è la mia poetica, anzi la mia utopia di poetica”, conclude). È appunto l'innesco di una nuova ricerca, confida Baliani, i cui orientamenti, esperimenti e tensioni risultano ben visibili nell'esperienza sulla Mandragola condotta con gli allievi della Scuola del Teatro della Toscana.
Mandragola: dall’antro del disincanto - Massimo Marino
Niente cinquecentismi, niente fini dicitori innamorati dell’antichità. La mandragola realizzata con la regia di Marco Baliani parla la lingua di corpi giovani al ritmo del fraseggiare dei nostri giorni. Riverbera il torvo testo del disincanto di Machiavelli nei tempi odierni di seduzioni e inganni, utilizzando la vecchia fabula che ha per protagonisti “un amante meschino, / un dottor poco astuto, / un frate mal vissuto, / un parassito, di malizia il cucco…”, melanconico ritrarsi del segretario della Repubblica Fiorentina dalla vita pubblica al ritorno dei tiranni, i Medici.
Lo spettacolo ha per protagonisti i neodiplomati della Scuola per attori “Orazio Costa” della Fondazione Teatro della Toscana, riuniti in una compagnia chiamata I Nuovi. A essi il teatro stabile ha affidato in gestione totale, per tre anni, dopo una lunga chiusura, la sala del teatro Niccolini di via Ricasoli, spazio storico della città aperto addirittura nel 1644, il famoso Teatro del Cocomero, ritornato a vita artistica tra gli anni ’70 e il 1994 con le produzioni del Granteatro di Carlo Cecchi, vari Molière tradotti da Cesare Garboli e tanti Pinter pari a feroci stilettate piene di disincantato humour.
A questo primo nucleo dei Nuovi, secondo il progetto, si affiancheranno giovani attori diplomati in altre scuole, selezionati tramite audizioni. Oltre che nella produzione di spettacoli, saranno impegnati in tutti gli aspetti della gestione della sala, dalla direzione artistica all’amministrazione, dalla comunicazione alle pulizie. Il progetto, strutturato su un percorso di tre anni, prevede che a ognuno degli attori coinvolti sia corrisposta una borsa di studio mensile. I principi conduttori sono fissati in un manifesto in sei punti, Per un attore artigiano di una tradizione vivente, in realtà piuttosto generici e promettenti, comunque, mi pare, non troppo floride finanze. Al primo codicillo si legge l’importanza del rapporto tra i giovani e maestri che abbiano un sapere teatrale da trasmettere (i prossimi sono saldamente inscrivibili nella tradizione, da Gianfelice Imparato a Glauco Mauri).
Baliani, con questa Mandragola, è il primo artefice di una pedagogia applicata ai testi e alla scena. Il regista si fa portatore di un metodo corale, che fa scaturire i personaggi e le singole azioni dal corpo del coro, un grumo nel buco del sipario all’inizio, un pullulare di corpi e voci in un bosco-caverna, quello dell’invenzione teatrale ma anche quello inquietante del nero di una scena racchiusa in un drappeggio di velluti che fanno risaltare spigolosità, appetiti, veleni, violenze. Solo qualche oggetto di scena allude alle varie situazioni, un confessionale, un inginocchiatoio, panche e un tavolo, mentre i costumi, come l’impianto generale firmato da Carlo Sala, sono grigie tute quasi da attori operai memori della biomeccanica di Mejerchol’d, ravvivati da qualche mantello o copricapo.
Callimaco vuole possedere Lucrezia, moglie di un anziano dottore poco avvertito e bramoso di avere figli a tutti i costi. Per questo cade nella trappola tesagli dal giovane che, con l’aiuto di un intrigante parassita versato in ogni sorta di espedienti, Ligurio, e di un frate mercenario, convince l’onesta Lucrezia a sorbire un decotto di Mandragola e a giacere con un “garzone” catturato per strada, per scaricare su costui gli eventuali effetti venefici della pozione. Sarà in realtà lui, Callimaco, travestito, a cadere volentieri nella rete, a godere dell’inganno e a convincere la donna a proseguire nell’adulterio.
L’antica storia, tipica della commedia del Cinquecento, con personaggi che si agitano per indirizzare la realtà verso i propri desideri, senza remore morali, diventa una recita sincopata, veloce, accompagnata dal brulichio del coro sullo sfondo, che genera le singole scene, che commenta, come nelle canzoni d’intermezzo nell’originale musicate in forma di madrigale, popolo spettatore e partecipe di un travisamento dell’etica generale. Il fosco quadro ha per specchio la risoluzione quietista conclusiva di Lucrezia. La donna, infatti, dopo tante resistenze, sedotta dal piacere procuratole dal bel giovane, si arrende e dice: “Se Dio ha voluto così, così voglio anch’io”; assegnando alla volontà Dio il merito o la colpa di ciò che è opera degli intrighi umani.
Sembrano già maturi, questi giovani attori, condotti dalla mano fantasiosa di Baliani a “cantare” insieme, intonando ogni assolo al bordone e al contrappunto di tutti, facendo risaltare il vizio individuale in un incrinarsi della moralità collettiva. Come ai nostri giorni? Essi ci guardano, alla fine, tutti, dalla voragine tetra della scena, protagonisti e comprimari, bloccati in una luce raggelata. Il tavolo del banchetto conviviale conclusivo, della festa che segue la commedia, si inclina, facendo rotolare i bicchieri sul palcoscenico. Buio definitivo.