In bilico

24 Ottobre 2015

Il 2 gennaio 1954 mi recai al mio nuovo posto di lavoro a Torino, in via Arsenale 21, allora sede della Direzione Generale della RAI, in un palazzo di proprietà della SIP, Società Idroelettrica Piemontese maggiore azionista dell’EIAR trasformata in RAI nel 1945 e Rai Radio Televisione Italiana appunto nel 1954. Per fortuna fui assunto in un grado assai basso della carriera impiegatizia che mi mise nelle condizioni di raccogliere storie e leggende degli anni più recenti e del lontano passato. Nel 1954 era già lontano il 1945 perché, quod deus avertat, guerre e dopoguerre allargano, allungano e restringono il tempo in modo indescrivibile. Questo pertanto è un pezzo rarissimo perché non del tutto autobiografico: è un racconto di seconda mano che mi fecero i vecchi di allora e che riporto come lo avessi stenografato:

 

Munsü Piva, entrato da poco nella Resistenza, frequentava però già le riunioni clandestine del Comitato di Liberazione dell’EIAR di Torino. Si trattava tuttavia di un componente non essenziale, qualsiasi cosa ne pensasse lui. Figuriamoci dunque come gli venivano passate le notizie in quella clandestinità del 1945, con l’aggiunta che nessuno capiva più nulla nel precipitar di eventi delle ultime settimane.

Che cosa vuol dire “Munsü”? e poi “Munsü Piva” in torinese, nel torinese del 1945?

Era grande amico di un certo Gisep, che, essendo stato affondato con l’incrociatore “Pola” al largo di qualche costa, il freddo del mare – nell’ammollo di un numero di ore imprecisato – gli aveva inceppato la parola al punto che, per resistere alla sua terrificante balbuzie, ci bastava solo Munsü Piva. E infatti Gisep con lui parlava e con nessun altro, e sempre e solamente dell’affondamento. “Corazzata e non incrociatore”, tartagliava per darsi delle arie. Era stato schiaffato all’EIAR nella mansione di fattorino.

 

Munsü dunque, che significa signore, è imparentato con il francese Monsieur: “Ehi, dica, Munsü, nella coda c’ero prima io”, “Guardi, Munsü, che la punta del suo ombrello si è infilata nella mia scarpa”, “C’è quel Munsü che gira sempre per qui tutti i giovedì col vestito viola scuro”. Presenta però almeno un’altra accezione: quella di titolo onorario. Spetta agli artigiani, agli edicolanti, ai portinai; anche a quelli che rasentano il grado di capufficio, ottenuto il quale uno passa di diritto al titolo superiore di “Signor”. Piva era appunto Munsü perché addetto agli articoli di cancelleria di via Arsenale 21, sede dell’EIAR, e ne vestiva la divisa: un lungo camice nero che gli arrivava alla caviglia. Sovrintendeva lui alla distribuzione della cancelleria e a consegnarla provvedeva sempre lui perché era l’unico dipendente di se stesso. Era altissimo e non esile ma nemmeno corpulento, e una moglie affettuosa gli sistemava il camice tutti i giorni. Però si vede che glielo stirava con forza accanita anche dopo piegato. Cosicché Munsü Piva, che camminava curvo, inclinato in avanti, e sbandava un tantino sulla sinistra e quando indossava il camice schiacciato da quell’ossessa della sua signora sembrava un enorme, strano, pupazzo da ripiegare per riporlo seguendo le incalcature delle linee di stiratura.

 

Testo del telegramma diffuso dal Clnai indicante il giorno e l'ora in cui dare inizio all'insurrezione: all’una di notte del 26 aprile

A tutti i comandi di zona.

Comunicasi il seguente telegramma: ALDO DICE 26 x 1 Stop Nemico in crisi finale Stop Applicate piano E 27 Stop Capi nemici et dirigenti fascisti in fuga Stop Fermate tutte macchine et controllate rigorosamente passeggeri trattenendo persone sospette Stop Comandi zona interessati abbiano massima cura assicurare viabilità forze alleate su strade Genova-Torino et Piacenza-Torino Stop 24 aprile 1945

 

In questa situazione, a dir poco esaltante per il nostro Munsü che del fascismo non ne poteva più già fin dal discorso del 3 gennaio 1925, – e da vent’anni contava i giorni digrignando i denti ossuti – lui, con tutti quegli STOP, del telegramma si marchiò nella mente purtroppo solo la data di spedizione “24 aprile 1945”: entrò subito personalmente in agitazione, in pochi istanti passò allo sciopero generale di se stesso, e, quando raggiunse la fase, sua, privata, di insurrezione popolare, si avventò col grembiulone svolazzante nell’Ufficio Contabilità a cercare del Signor Canonica.

 

Era mattino presto, e quello, appena arrivato, stava discutendo di un particolare affascinante della partita doppia: «Come registrare il taglio erba dei giardinetti del trasmettitore dell’Eremo, e come l’incasso per l’erba venduta a un allevatore di conigli? E dove il ricavo di detta transazione?».

«Ven fora – disse il pipistrellone a Canonica che lo sogguardava da sopra gli occhialini da presbite – ven fora» e il contabile schizzò fuori nel corridoio con la sua elegante grisaglia chiara confezionata dalla sartoria Benaglia, via Viotti, prima della guerra, anzi, prima dell’autarchia. Canonica non era ancora capufficio, ma l’eleganza subalpina che riusciva a sfoggiare durante il conflitto, gli aveva già attribuito la qualifica di “Signor”.

 

Non si conosce il contenuto delle prime concitate frasi che si scambiarono nella penombra del corridoio, ma una sintesi approssimativa è possibile immaginarsela: «Ai suma, a l’è l’ura… cua fuma?». Non è su frasi tuttavia che ci si deve soffermare, ma sul contenuto dell’azione che si accingevano a intraprendere: quei due sciagurati erano ormai trasformati in insorti, per l’incredibile errore di Piva di aver scambiato la data di spedizione del telegramma per quella della fine del mondo, fissata invece nella notte fra il 25 e il 26 corrente mese.

 

Ma l’aspetto più preoccupante era che oramai fossero in due, quindi già una folla, seppur piccola, una folla con davanti i labirintici corridoi dell’ottocentesco palazzo gremito di uffici e di compagni da unire all’insurrezione. Infatti, privi di qualsiasi freno inibitorio, andavano aprendo ogni porta, a destra e a sinistra, proclamavano la rivolta a gente, la cui reazione flemmatica, per non dire scettica, avrebbe dovuto freddare i loro bollori, come anche l’assai scarsa affluenza ai posti di lavoro in quel giorno 24 di oscuri nuvoloni.

 

È vero che a quell’epoca non si andava ancora in pensione, e che quindi, pregni di attese, timori, speranze e indecisioni, stavano inchiodati, ma contenti, alle loro scrivanie anche vecchietti di 80 anni, che si erano portati da casa il caffè d’orzo o cicoria nei loro thermos da combattimento. E quella era proprio l’ora di colazione. È anche vero, del resto, che dipendenti politicamente attivi all’EIAR ne dovevano assumere pochini, di quei tempi, per prudenza. Tanto che Tota Ferrero, bellina ma già impettita come una madamin, sentiti gli schiamazzi, si voltò con i suoi occhi color acciaio verso il colonnello Quazzo, che stava inzuppando nella sua brodaglia un pezzo di pane quasi completamente artificiale, e gli chiese: “Capitano, quest’anno si fa il Carnevale anche in aprile?”. Perciò dopo i proclami della banda dei due, nessuno degli scarsi presenti dava troppi segni di emozione e quindi i forsennati proseguirono la loro marcia spalancagridasbatti, fino alla doppia scalea di marmo che portava all’ingresso, una specie di scala mobile immobile molto usata dagli impiegati sportivi: siccome i gradini di marmo erano scivolosi e consunti, dopo qualche allenamento, gli atleti sciavano a cento all’ora verso il pianterreno agganciandosi con l’ascella al lucido mancorrente della raffinata balaustra liberty.

 

 Sii credevano tenuti dietro da un corteo con picche e forconi che, nelle loro menti malate, intonava il “ça ira”. Cosicché, sempre scivolando e ormai totalmente fuori brocca, si ritrovarono di fronte al posto di guardia dei repubblichini, molto importante perché l’EIAR era un obbiettivo che oggi sarebbe definito sensibile, anzi, di più, molto di più. Per fortuna, l’Azienda si era data da fare per ottenere un corpo di guardia il più misurato possibile: niente maniaci diciassettenni con la faccia grinzosa, niente squadristi del ’22 in fase di revanche, niente, forse, banditi da strada raccattati per godersi nell’orgia le ultime ore di vita. Quelli lì erano nel complesso “tipi per bene”, se un termine di questo genere può essere affiancato a quello di “repubblichino”. Ma, superata questa antinomia, va detto che, di raccomandazione in raccomandazione, di lagna in lagna, l’EIAR era riuscita a procurarsi per il posto di guardia un cast ad hoc composto quasi esclusivamente da dipendenti interessati più a difendere il posto di lavoro, che non l’idea suprema.

 

Fu per questo che, quando il pupazzo pieghevole e il gagà del 1937 con scarpe di falsa para irruppero furibondi, disarmarono con facilità i 4 o 5 perplessi militi. Corsero poi a portare via mitra, fucili, rivoltelle, bombe SIP, implacabili pugnali, per riporli negli armadi degli articoli di cancelleria. Quello era il regno inviolabile di Munsü Piva, che aveva, sì, sopravanzato la Storia di qualche ora, ma si era mantenuto pur sempre nell’ambito delle proprie competenze.

 

Nel frattempo il dottor Lanoletti, dirigente addetto alla Propaganda e Sviluppo in quei giorni un po’ noncuranti del futuro delle radioaudizioni, seduto alla sua scrivania, fissava il vuoto pensando al fatidico telegramma di poche ore prima. Era comunista iscritto dal ’32, e uno dei capi del CLN dell’EIAR e si trovava in una posizione assai delicata perché curava i rapporti con i vertici aziendali in nome e per conto dell’insurrezione armata. Cercava appunto di raccogliere le idee, quando si spalancò la porta, senza che neanche l’avesse annunciato la segretaria, e comparve il colonnello Quazzo. Era un vecchietto sui 70, vestiva un abito liso, era uno degli ultimi del secolo breve a portare le mezze maniche nere. Ma, nonostante l’aspetto dimesso e stazzonato, essendo colonnello, seppur di complemento, si rendeva conto di quel che accadeva, anche se nulla sapeva del telegramma, e intuiva che solo il dottor Lanoletti poteva evitare la catastrofe. Che si annunciava immancabile se quei due matti fuori calendario continuavano la loro inspiegabile insurrezione privata. Lanoletti – con spessi occhiali di tartaruga e lineamenti un po’ nipponici – non tradì alcuna emozione al sentir quel che ansimando profferiva l’ex condottiero. Nessuna, salvo per chi, disponendo eventualmente di stetoscopio e sfigmomanometro, avesse potuto misurare i suoi parametri cardiocircolatori. «Vediamo-un-po’…» scandì con voce pacata alzandosi tuttavia bruscamente, e uscì dall’ufficio. Mentre attraversava la stanza di segreteria, disse alla sua signorina – che, come sempre, aveva al suo passaggio interrotto la tempesta della battitura a macchina alzando le mani all’altezza delle spalle, i mignoli in erezione e interrogandolo con la reverenza muta dello sguardo – chiese con nonchalance proseguendo la camminata frettolosa: «Si ricorda di quel che le ho detto ieri, di cercarmi una radio Balilla, sa, di  quelle con batteria, in magazzino? No, no, non una foto, vorrei proprio la radio», poi si bloccò di colpo. che quindi «Ma, senta, Colonnello, a che piano sono arrivati adesso quei due?»

 

Fu al quarto piano, dentro il ripostiglio delle scope, che si svolse una franca spiegazione fra compagni che fece diventare grigio il volto di Munsü Piva, mentre il Signor Canonica, un po’ pallidino, muoveva gli occhi da destra a sinistra ritmicamente come una pendola. Per la sopraggiunta perplessità lo faceva, o terrore, ma se avesse anche sorriso, cosa per lui impossibile in quel momento, sarebbe diventato il famoso manichino elettrico che faceva la réclame dei guanti in un negozio di via Garibaldi.

 

Una volta chiarito l’equivoco – e che equivoco, mio Dio! – restava un problema non da poco, classico della sinistra di tutti i tempi: «Che fare?». Considerato il disastro dei militi disarmati e sbertucciati, si giunse alla conclusione che occorreva che i due colpevoli si nascondessero da qualche parte, si stermassero, in piemontese. Ma dove?

Il gagà interruppe il pendolìo delle pupille per avanzare un’ipotesi insensata oltre che infantile: sprangarsi in un cesso fuori mano, pratica assai diffusa fra gli impiegati quando si permettevano un intervallino. Ma perfino i fattorini in divisa blu gallonata sapevano dove e chi trovare nel giro di pochi minuti.

Scartate anche le cantine, che in caso di allarme aereo diventavano frequentate più dei portici di via Roma, non restava che l’estrema ratio dei tetti: “Ant’i cup?!” esclamò Piva pensando con sgomento a quanto erano inclinati i tetti delle vecchie case di Torino.

 

Quando furono a cavalcioni del culmine del tetto, aggrappati al parafulmine, si calmarono un po’, mentre, ormai in tarda mattinata, Lanoletti tornava alla sua scrivania a continuare le riflessioni sul telegramma.

 

L’aria era buona lassù, anche se il sole freddo faceva presagire una nottata da incubo, e avevano qualche alternativa: potevano infilarsi per qualche minuto nell’abbaino che dava sulle soffitte, e stare in bilico sulla scala a pioli per riposarsi un po’. Potevano scendere con cautela a “culovia” fino a uno spiazzetto largo una trentina di centimetri, quello del cornicione che aveva anche il vantaggio di una ringhierina in ferro battuto che separava dall’abisso della buia via di sotto. Spiazzo e ringhierina costituivano accorgimenti architettonici comuni per evitare, dopo le grandi nevicate, che lastroni di neve, smollandosi, precipitassero schiantando i passanti una ventina di metri più sotto. Comunque spiazzetto e ringhierina, francamente agghiaccianti, con un po’ di buona volontà potevano permettere perfino di schiacciare qualche angoscioso pisolino

 

Ci sarà stato qualcuno che si fosse premurato di portargli cappotti, guanti, qualche pullover, perfino coperte? Certo che sì, altrimenti i miserelli sarebbero morti assiderati. Infatti quella primavera era freddissima, contrariamente a quel che pensa il regista Bertolucci che si sarebbe meritato lui una bella nottata all’addiaccio prima di far vedere, nel finale di “Novecento”, omoni in canotta con tutto il freddo di quel fine aprile. Mah! Si può supporre che Lanoletti, fine politico, ma con propensioni scarsamente umanitarie, non si sia manco per il cavolo preoccupato di soccorrere i suoi incauti adepti. Invece piuttosto il colonnello – di fronte alle battute stereotipe e fintamente apolitiche di Tota Ferrero faceva sempre per prudenza gli occhi di vetro come uno svanito Lord di campagna alla Wodehouse – il colonnello Quazzo, a insaputa della sua infida vicina di scrivania, avrà portato lui di persona indumenti e coperte e fatto anche da vivandiere.

 

Che meraviglioso panorama a 360 gradi si godeva di lassù! Le colline già forse occupate dai partigiani da una parte, e dall’altra le montagne candide, forse già svuotate dalle divisioni e brigate che calavano in pianura per ottemperare al telegramma: “Finiamola, bastardi, ch’a l’è l’ura, orsù siamo giunti alla fin…”. Ma, pensava Piva: “L’uma voeia d’aspeté”. Chissà quanto ci sarà da aspettare, Dio mio!, cioè.

 

Guardando invece verso il basso, si vedeva lo scheletro abbruciato della scuola S. Giuseppe, dei Gesuiti, e, proprio davanti all’EIAR, quello altrettanto abbrustolito di un grande magazzino di tessuti con, a sinistra, i giardini dell’Arcivescovado, e davanti appunto l’immenso Arsenale, incantevole e maestoso palazzo barocco stile Ermitage di San Pietroburgo, gremito fino all’inverosimile di tedeschi, nazisti, crucchi, boche, tutti motorizzati. Da lì veniva il pericolo, e invece nel buio incombente filtrava solo un silenzio di morte. Possibile che se ne fossero già andati?

 

Giunta un’ora della notte che i nostri non sono poi più stati in grado di precisare, si spalancò l’immenso portone fra le due statue gigantesche e poppute con lance e trombe che solo la penna di Steinberg potrebbe riprodurre, e da quell’Armageddon furono vomitati – ruggito dopo ruggito, schianti e rombi – autoblindo, carri armati, cannoni trainati, moto Zundap con sidecar e occhialoni sotto gli elmetti e, per finire, quelle de-li-zio-se Mercedes a tre assi con sopra incollati gli ufficiali impettiti, dieci o dodici per auto, che sobbalzavano in sincrono con l’automezzo. “Senza fare una piega” pensò Piva. Che invece, lui, era tutto pieghevole. L’armamentario di tanti film del futuro sulla gelida barbarie nazista se ne era stato zitto zitto, quatto quatto, come i due sul tetto, per ore fino a quando uno, via radio, gli aveva detto, naturalmente in tedesco: “Fora tüti, sübit, e di gran carriera!”. Riempirono per un attimo la via Arsenale fin quasi alla via Pietro Micca con il fumo degli scappamenti che arrivava ai cornicioni, e poi sparirono, chissà, verso Milano.

 

Tornato il silenzio, si sarebbe potuto sentire, avendo l’orecchio buono, il concitato balbettio che veniva dai tetti sul tema: “Scendiamo adesso, il peggio è passato”. Che s’interruppe però quando, dall’immenso cortile dell’Arsenale giunsero grida disperate, di un’angoscia senza limiti, l’angoscia di chi, superata ogni soglia della sofferenza, non era più un essere umano: si appiattirono sulle tegole, turandosi le orecchie con ambo le mani per non sentire la invocazione di soccorso. E che potevano fare?

 

Gli occhi gonfi, i volti pallidi, avvolti nelle coperte come squaw pellerossa, tremanti per il freddo, con il sorgere del primo sole, loro, che avevano perso ogni speranza dopo gli ululati di orrore della notte, videro aprirsi l’abbaino e comparire il volto nobile e amichevole del Colonnello Quazzo, che, stranamente, sorrideva e faceva cenni di seguirlo.

 

Il seguito è arcinoto, cortei di armati per le strade, barriere di tram per sbarrare il passo alle colonne tedesche in ritirata, Solaro impiccato all’albero di Corso Vinzaglio, i fascisti buttati giù dal ponte delle Molinette con il tiro a segno ai corpi nelle acque del Po giù giù fino alla diga Michelotti, ausiliarie rapate con lo sguardo smarrito, cecchini trascinati via dai tetti e scannati davanti ai portoni, bandiere rosse, tricolori col buco e  Munsü Piva e il Signor Canonica, che, ritirato ognuno un mitra negli armadi di cancelleria, partecipavano anche loro, stanchi morti, alla festa. Festa? Sì, festa.

 

E le grida angosciose nella notte? Su queste, Quazzo, già scendendo le scale, spiegò ai due rifugiati che avanguardie di fattorini della SIP, Società Idroelettrica Piemontese, si erano infilati strisciando nel portone dell’Arsenale, dove avevano trovato solo un maialino che piangeva disperato, abbandonato dai suoi amici nazisti. L’esserino vagava ululando nello spiazzo perché ricordava con nostalgia i bei tempi…

 

Festa. Ma quella veramente cominciò nel pomeriggio. Perché al mattino, quando Tota Ferrero uscì dal palazzo tignoso dove abitava dietro la Gran Madre di Dio e raggiunse il ponte sul Po che porta a Piazza Vittorio, notò con qualche disappunto che il repubblichino di guardia davanti alla sua garitta, anziché salutarla come ogni mattina, cerea tota, guardava angosciato verso le colline, passando attraverso il suo corpicino impettito come gli risultasse trasparente. Tota, fra l’altro, non è un nome, ma in piemontese vuol dire signorina. Cerea invece vuol dire buongiorno.

 

Proseguì la sua strada, stacchettando con le ortopediche ultimo modello, quelle con i listelli di legno a cingolo di carro armato, e arrivò con il cervellino pieno di interrogativi, senza notare i segni dei carri armati sul parquet della strada. Sì, proprio parquet, sì, perché via Arsenale è stata un tempo l’unica strada del mondo a essere pavimentata col parquet.

 

Il vecchio colonnello, che si era personalmente rinominato in servizio permanente effettivo dopo quel che era successo nella Notte dei Tetti, impallidì quando la vide che entrava in ufficio, si nascondeva come al solito dentro una specie di armadio guardaroba, si toglieva gli abiti per mettere sulla combineuse il grembiule che allora era d’obbligo per le impiegate, come il chador per le musulmane. Si concesse per qualche istante di sbirciare le forme pudibonde che trapelavano dalla breve fessura, compiacendosi per il suo erotismo senile e la lasciò sedere al posto di lavoro.

“Capitano”, gli disse,”capitano, che bruta gent l’ai incuntrà anchoeui ‘ns la strà. Face da furca, letteralmente, mi creda, ‘nti purtun, e nen mac omu, ai eru cò fumne, sa ieru fumne, cha riiu e a fasiu tüte cose…”(Capitano, capitano, che brutta gente si vede oggi in giro: facce da patibolo, alla lettera, mi creda, tutti dentro i portoni semisocchiusi, e mica solo uomini, c’erano anche ragazze con loro, se sono ragazze quelle là, che sghignazzavano sguaiate come femmine da malaffare.)

 

Il colonnello, che non era persona da poco, si sentì invadere da sensazioni miste di commiserazione e deprecazione. “Possibile che la Ferrero non avesse ancora capito niente di niente? Possibile che quella lì non intuisse che le facce da patibolo erano partigiani che stavano per rimpiazzare i franchi, fieri, onesti volti dei brigatisti neri?” Non riuscì però a comprendere il particolare delle ragazze sguaiate, perché anche a lui sfuggiva che dentro quei portoni che si stavano per spalancare era sul punto di dilagare con quegli armati anche l’epoca nuova piena di ogni infamia: il voto alle donne, l’eguaglianza dei sessi, il divorzio, le leggi sull’aborto, le donne soldato e un’infinità di altre cose che il militare a riposo non poteva neppure intravedere. Le donne di tutto il mondo si erano guadagnate a mano armata la loro dignità. «Mi chiami colonnello,» le rispose con la sua metà indispettita «e vada subito a casa, subito, forse sarà già al sicuro prima che inizino le schioppettate», concluse con l’altra metà commiserevole.

 

Quando la Ferrero, sulla via di casa, si ritrovò al ponte, il repubblichino suo conoscente era ancora lì, ma riverso sul pavé a braccia larghe, gli occhi fissi verso la consueta e scontata indifferenza del cielo in una pozza di sangue che allagava quasi tutta la carreggiata: «Cerea, Tota Ferrero».

 

Dunque il mondo in bilico si era spostato, ma resta ancora un problema: perché, se il fatidico telegramma del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia era datato 24 aprile ma annunciava in codice l’insurrezione per il 26, perché noi italiani, in questi settant’anni, festeggiamo il 25? Le date sono state riportate fidandomi per lo più della memoria dei miei testimoni. Da una indagine che ho fatto risulta che le cose sono andate un po’ diversamente. Nella notte del 24 arrivò un telegramma del colonnello Stevens che interrompeva l’insurrezione generale e l’entrata dei partigiani in Torino perché si erano viste bruttissime colonne corazzate tedesche che si aggiravano nei dintorni. L’insurrezione del 25 ci fu ugualmente e i partigiani entrarono in città. Non si trattava di colonne corazzate ma di qualche sporadico carro armato. Questo però fece sì che la Liberazione completa di Torino si protraesse fino al 28 aprile. Ma dicono le cronache che l’EIAR fu tra le prime a esser liberata, senza precisare se si trattava della Direzione Generale di via Arsenale 21 o di Radio Torino in via Verdi. Nel caso di via Arsenale i miei eroi meriterebbero una medaglia, magari alla memoria…   Chi se ne occuperà?

           

                                            

Roma, 30 aprile 2015

 

 

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