24 novembre 2016. Roma | MAXXI / Intervista a Letizia Battaglia. Fotografia e vita
Da tempo avevo deciso che volevo conoscere Letizia Battaglia, ma non trovavo il coraggio di scriverle. Mi è sempre sembrato uno di quegli appuntamenti che si rimandano per mantenere viva la speranza che non finisca tutto nel preciso istante dell’incontro. Tuttavia qualcosa mi diceva che non potevo farle un’intervista senza prima aver visto la sua città. Così sono stata a Palermo alcuni giorni, insieme a mia sorella. Ho cercato di carpire i segreti del luogo, di entrare in sintonia con ciò che mi circondava: i rumori delle strade, gli odori, i mercati, le periferie, i luoghi dei morti fotografati da Letizia. È strana Palermo. Ti avvolge in una morsa di contraddizioni, è insieme culla e tomba, mare e asfalto, bellezza e morte. La città lascia qualcosa di nuovo nel mio sguardo, un velo umido che resta incollato alla pelle come le voci che mi sfiorano per strada e che assorbo con il timore di perdere qualcosa, di non capire tutto quello che mi passa accanto. Non c’è modo di abbandonarla. E così decido: strappo i fogli con l’intervista che avevo scritto prima di partire, leggendo i libri e guardando le fotografie sui cataloghi. Non hanno più senso. Riscrivo tutte le domande di notte, con la città negli occhi, prima di incontrare Letizia Battaglia a casa sua, a poca distanza dal Politeama. Ci vediamo verso mezzogiorno. Entro in casa e il suo cane mi annusa con sospetto, poi appoggia il muso sulla mia gamba. Lei sorride subito. Ti mette a tuo agio Letizia. Non c’è distanza, ma nemmeno facili certezze. Si accende una sigaretta e il fumo ci avvolge, come la sua voce roca. Inizio l’intervista proprio da Palermo.
Prima di venire qui ho camminato per Palermo. Sono stata ai Quattro canti, alla Martorana, ho visto il Duomo e S. Giovanni degli Eremiti, Ballarò, il mercato del Capo, le Catacombe, il Palazzo di Giustizia e la Piazza della Memoria…
Ah, va beh… È interessante Palermo, è un po’ magica, un poco caduta, un poco solenne, un poco merda.
Da quello che ho visto mi sembra di aver colto un aspetto particolare: Palermo è bellezza ma anche morte…
Sì, vita e morte.
La domanda che le volevo fare è questa: cosa ha significato per una donna, con la macchina fotografica vivere a Palermo dal 1974 al 1992? E che cosa ha voluto dire per lei fotografare allo stesso tempo la bellezza e la morte?
Intanto è stato un gran privilegio avere la macchina fotografica in mano, saperla usare, cercare documenti e tutto quello che si agitava dentro. Perché prima di fotografare la città, dentro c’era il patimento, c’era l’amore, c’era la passione per la città, c’era il rammarico, la rabbia e poi tutto quello che stava avvenendo. Per cui la mia macchina fotografica era un come un altro cuore, un'altra testa, non era un mezzo per vendere fotografie, per diventare famosa, era il mio cuore che parlava. Parlava con la macchina fotografica. È stato commovente, molto commovente. Ci penso ancora. Perché il mio trascorrere trentotto anni dolorosissimi, il mio essere intaccata insieme ad altri nella nostra fiducia, nella nostra dignità – perché vivere civilmente vuol dire vivere con dignità, e questi esseri ci macchiavano, ci sporcavano ci corrompevano – è stato molto forte. È molto forte. Esiste. Oggi non si può dire che sussistano residui di mafia. C’è invece una mafia grande, forte, che è diventata più potente ancora, che è dentro le istituzioni, in tutte le istituzioni.
Nel catalogo della mostra organizzata ai Cantieri Culturali della Zisa a Palermo, c’è una frase molto bella di Franco Zecchin che descrive il suo lavoro. Fotografare, egli dice, “era coinvolgimento, osmosi, partigianeria, era scambio di energia, sentimenti, gesti, in maniera travolgente, carica di umanità comprensione e rispetto”. Io le volevo chiedere a distanza di molti anni da quando lavorava come fotografa al quotidiano “L’Ora”, cosa vede ora qui a Palermo e come si è trasformata la città, cosa fotografa oggi?
Il sentimento è sempre lo stesso, quello di cui parla Franco, il rispetto, la comprensione, il coinvolgimento. Io ormai sono un po’ vecchia e non riesco più a fare la cronaca, a raccontare la città. Fisicamente non ci riesco più, ma si sono agitate anche altre cose dentro di me, per esempio il rifiuto di queste fotografie. L’ho avuto qualche anno fa, un rifiuto fortissimo, perché non potevo portarmi dietro sempre queste ferite, averle presenti. Le fotografie sono là, i ricordi sono sempre là.
Allora ho cominciato a fare altre foto. Hai visto qualche “Rielaborazione”? Io lo pensavo e lo penso ancora, lo sto pensando di nuovo di bruciare i negativi, lo penso come un incubo. La notte penso a questa cosa. Perché i negativi sono un po’ come i miei figli, a chi li affido? Che cosa succederà? È come lasciare dei bambini. È brutto, non ci sono strutture in grado di ospitare un archivio, molti fotografi hanno questo problema.
Comunque la città è cambiata, ma indubbiamente sono cambiata anch’io. Sono delusa, perché le cose non sono cambiate. Nonostante Palermo abbia un sindaco molto bravo e devo ricordarlo, egli non ha mai permesso che la mafia entrasse dentro la struttura del comune. Comunque, la ferocia che c’è intorno è tale che le cose buone non vengono valorizzate neanche sui giornali e tutto viene rallentato.
Ti faccio un esempio. Sono in attesa che mi consegnino il “Centro internazionale di fotografia”, un padiglione meraviglioso. E comunque questa cosa che a New York avrebbero fatto in sei mesi o a Milano in un anno, qui è da tre anni che si va avanti.
Io telefono, l’architetto che ha fatto il progetto gratis, Iolanda Lima, una signora della mia età, anche lei chiama, ma ci sono sempre impedimenti che rallentano le cose. Finalmente dopo quasi vent’anni che non facevo una mostra a Palermo, ho fatto questa grande mostra. Sono venuti in migliaia, sembrava una processione.
Incontro la gente che mi dice “grazie”, “grazie”, c’è una parte della città che è meravigliosa, ma c’è ancora questa mafia che blocca tutte le cose che possono fare crescere una società, un popolo, perché a loro non interessa. È come con Andreotti, non gliene fregava niente se qua ammazzavano, lui voleva i voti per la Democrazia Cristiana e la mafia qui glieli garantiva.
Infatti il suo rappresentante in Sicilia, che era l’onorevole Salvo Lima, parlamentare europeo, è stato ammazzato, perché a un certo punto la mafia voleva di più, ma non potevano perché c’era Orlando come sindaco e c’eravamo anche noi allora, c’ero io come assessore. Eravamo innocenti e indifesi per dire la verità…
Comunque oggi la città ha il suo fascino, io non me ne vado, me ne potrei andare a vivere in un’altra città, me lo dico sempre, però non me ne vado. È come se ci fosse una calamita che mi trattiene qua. Faccio tante mostre, ho tanto successo culturale. Sono stata a Roma per organizzare una grandissima mostra, molto più grande di questa di Palermo.
Quando aprirà?
Il 24 novembre. Ci saranno le pagine del giornale “L’Ora”. Stanno lavorando con lo stesso assetto della mostra di Palermo: appenderanno le foto dal cielo, tutte le pareti di uno spazio enorme saranno riempite da piccoli progetti sulla mia vita. Tante cose: i libri che io ho prodotto come casa editrice, i giornali…
C’è un’altra cosa che le vorrei chiedere. Fred Ritchin attribuisce alla fotografia la capacità di anticipare gli eventi, ovvero la facoltà di mostrare le conseguenze di determinate azioni e fare in modo che le persone che osservano queste immagini, possano partecipare al cambiamento del mondo che le circonda. Le sue fotografie hanno un forte valore di testimonianza e di insegnamento. Lei crede davvero che la fotografia possa cambiare il mondo? Qual è il potere che attribuisce a un’immagine fotografica?
La fotografia non cambia il mondo, né la mia fotografia, né quella degli altri, ma come un buon libro, può essere una fiammella. Un libro, un’opera d'arte, un Picasso, una foto, una musica possono essere senz'altro un buon veicolo per la crescita, ma non possono cambiare il mondo. Gli appetiti della guerra, del capitalismo, delle religioni sono così forti, che la fotografia e la cultura sono una parte della lotta ma non bastano a cambiare il mondo. Niente può cambiare il mondo se non la propria coscienza. E poi si cerca di parlare alla coscienza degli altri. I giovani sono molto impressionati dal mio lavoro e questo è bello. C’è quasi una specie di adorazione per me. Lo so, lo sento, anche se non hanno visto nemmeno le mie foto. Credo sia molto importante, è stato molto importante per me, avere dei maestri, dei riferimenti. Per esempio per mia figlia Shobha è stato Osho. Lei lo ha seguito e ha fatto la fotografa come me, ma con un’altra filosofia, perché io sono occidentale come cultura, mentre Shobha propende per la cultura orientale. Insomma si fa quello che si può. Ma sicuramente come la Divina commedia non ha cambiato niente, figurati se una piccola fotografa di Palermo può cambiare qualche cosa.
Lei trasmette entusiasmo, energia, ottimismo. Sono stata ai Cantieri culturali della Zisa. É un luogo immenso. Domenica 8 maggio si è chiusa la sua mostra “Anthologia” allo spazio dello Zac. Sono stati migliaia i visitatori che hanno ammirato le grandi foto esposte. Ho letto che il sindaco Leoluca Orlando le ha consegnato simbolicamente le chiavi del Centro Internazionale di fotografia che verrà aperto qui a Palermo, che lei ha fortemente voluto. Quali sono i suoi progetti per questo nuovo spazio dedicato alla fotografia e alla sua città?
Ecco io vorrei che prima di diventare troppo vecchia e di non avere questa energia, questa voglia di cambiamento e di fare tante cose, desidererei instradare questo centro, vorrei che fosse un centro dove convergesse l’intelligenza per la fotografia, ma anche per la musica, per la poesia, per l’arte visiva. Vorrei che fosse aperto ai giovani e ai vecchi. Non mi piacciono le divisioni nella società. Adoro che i vecchi, le donne, i bambini e i giovani stiano insieme, perché c’è da imparare da tutti. Io posso imparare da una ventenne e una ventenne può imparare da me. E allora vorrei che fosse un luogo dove si cresca, dove arrivino i grandi lavori dei grandi fotografi, grandi nel senso di bravi, nazionali e internazionali.
Vorrei che i fotografi emergenti, quelli che non hanno spazio e che non hanno visibilità, avessero uno spazio dove esporre le loro opere. La galleria, che è molto grande, sarà divisa a sua volta in due gallerie, una per i quattro, cinque eventi all’anno delle grandi mostre e l’altra per le mostre dei fotografi che vogliono farsi conoscere, ma che siano bravi. La qualità è importantissima, così come la disciplina nel lavoro, la ricerca nel progetto. Non vogliamo fotografie superficiali. Nessuna fotografia in stile Facebook, poiché sono prive di cultura fotografica. Talvolta sembrano belle ma non hanno spessore.
Poi, in fondo a questo grande spazio, ci saranno due grandi stanze: una costituirà l’archivio fotografico della città di Palermo. Chiederò a tutti i grandi fotografi del mondo che sono passati da qui, di regalare una o due foto, o quello che vogliono a questa povera città. Poi chiederò ai cittadini, alle famiglie, ai vecchi fotografi di donare delle foto per ricostruire la memoria che si è un poco persa, per realizzare una super struttura di Palermo attraverso la fotografie. Le fotografie degli anni Cinquanta erano meravigliose, se riesco ad averle.
L’altro progetto riguarda l’organizzazione di corsi di fotografia, che significa corsi di cultura, ovvero la fotografia intesa come parte di una cultura più vasta, perché un fotografo se non va al cinema, se non legge libri, se non ascolta musica non potrà mai avere una profondità, potrà avere talento, ma poi non regge, con il tempo il solo talento non regge.
Quindi sarà un centro vivo, vivace.
Sì. Il problema saranno i soldi, perché non ci sono risorse da parte del comune.
Proprio niente?
No, dal comune no. Io lo farò gratis e poi proverò quando ci sarà da pagare l’assicurazione per la fotografa Mary Ellen Mark – poiché me l’hanno chiesta e ci vorrà qualche migliaio di euro – io proverò a dire: “pagatemela, piano piano”. Sarà una lotta continua. Poi cercherò gli amici del “Centro internazionale di fotografia”, vediamo se riusciamo a far convergere un po’ di risorse. Piano piano. È un cammino che spero non venga distrutto dal prossimo sindaco.
Letizia si interrompe per un istante. Mi guarda dritta negli occhi e mi fa una domanda.
Lo capisci come sono le cose nel mondo? Perché se non hai qualche cosa di sufficientemente strutturato, te lo fanno sparire.
Poi mi racconta di un fatto che le è accaduto in passato.
Pensa che io, quando ero assessore, per cui vent’anni fa, avevo trovato nel parco della “Favorita” qui a Palermo, una struttura risalente alla fine dell’Ottocento, che forse erano stalle. Avevo fatto ristrutturare l’edificio con tanto entusiasmo e avevo creato una “Casa natura”, cioè un luogo dove avevamo messo gli attrezzi della campagna e dove i bambini potevano venire a festeggiare i loro compleanni, venire lì con le biciclette, insomma, un luogo dove si parlava di natura, si facevano iniziative sulla natura e con la natura. Era un posto aperto alla festa, si poteva fare quello che si voleva. Poi siamo caduti come giunta e io, negli anni, ho visto che tutto è cambiato. Non era più una “Casa natura”. È diventato un luogo di uffici comunali. Un luogo che ha alberi davanti e dietro, perché è dentro al parco. Cose che per voi saranno naturali, ma per noi apparivano come doni: tutte finite.
Continua a raccontare, senza tregua, con entusiasmo e rammarico…
Ho piantato molti alberi quando ero assessore, davanti al mare. A Porta Felice avevo piantato una settantina di palme, che in vent’anni, forse venticinque erano diventate alte. Era bellissimo, come un palmeto a Tunisi. Patrizia, mia figlia, aveva regalato un pino, che lì era diventato grande, meraviglioso. Un giorno passo di là e non vedo più le palme. Mi dicono che erano ammalate e così le hanno tagliate. Una rabbia… Eppure esiste una cura e con quattordici euro la palma si salva. Hanno tagliato pure il pino che non aveva niente. Hanno tagliato tutto. Perché? Semplice: c’è un progetto su questo spazio. E pensa che quando io ho piantato le palme era uno spazio con le macerie della guerra, davanti al mare, per cui camion buttati, carcasse di animali, sedie rotte, una schifezza. I giardinieri l’avevano chiamata “L’oasi di Letizia”.
Abbiamo prima pulito, messo la terra nuova, portato l’acqua con le autobotti perché lì non c’era. È stato un lavoro di mesi, bellissimo. E poi vederlo distrutto così… Quando sono passata c’erano ancora i tondi dei tronchi tagliati. Fare tagliare una palma significa pagare cinquecento euro, ci hanno guadagnato tutti. Hai compreso? Io ho fotografato questi tronchi. Loro hanno capito perché li ho messi su internet. Ora stanno facendo dei lavori di cui non voglio sapere di cosa si tratta…
Non riesco a fare altre domande. Letizia Battaglia prosegue a parlare animatamente. Non la interrompo, ascolto in silenzio la sua testimonianza. La fotografia e la vita sono talmente intrecciate che ogni dettaglio mi sembra fondamentale per comprendere le sue immagini.
Come fai ad abbattere le palme? Pensa che persino l’Università aveva avuto tantissimi soldi per studiare il punteruolo rosso. Hanno preso i soldi... Un professore di Barcellona ha sperimentato con quattordici euro la cura delle palme. È stato chiamato in varie città d’Italia e ha salvato varie palme. Pensa, a Palermo c’è una villa bellissima in Via Dante, con delle palme, degli alberi verdi, stupendi. Si è scoperto che era gestita da un mafioso. Sai, il mafioso ha curato le palme con quel metodo. E le palme sono lì. Là era il business. Dovevano fare business anche sulle povere palme. Capisci?
Ora mi riaggancio al discorso di prima. Ho paura che una volta che porti avanti questo progetto meraviglioso, che dà onore alla fotografia e a tutti noi, a un tratto qualcuno chiuda e dica: "ma che centro di fotografia!".
Si ferma di nuovo. Ci guarda. Riprende con una domanda.
Seguirete questa vicenda? Vi informerete?
Sì, lo faremo.
Va bene. Abbiamo finito? Hai un fottìo di domande per un’ora.
Bella questa cosa! Faccio in fretta. C’è una fotografia che mi ha colpita. Gliel'ha scattata nel 1976 Franco Zecchin sul luogo di un omicidio. Si vede lei vestita di nero, accucciata.
Sì, sono seduta sulla borsa delle fotografie.
Ha la macchina fotografica in mano e guarda un uomo senza vita sull’asfalto. Cosa c’è nel suo sguardo?
Forse pietà. Sgomento. Ecco: sgomento. Ricordo, ogni volta che arrivavo sul luogo, lo sapevo che era morto, però mi dicevo: "Madonna questo si muove, questo è ferito, questo non è morto!". L’abbiamo pensato per tanti, per Mattarella che era il Presidente della regione e per alcuni giudici. Va beh quello c’era... Ma cosa c’era? Risucchiare l’anima davanti a un uomo morto, che non è morto naturalmente. Io sono una pacifista, impazzisco di dolore per tutte le guerre. Hai sentito del ragazzo ghanese ucciso a Fermo?
Sì, ho letto.
È una cosa terribile, era pure cattolico e quello lo ha ammazzato! Non ho capito come. A pugni? Come? Era anche sposato, sopravvissuto a uno di quei viaggi orribili… E noi, noi, noi l’abbiamo ammazzato. Poiché l’ultra è nostro figlio… Andiamo avanti.
Nel 2012 ho visto la sua mostra a Brescia presso la galleria di Massimo Minini. Erano esposte una serie di immagini chiamate “Rielaborazioni”. Lei sceglie fra le sue immagini dolorose di morti e di tragedia, le fa stampare in grande formato, in modo che le presenze diventino di grandezza quasi naturale e poi colloca davanti ai cadaveri un elemento che ricorda la vita: un corpo di donna, una bambina, un fiore. Cosa rappresentano per lei queste immagini? Desiderio di oblio, di vita, di pace, di rinascita?
Oblio no. Infatti il morto è là. Tutto nasce dal fatto che non sopportavo più di essere così passiva davanti a queste fotografie. Facevo mostre, ma ero passiva. Aggiungere alle foto dei morti le foto dei vivi, dei giovani, dei bambini, delle donne, era un modo per inventarmi un’altra realtà, per spostare il famoso punctum dal morto ammazzato. Una donna nuda è la vita, è una madre, è la terra. Faccio questo: costruisco una realtà, aggiungo a una foto di morte una foto di vita. Un progetto riuscito? Non riuscito? Io ci ho provato.
Alle pareti del suo salotto è appesa una delle “Rielaborazioni”. Letizia me la indica.
Questa è una di quelle che ho realizzato. Io la chiamo il “Gelsomino”. Solo il gelsomino. È fatta in terrazza.
Vorrei chiederle del suo rapporto con le donne che fotografa. Fra le sue fotografie ci sono molti volti di donne e soprattutto di bambine. Penso alla fotografia “La bambina e il buio, Baucina, 1980”, o alla rielaborazione intitolata “Tre donne”: sullo sfondo Rosaria Schifani, vedova dell’agente di scorta Vito Schifani ucciso nella strage di Capaci, il busto di Eleonora d’Aragona di Francesco Laurana e Marta, sua nipote. Che messaggio vuole trasmettere attraverso il corpo e il volto delle donne?
Non un messaggio, ma una necessità. Non penso al messaggio, quello arriva, forse, dopo. Si tratta della necessità di costruire un mondo diverso, di reinventarlo, di sperare disperatamente, Marta è giovane, Rosaria è stata una donna che ha sofferto molto, Eleonora d’Aragona è un simbolo di fierezza nell'arte. Volevo ricostruire il mondo attraverso le donne. Io credo nelle donne. Ci credo perché siamo ormai nelle istituzioni, nelle magistratura, in politica, però non siamo al 50%. Qui la politica è maschile, tutta la gestione delle cose è maschile e a dominanza di pensiero maschile.
Per cui non è possibile che una volta che noi riusciamo a governare, organizziamo tutte queste guerre. Non è possibile. Io voglio crederci. Penso che noi non lo faremmo. Noi non manderemmo i nostri figli a farsi uccidere, anche se certe cose della camorra e della mafia fanno capire che ci sono donne terribili, che credono nella violenza. Ma non sono una stupida, non mi illudo. Ecco: voglio ricostruire in questo modo, voglio cercare di dire qualche cosa anch’io. Perché le parole servono, i libri servono, i saggi servono, i film servono. Tutto serve. Anche la fotografia può servire, io ho questo piccolo mezzo.
Per le bambine è un altro discorso. Le bambine hanno a che fare con me. Quando avevo dieci anni ero felice, libera. Sognavo tante cose: sarei diventata una scrittrice, avrei avuto il principe azzurro. Abitavo a Trieste, la mia infanzia è stata in parte in quella città. Poi siamo tornati a Palermo subito dopo la guerra. Pensa, un viaggio che è durato quattordici giorni. Siamo tornati con un carro bestiame. Sai quei treni, carri per le merci… Allora era così. Avevamo i nostri bauli, le nostre cose. Siamo arrivati a Palermo e abbiamo abitato da mia nonna. Io esco felice per Palermo e incontro un signore che si apre l’impermeabile e mi fa vedere il suo tesoro. Dopodiché corro a casa e lo dico a mia madre e a mio padre. Ho perduto la libertà. Io l’ho perduta. Loro si spaventarono. Dicevano che questi mascalzoni ci sono ovunque, però è capitato a Palermo, per cui il mio sogno non è stato altro che quello di uscire dalla casa di mio padre e di crearmi la mia famiglia. Appena arrivò un giovane che mi amava, così sembrava – avevo quindici anni – ho detto sì. Mi sono sposata, volevo tanti figli, volevo essere felice. Invece le cose sono andate in maniera un po’ diversa. Però oggi, pensando alla mia vita, sono certa di non averla degradata, sono contenta di come sono andate le cose, non mi sono venduta, sono libera, dico il mio pensiero e non ho paura di dirlo, questo rende la mia vita non miserabile.
Ci guarda con affetto.
Siete piccoline. Chi è la più piccola di voi due? Quanti anni avete? Io ho cominciato a 40 anni a fare la fotografa. Questa è una cosa interessante, perché a quarant’anni anni le donne hanno già la strada segnata. È importante per tutte le donne che pensano che valgano solo la bellezza e la giovinezza. Non è così. Lo scopro anche ora che sono vecchia. Puoi ricevere tanto amore, tanta attenzione anche se sei vecchia.
C’è un’immagine di cui vorrei chiederle. “I misteri. La colombina” (Trapani 1989). Cosa si cela dietro il volo della colomba: la leggerezza, il candore? È il suo sguardo?
La bellezza. La bellezza di quello che può succedere. Come è possibile che il bimbo e la colombina si guardassero? La colombina significa che la vita è veramente bella. Non so se è candore. Non credo. La colombina per me è simbolo di vita, è l’animale che vola. È questo: che la vita è bella ed è anche molto faticosa. Va bene? Credo che tu voglia sapere ancora qualcosa.
Sì. Vorrei chiederle delle sue molte attività. Nel 1977 ha aperto con Franco Zecchin il Laboratorio D’If, una galleria con annessa una piccola libreria, nel 1980 insieme ad altre persone dà vita al Centro siciliano di documentazione che successivamente verrà dedicato a Peppino Impastato, poi c’è l’esperienza del giornale “Grandevù. Grandezze e bassezze della città di Palermo”, la casa editrice “La Luna” fondata con alcune donne che si propone di promuovere la letteratura femminile, “Mezzocielo” dapprima mensile e poi bimestrale fondato alla fine del 1991 con un altro gruppo di donne e nel 1992 “Le Edizioni della Battaglia”, una casa editrice finanziata con il suo stipendio di deputato regionale. In particolare cosa ha rappresentato nella sua esperienza lavorare con molte donne e promuovere il loro lavoro?
“Mezzocielo” lo faccio ancora. Poi te ne do una copia. Io ho sempre pensato che le donne non avessero la giusta evidenza nella società, per cui da sempre, già nelle mie foto, io privilegio le donne. La parte positiva delle mie fotografie, quelle che scelgo, è basata sulle donne. Lavorare con le donne è complicato perché esse sono un po’ segnate… Gli uomini le hanno rese un poco diffidenti, un poco gelose… Sono così… Però sento che con loro si può lavorare, fanno di più il loro dovere, non sono sciatte. Perlomeno una parte delle donne, io non ho lavorato con tutte. E comunque se devo compiere un gesto di solidarietà, lo faccio a una donna.
Mi racconta un altro fatto della sua vita.
Una volta, quando ero assessore, venne da me un uomo. “Non so che fare” mi disse, dovrei comprarmi la “Lapa”. Sai cos’è la “Lapa”? È un furgoncino usato per vendere la frutta. “Ma non ho i soldi, può vedere se il comune riesce a fare qualcosa?” mi chiede. “No”, dico, “il comune non ha soldi. Ma vediamo. Quanto costa?”. “Cinquemila euro” risponde. Dissi: “Vieni con tua moglie, parliamone”. Lui arriva con questa moglie che stava sempre in silenzio, poiché parlava solo lui. E allora gli dico: “Guarda, te li do io i soldi, però sono metà per lei e metà per te. Questo camioncino è di tutti e due”. Poi anche se sono atea, siamo andati da un prete di cui avevo fiducia, un prete che è qui vicino e davanti a lui abbiamo fatto questo contratto. Così io ho donato cinquemila euro e loro hanno comprato il furgoncino.
Ti sto raccontando questo, perché io ho voluto dire davanti al marito, che se non ci fosse stata sua moglie, io non gli avrei dato i soldi. Così lei ha avuto la sua parte, poi non lo so come è andata a finire, non li ho più visti. Ecco, penso che le donne hanno bisogno di essere aiutate, di essere sostenute.
Anche le ragazze di oggi, che hanno tutta la libertà del mondo e girano scollatissime, hanno bisogno di aiuto, perché non sono strutturate, la società oggi, e anche la famiglia, non le struttura come persone che devono vivere nel mondo felicemente e dominando… Ma non dominando gli altri, dominando se stesse, come parte di un bellissimo progetto che è questo, venuto fuori nei millenni sulla Terra. E io sono felice che voi due siate donne, mi piace di più.
Grazie!
Ho sempre avuto fidanzati maschi, però le donne mi piace fotografarle da nude, da vestite, trovo che siano più poetiche, io sento che le donne posso fotografarle meglio. L'uomo nudo non mi interessa, non mi attirano i muscoli, ma la leggerezza. Va bene, ora basta. Vi ho detto tutto quello mi piaceva. Il numero di “Mezzocielo” che adesso vi do, è proprio sull’innamoramento. Stavolta l’ho voluto fare io. Dove finisce e perché finisce l’innamoramento? La risposta non l’ha saputa dare nemmeno una psicoanalista. Tu fai pazzie per uno e poi dopo ti dici: "Mah?”, ti pare pure ridicolo. Perché? È solo una cosa chimica? Non lo sappiamo. Ciao, vi do la rivista e ve ne andate.
L’intervista finisce qui, ma abbiamo parlato ancora di noi. Ci siamo date appuntamento a Roma, alla sua mostra. E poi ci siamo abbracciate sulla soglia di casa, come se ci si conoscesse da sempre.