La classe creativa va in vacanza
Tra poco staccherò la spina. Imposterò il risponditore automatico sul mio account email: “Sono disperso da qualche parte sui monti del parco nazionale del Gran Paradiso. Non rispondo fino al 10 agosto”. È quasi la fine di luglio, la mattina apro il computer e mi chiedo come mai mi arrivino così poche email. È il segnale che anche gli altri, intorno a me, stanno staccando la spina. Per fortuna. Vuol dire che il lavoro per cui viviamo non ci ha ancora del tutto sopraffatto.
Jonathan Crary ha sostenuto recentemente nel saggio 24/7. Late Capitalism and the end of Sleep che il mix di capitalismo, informatizzazione del lavoro e connessione continua alle reti di comunicazione digitali non solo sta facendo scomparire il tempo libero ma sta anche penetrando nel dominio del sonno. Siamo, secondo Crary, una società senza più tempo libero, senza distinzione tra spazi di vita e spazi di lavoro, e ora anche deprivata del sonno necessario: se il capitalismo degli albori si era annesso il tempo di lavoro degli operai estraendone quel surplus che sarebbe andato ad accumularsi sotto forma di nuovo capitale, il capitalismo informazionale si sta annettendo invece il nostro sonno, l’ultima frontiera dell’attività umana non ancora messa a valore.
La cultura del 24/7, come la chiama Crary, penetra negli spazi di vita, colonizzando il sonno, le ultime ore di vita non “produttive”. Ne è un esempio, tragicomico, la famosa striscia di Zerocalcare, la fascia oraria delle Bermude, nella quale il protagonista si mette al computer alle 9 di sera per stare al lavoro pochi minuti e quando rialza la testa sono già le due di notte. Una situazione che tutti abbiamo vissuto.
Per fortuna però, sto per andare in vacanza. Andarsene in vacanza (“vacanza”, e non “ferie”, perché in “ferie” ci va chi ha uno stipendio mensile e le “ferie” pagate) allora significa anche decidere di sottrarsi, per qualche giorno, alla produzione di PIL globale. Ritrarsi, sottrarsi, svicolare, declinare, abbandonare. Lavorare con lentezza e indossare i panni di Bartleby: “I would prefer not to”. Preferirei di no. Non rispondere alle email (io sono ossessionato dal dovere di rispondere alle email in giornata, in nove anni di Google mail ho accumulato solo 21 messaggi non risposti, una nuova forma di stakanovismo). Allentare i ritmi, staccare la spina.
Sui monti porterò solo un libro, che ho appena iniziato: Fra i boschi e l’acqua di Patrick Leigh Fermor, il seguito di Tempo di regali, racconto autobiografico del giovane Patrick, che nel 1933, a 18 anni, parte a piedi da Londra, zaino in spalla, con l’idea di attraversare l’Europa a piedi e giungere a Costantinopoli. Patrick è il padre di tutta la narrativa di viaggio (per intenderci, Chatwin ha iniziato la sua carriera prendendo esempio da Fermor) e senza saperlo è arrivato in anticipo di decine d’anni sul revival del cammino come pratica culturale ed esperienza simbolica (si pensi alla recente popolarità dei vari cammini di Santiago, vie francigene, via danubiane ecc…).
Fermor scrive del suo viaggio a trent’anni di distanza, recuperando i diari dell’epoca e romanzando un po’ su. È un ricco rampollo di una famiglia aristocratica inglese, inconcludente a scuola ma curioso del mondo che decide di mettersi nei panni del viandante povero, affamato e felice, una sorta di antenato europeo dei beat e degli hippie (il suo cammino verso la Turchia ha molti tratti in comune con i racconti degli hippie sui magic bus in rotta verso l’India via Istanbul). Battuto e beato, attraversa l’Europa dell’est sempre a piedi, a volte a cavallo, mai in macchina.
Dorme nei fienili, cammina solitario per giorni e notti intere e si accampa con gli zingari ma viene anche ospitato dalle più ricche famiglie mitteleuropee nelle loro ville di campagna (gli status sociali non si cancellano facilmente). A Vienna fa ritratti a domicilio per sopravvivere, a Praga e Budapest viene introdotto in società, studia nelle biblioteche sterminate di nobili rumeni decaduti, impara la storia d’Europa non davanti alla lavagna ma “attraversando” la lavagna, finendo nel mondo in 3D che quella lavagna in 2D può soltanto illustrare. Invece di star seduto ad ascoltare, impara “facendo”. Come i maker di oggi.
Non è epico, ma è avventuroso e a volte lirico. Per me che ho iniziato a leggere con Verne e Stevenson è come tornare lì, sull’amaca del giardino di casa, d’estate, con le cicale che risuonavano forte a dondolarsi e gingillarsi con un libro in mano, a sfuggire dalle lame del sole che filtravano attraverso gli alberi e fuggire per finta su un vaporetto diretto alle Figi o esplorare con gli occhi di Fermor la steppa ungherese.
Quando scenderò dai monti troverò invece rifugio da amici prima in una casa in Lunigiana e poi in Abruzzo, in un paesino che si chiama Guilmi e che ospita il Guilmi Art Project. In quei giorni proverò a leggere, senza garanzie di arrivare in fondo, Illusioni Perdute di Balzac. Racconta del fallimento esistenziale di un giovane di provincia alla ricerca di amore e gloria nella Parigi del diciannovesimo secolo.
Da buon provinciale emigrato in città in cerca di fortuna questa è chiaramente una storia in cui cercare risposte al proprio presente, ma in realtà l’ho preso soprattutto perché un amico me l’ha consigliato così: “è un libro che descrive la precarietà della classe creativa della Parigi dell’Ottocento: giornalisti, scrittori, attori, registi, tipografi; imparerai che per certi, versi, nulla è cambiato”.
L’estate che ho davanti sembra un film. Tragicomico. Dal titolo La classe “creativa” (e precaria) va in vacanza. Buone vacanze a voi tutti.