La cura Ludovico. Su Fantastic Machine
Fantastic Machine di Axel Danielson e Maximilien Van Aertryck più che essere un documentario soddisfa la definizione di film-saggio. Come si sarebbe detto una volta, è una ricognizione sulla natura della fotografia, del cinema e in generale delle immagini in movimento che oggi – come in La rosa purpurea del Cairo – sono saltate fuori dallo schermo della sala per vivere dovunque dentro le nostre vite quotidiane. Il titolo originale suona And the King Said: “It’s a Fantastic Machine” e cita il buon Edoardo VII che così si espresse vedendo le riprese della sua incoronazione girate da George Méliès. Incoronazione ricostruita e girata in studio ma proposta come “vera”: e infatti, il resto della battuta del re, in perfetto stile british, precisava che la macchina era fantastica nel senso che aveva documentato anche cose che non erano mai successe. Era l’inizio, come si intuisce, di una dialettica della “realtà” del cinema che arriva fino a noi.
Il film è una coproduzione svedese e danese che è giunta in Italia dopo aver avuto molto successo nei festival internazionali, tra i quali la Berlinale e il Sundance. Successo comprensibile per l’idea di fondo e per il bisogno di riflessione a cui induce; un po’ meno, nell’opinione dello scrivente, per la realizzazione vera e propria che è gradevole e molto “entertaining” ma, come dire, un po’ leggerina. Il colpo di scena e la ragione per cui Fantastic Machine diventa davvero interessante, però, avviene quando cominciano a scorrere i titoli di coda.
È allora che si capisce l’enorme varietà delle fonti da cui ha attinto il montaggio (di riprese originali ce ne sono molto poche). Infatti inizia una serie lunghissima di credits che citano la fonte dei materiali utilizzati. È un elenco spropositato, che muove a due considerazioni che hanno a che fare proprio col tema del film ma che il film considera in qualche modo implicite: eppure sono le più interessanti. La prima, appunto, riguarda il numero enorme di fonti, che solo in minima parte sono archivi istituzionali, mentre la grande maggioranza riguarda soggetti privati, da youtuber professionisti a singoli cittadini. Non c’è modo migliore per dimostrare quanto diffusa e (spesso paranoicamente) continua sia la produzione di immagini nell’universo mondo. Chiunque filma qualcosa e lo mette in rete. È un cambiamento epocale e se ne accorge soprattutto chi, come il sottoscritto, fa il documentarista. Eravamo abituati a un tipo di ricerca di materiale d’archivio strutturata secondo una certa logica. Intanto, gli archivi non erano molti ed erano conosciuti; e spesso specializzati su certi temi. Inoltre, prevedevano che chi li utilizzasse organizzasse la propria ricerca secondo certi parametri, talvolta suggeriti dalla struttura stessa dell’archivio. Certo, c’era sempre anche una certa misura di aleatorietà e spesso di serendipity nel lavoro, ma grossomodo la ricerca era un processo investigativo. Vedendo Fantastic Machine viene invece il sospetto che, per argomentare le loro tesi, il lavoro degli autori sia stato piuttosto una pesca a strascico nell’oceano del web, con un elevato quoziente di casualità rispetto alle aree di pesca in cui si sono gettate le reti. E la sensazione è che avrebbero potuto usare materiale del tutto diverso ma di fatto equivalente. Non lo si dice a critica, ma come un affascinante dato di fatto.
La seconda considerazione è strettamente legata alla prima ed è, ancora, un cambiamento di fondo rispetto al lavoro del documentarista tradizionale. Si tratta del problema della cosiddetta “liberatoria”, e cioè della possibilità di mostrare immagini girate da altri in un contesto diverso dall’originale. L’acribia con cui sono compilati i titoli di coda di Fantastic Machine non indica se in tutti i casi sono stati pagati dei diritti, ma certamente testimonia che per ogni singola immagine si è andato a cercare chi ne era il proprietario negoziandone con lui l’utilizzazione secondaria. La stessa cosa si può dire di un secondo, ancor più lungo elenco di materiali che i produttori dicono di avere utilizzato in base ai criteri di licenza dei Creative Commons. Quello che voglio dire è che non solo oggi l’Archivio delle Immagini assomiglia alla biblioteca di Babele di Borges, ma che paradossalmente ogni fotogramma di questo immenso puzzle costituisce una proprietà privata sottoposta a una trattativa. In altre parole: la libertà di creare immagini va di pari passo con la rivendicazione del loro possesso. Che è una curiosa eterogenesi dei fini rispetto alle antiche teorizzazioni “democratiche” di chi è cresciuto negli anni ’70, quando si voleva mettere in mano al popolo i “mezzi di produzione” delle immagini per toglierne il monopolio al Potere. Naturalmente questo non significa nemmeno che tutti diventino ricchi con lo sfruttamento delle immagini che producono. Al netto degli youtuber professionali, il mare magnum di coloro che pubblicano sulle varie piattaforme funziona esattamente come “l’esercito industriale di riserva” di marxiana memoria: fornisce la massa dalla quale emergono gli imprenditori che si arricchiscono. Sempre per rimanere nella metafora dell’oceano, sono essi stessi a costituire l’acqua, trasparente e anonima, in cui si muovono i pesci, siano sardine o squali.
Fantastic Machine meriterebbe di essere mostrato in ambito didattico a molti giovani utilizzatori di smartphone che, come si evince dalle sequenze iniziali, sembrano ignorare anche basics elementari dell’ottica quali la camera oscura. Proprio qui sta una delle contraddizioni più curiose della rivoluzione digitale: aver creato generazioni ipertecnologiche che però ignorano la vera natura della materia, dalla fisica alla meccanica. Dichiarano i registi: “Mentre prospera il consumo di immagini senza approccio critico, sperimentiamo che il mondo diventa sempre più polarizzato. Dal 2010, il numero di paesi che si sono trasformati in dittature è superiore a quelli diventati democrazie: anche per questo motivo, l’UNESCO ritiene che ‘l’alfabetizzazione mediatica’ debba rientrare tra i diritti umani, abbia cioè un ruolo di rilievo nel contrastare queste tendenze preoccupanti. D’altra parte, anche nelle nostre scuole viene dedicato pochissimo tempo all’interpretazione delle immagini e all’apprendimento dei meccanismi del linguaggio visivo”. Non si potrebbe dir meglio.