Favola laica di Rossana Rossanda
Era l’estate del 1992. Il primo pensiero, per la memoria umana o per quella automatica che nutre o disturba i nostri scritti, va agli eventi che cambiarono l’Italia e il mondo. Le stragi di mafia, il gabinetto reale di Mario Chiesa che fece finire la prima repubblica e il gabinetto di governo di Amato che con quattro deleghe cambiò la costituzione economica, l’elezione del giovane Clinton alla Casa Bianca…Era estate e nell’eremo di Monte Giove, presso Fano, i monaci camaldolesi ospitavano, come consuetudine da anni, un gruppo di amici e intellettuali. Il tema era: Morte: paura e dolore. Tra gli altri e le altre, partecipavano Rossana Rossanda e Filippo Gentiloni, che hanno poi raccolto il loro personale frutto di quelle riflessioni in un libro, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalità (Pratiche editrice, 1996). Due contributi separati, e volutamente (“abbiamo rinunciato a gettare ponti tra le nostre pagine. Sia perché i ponti avrebbero avuto il significato di mediazioni tendenti a tirare le parole da una parte o dall’altra. Sia perché il lettore, se vorrà, costruirà i ponti che a lui, più che a noi, sembrano opportuni”).
Il secondo pensiero, adesso che sia Rossanda che Gentiloni sono morti, va alla bellezza delle loro vite. Una donna e un uomo nati nello stesso anno, il 1924, di estrazioni diverse – comunista, lei, cristiano, lui –, entrambi attivamente impegnati nella vita pubblica e nella discussione politica, nel pieno degli sconvolgimenti di quegli anni trovavano il tempo, la forza e la volontà di ritirarsi in un eremo per dialoghi difficili e profondi, apparentemente privatissimi. Apparentemente. Filippo – mi scuserete se ogni tanto uso il nome, ho lavorato con entrambi e avuto il privilegio della loro vicinanza – la prende subito di petto, la dimensione pubblica, e scrive: “La morte non è uguale per tutti. (…) Forse si dovrebbe parlare di ‘morire’ piuttosto che di morte. Il morire è diverso secondo i luoghi e i tempi, dipendente dalla storia e dalla geografia. Nello stesso luogo e tempo, è diverso secondo le età, il sesso, soprattutto la classe sociale”. Rossana ricorre invece a una favola, intitolata Amar.
Erano giorni e pagine fitte, i dialoghi di Montegiove. Di quel pezzo della biografia di Rossana ha parlato un altro grande intellettuale, il sociologo Peter Kammerer, nella cerimonia che si è tenuta a Roma in aprile in occasione del centenario della nascita di Rossanda (la registrazione dell’evento è nel sito rossanarossanda.it). La pagina scritta nell’estate 1992 si ritrova nella ripubblicazione recente del contributo di Rossanda al libro prima citato, ed è Amar. Favola laica (Marsilio 2024). Come scrive la stessa Rossanda in Introduzione ad Amar, “questa favola è frutto del disagio. Non mi riusciva di scrivere se non in forma fantastica che, se non morissimo, non conosceremmo niente di simile alla vita che tanto ci è cara. Eppure è un’evidenza”. Così come è un’evidenza il cambiamento della morte pensata nelle varie tappe della (sua) vita: la stupita incoscienza dei bambini, il confuso romanticismo dell’adolescenza; la collera dei giovani; la morte massiccia della guerra (“quando finisce la morte per grandi numeri non sei uno che piange, sei un malato che ha un rabbioso bisogno di guarire”); la morte dei genitori, la sola “prevista e razionalizzata”, ma un vuoto in cui si sprofonda. E poi l’età dei vecchi, in cui la morte cambia e lo “scomparire degli altri ha un suono diverso”. Rossanda racconta che si trovava in questa zona quando ha intersecato due morti di troppo, due persone care morte senza pacificazione. Per loro ha portato le riflessioni di Monte Giove in una favola, che ci porta nel luogo e tempo di Amar, medico allievo di Ben Maimon. A trentacinque anni, Amar lavorava e seguiva le lezioni del maestro “nello studio delle malattie del corpo e dell’animo”, aveva incontrato diverse morti che gli avevano dato sgomento ma non amarezza. Ma poi si ribella rabbiosamente alle morti tragiche di due figli, ne chiede conto a dio e fa un patto con lui: l’immortalità. Ecco la favola dell’uomo che non muore, e che vuole accumulare sapere per curare quanto più possibile, e dilatare la vita degli uomini. Attraversa il proprio tempo, e tutti i tempi che seguono. Il solo modo per farlo è passare da una vita all’altra, spostandosi e ogni volta incontrando nuovi tempi e relazioni. Il suo “salvacondotto” lo può esercitare ogni volta allontanandosi. “Doveva vivere tra due tempi. Il suo non era di nessun altro, e quello degli altri divenne il suo, perché soltanto in quello si comunicava e operava, ed egli aveva voluto l’immortalità per sapere e comunicare e operare”. La favola è breve e densa, e sarebbe sbagliato riassumerla togliendo a Rossanda la magia delle parole. Ma questo trascorrere di Amar, sempre più ansiosamente e rabbiosamente, di vita in vita, ogni volta “andando a morire altrove”, solleva un pensiero non sulla morte ma sulla vita, che è fatta di relazioni, e allora a che vale vivere per sempre se gli altri muoiono per sempre?
C’è un grande amore per la vita, in Amar-Rossanda. Dalla favola alla vita reale: Rossanda accompagnò nel 2011 il suo amico e compagno di impegno politico Lucio Magri a morire in una clinica svizzera. Lui glielo chiese e lei rispettò e aiutò quella scelta; e raccontò in una intervista a Repubblica, intitolata “è stata la bellezza del mondo a salvarmi dal fallimento politico”: “quando Karol (suo marito, ndr.) era bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e della campagna e tornare la sera”. Dalla vita reale alla favola: Amar continua a vivere da un tempo all’altro, e si pone il problema della memoria. Il suo scopo è imparare quanto più possibile, “saperne ogni vita di più”, per rimediare ai mali, ogni vita di più. Interessante, come nota nella postfazione Maria Fancelli, che la sola invenzione che viene ricordata nell’attraversamento dei secoli di Amar è la stampa: “si rallegrò quando le parole si fermarono agevolmente sulle pagine, vennero riprodotte e poi si moltiplicarono memorie artificiali e comunicazione”. Lui, Amar, era dalla parte delle tecniche che potevano aiutarlo, “scettico su quel che facevano ma contento che lo facessero”. Ma le usavano solo gli scienziati; gli altri, gli umani, sembravano ricominciare sempre daccapo. Qui la lettrice si ferma un attimo, irrompe il pensiero molesto di ChatGBT, alla portata di tutti e non solo degli scienziati: che ne avrebbe detto Rossanda? Alla fin fine, una memoria del passato, potentissima, indistruttibile, immortale. O sarebbe stata un’altra via della maledizione di Amar, un’altra beffa del dio dispettoso che gli aveva offerto quel patto? Propendiamo per la seconda, con le parole di Amar: “Essere immortali non significava che vivere sempre come si era vissuti, in un perimetro non oltrepassabile, non significava capire di più, sapersi rispondere”. E il finale della favola a questo punto si può intuire, ma va letto per la sua struggente bellezza.